Si rivela ulteriormente scomposto, imprevedibile, sfuggente The Rule of the Game, il nuovo film di Ho Ping, sguardo deviante nel dark side del cinema taiwanese contemporaneo, già autore di almeno due ottimi film come 18 (1993) e Wolves Cry Under the Moon (1997). Più abbagliato e solare di quanto fosse il sonnambolico e lunare film del 1997, The Rule of the Game è una black comedy splendidamente squadernata sull'intreccio dei casi di accidia, rabbia, furore, sopraffazione, sopravvivenza, gelosia, amore, opportunismo, indolenza di un pugno di personaggi sospesi su un destino di morte, che, loro malgrado, li attende inesorabile. Due amici perdigiorno, Chewy e Turtle, progettano di uccidere un ricco commerciante truffaldino che ha fatto uno sgarbo a uno di loro, ma finiscono col trovarsi per le mani il cadavere di un killer che hanno casualmente fatto fuori al culmine di una rissa scoppiata per motivi di sesso. A sua volta il commerciante finisce nelle grinfie della sua compagna, la quale, assieme al giovane amante, lo sequestra e lo scarrozza, chiuso nel baule della sua automobile. Intanto l'intreccio si sviluppa a fisarmonica, aprendosi e chiudendosi sugli eventi che accadono secondo "regole del gioco" che, renoirianamente, (non) disciplinano il caos di un mondo sospeso sull'assurdità inconciliabile della propria Storia: al posto della vecchia Europa di Renoir, c'è qui la Taiwan contemporanea, un paese in bilico su un'identità storica e culturale che non si riesce a riconoscere... Il film conferma in Ho Ping uno dei nomi forti dell'attuale cinema taiwanese: lucido e determinato nel concepire le sue opere, figurativamente e concettualmente preciso e consapevole, imprevedibile architetto di uno sguardo senziente e riflessivo sulla realtà interiore di un paese, rappresentato in chiaroscurale tensione. Presentando The Rule of the Game dici chiaramente che si tratta di un film sulla condizione della tua generazione a Taiwan. Puoi raccontarci qual è il tuo rapporto con il tuo paese, la tua generazione e la sua cultura? Io sono un immigrato di seconda generazione dalla Cina continentale. Questo significa che i miei genitori sono cinesi trasferitisi a Taiwan e che io ci sono nato e cresciuto. La mia famiglia, i miei parenti, quasi tutti i miei amici provengono dalla Cina e io sono sempre stato colpito dal fatto che molti di loro, pur vivendo qui, si sentissero cinesi e dicessero di essere intenzionati a tornare indietro. Tutto questo, sin da quando ero giovane, mi ha fatto sentire confuso, spingendomi a pensare a me stesso come a un cinese, anche se io, naturalmente, sono del tutto taiwanese... Dunque The Rule of the Game racconta di persone come me, cinesi continentali di seconda generazione, che ho cercato di rappresentare in due tipologie differenti, affidate ai due personaggi principali del film: da una parte c'è Chewy, dall'altra Turtle. Turtle è un tipo che non riflette troppo: è cresciuto pensando solo a come fare soldi; e la maggior parte dei personaggi del film sono come lui. Chewy, invece, è un tipo che forse non vuole fare soldi né è interessato a raggiungere una posizione sociale di potere, ma è totalmente preso tra la Cina e Taiwan: è andato in Cina in cerca di un futuro, ma ne è rimasto deluso ed è tornato a Taiwan, portandosi dentro una grande indifferenza per i taiwanesi. Una delle cose che colpisce maggiormente del tuo film è il fatto che sotto l'aspetto narrativo ti diverti a infrangere ogni regola della struttura, variando spesso il punto di vista, prendendo percorsi imprevisti, spostando l'attenzione su personaggi sempre nuovi. Credi che questa maniera di raccontare la storia dipenda anche dal tuo punto di vista sulla realtà taiwanese contemporanea? È come se, dal momento che non c'è continuità nella realtà taiwanese, tu non potessi raccontare la storia dei tuoi personaggi seguendo una traccia unica... Sì, è proprio come Ox, il killer, che con il trapano fa il buco nel muro del bagno in corrispondenza del punto in cui si troverà il tizio che deve uccidere, ma poi, anche se ha organizzato tutto per bene, perde la mira perché il tale che deve essere ucciso si sposta all'ultimo momento... Il fatto è che, secondo me, a Taiwan tutti si affannano per fare soldi e avere potere, ma fatalmente nessuno riesce a prendere ciò che vuole davvero, finendo per ottenere qualcosa di diverso da ciò che aveva programmato... Pensando anche a Wolves Cry Under the Moon, mi sembra che tu usi la commedia come un modo diverso per raccontare una situazione triste... Penso che, se i sentimenti sono tristi, devo presentarli in una maniera umoristica. Credo che ciò permetta alla gente di riflettere sulle cose, perché si evita di farla sprofondare in quel sentimento: se con l'umorismo tiri fuori il pubblico dalle situazioni tristi che rappresenti, puoi tentare di farlo pensare. È un po' come nel film, in cui le relazioni tra i personaggi sono segnate dal fatto che le cose brutte accadono per caso, quando non le hai previste... Grazie all'umorismo mi sembra di poter ancora tirare fuori qualcosa di positivo dalle relazioni tra le persone. Infatti il tuo sentimento nei confronti dei personaggi è ironico ma non cinico: mostri simpatia per loro, ma si sente anche una certa distanza dal loro modo di comportarsi... Tutti pensano di poter tenere sempre sotto controllo il loro comportamento. Invece io non credo che sia possibile, perché noi siamo troppo «piccoli» e la nostra vita si verifica nostro malgrado. Chi crede di avere sotto controllo la propria esistenza commette un errore: le nostre azioni a volte sono strane, a volte sbagliate, a volte divertenti; ma quando accade qualcosa di sbagliato nella nostra vita o ci riprendiamo o veniamo seppelliti. E ciò fa sì che la storia vada avanti... Una delle scene più belle di The Rule of the Game è quella in cui il giovane rapitore sta morendo tra le braccia di A-Mei, la sua ragazza, e dice: "Se avessi saputo che morire è così dolce, lo avrei fatto prima"... Da dove viene questo momento così denso, inatteso ma anche umano, che rende molto reale questo strano personaggio di moderno «cowboy»? Sono sempre stato curioso della vita e della morte: sempre di più, man mano che crescevo... Penso che magari la morte è una cosa bella e che forse la gente è solo spaventata da ciò che è imprevedibile, inatteso. La gente comune ha paura della morte perché è qualcosa che giunge in maniera non prevedibile; ma forse poi non c'è motivo per essere così spaventati. Forse morire può essere bello, forse si va in un posto dove è peggio se si arriva preparati... Rispetto a questo argomento la gente è accecata dalle solite paure e non è in grado di pensare al momento del trapasso come a un momento magari felice o sorprendente. Per questo mi piaceva l'idea di questi due personaggi – la ragazza e soprattutto il «cowboy» – in grado di capire che forse la morte è bella... Nel tuo film i personaggi sembrano immersi in una sorta di terra di nessuno, ma ciò che colpisce è il contrasto tra questa indefinitezza delle location e la tua capacità di definire in maniera molto forte lo spazio di ogni inquadratura. Non volevo girare il film in una grande città. Generalmente le metropoli sembrano tutte uguali: Berlino, Parigi, New York... A Taiwan c'è Taipei e poi c'è anche molta campagna, con i campi di riso e tutto il resto: ma tra queste due aree ci sono anche delle zone in cui si sono sviluppate delle tipiche cittadine, dove trovi tutto ciò di cui hai bisogno, ma che non hanno niente di bello e danno una forte sensazione di anonimato. In questi posti c'è anche molta natura, con alberi, fiori, erba che cresce dappertutto. Mi piaceva l'idea che in mezzo a quella natura così rigogliosa la gente si uccidesse a vicenda. Mi sembrava divertente mostrare delle persone che si fanno fuori in un contesto bello, piacevole... Quando giri prepari uno story board? No, in realtà di solito riscrivo del tutto la scena, prima di andare a girare. Ma questa volta non l'ho fatto, perché avevo già trovato le location giuste e, una volta che ho scelto gli interpreti, ho solo preso lo script, ho discusso con gli attori a proposito della costruzione della storia e sono andato sul set. Te lo chiedevo perché il tuo modo di costruire l'inquadratura mi sembra molto preciso, studiato... Ho riflettuto su ogni angolazione di ripresa e ogni movimento di macchina, ma non ho mai disegnato uno story board. In un film a basso costo come questo – con un budget 300.000 euro – quando giri non hai tutto sotto controllo. Per esempio, è capitato che, dopo aver programmato di girare una scena in una location per un'intera giornata, ho dovuto dimezzare i tempi e così ho finito per essere molto più veloce di quanto preventivato. Ma devo dire che per me questa sfida è stata anche un beneficio, perché mi ha messo nelle condizioni di essere molto intuitivo su ogni cosa. La sequenza di sesso tra Turtle e la moglie di Ox è molto bella, forte ed esplicita. In parte è girata in video: perché? Per questa sequenza volevo avere una doppia qualità di immagini, perché contiene due punti di vista differenti: uno rappresenta la situazione reale, con Turtle e la ragazza che fanno l'amore; l'altro mostra la scena secondo l'immaginazione di Chewy. E poiché non avevo soldi sufficienti per fare qualcosa di speciale, ho deciso che, per dare una sensazione differente, le inquadrature relative all'immaginazione di Chewy fossero realizzate riprendendo da un monitor con la telecamera digitale le scene che avevo girato sul set con la videocamera. Sicché i titoli di coda, che scorrono sulle immagini elettroniche, ci lasciano nella fantasia di Chewy... (Ride) Sì, può essere... Forse sta ancora immaginando... È anche la tua immaginazione? Intendo dire: il tuo punto di vista sulla storia è soprattutto quello di Chewy? Sì, in effetti è così... In fin dei conti, per metà il suo punto di vista è molto simile al mio: rappresenta la mia stessa confusione, le mie contraddizioni interiori... In realtà, mi chiedo perché al montaggio ho deciso di utilizzare le immagini girate in video solo nella scena di sesso, dal momento che per l'intera durata delle riprese ho utilizzato sul set sia la camera 35mm sia la videocamera... La tua idea originaria era dunque di girare l'intero film sia in video sia in pellicola? Sì, ma poi, al montaggio, ci ho rinunciato. Non so perché... Magari hai sentito il bisogno di preferire immagini con una qualità fotografica, piuttosto che elettronica, perché avevi bisogno di una luce più realistica. Il tuo rapporto col colore è sempre molto intenso, ma ho notato che – rispetto a Wolves Cry Under the Moon, che aveva una fotografia notturna e cromaticamente molto caratterizzata – in questo film hai optato per una luce più vivida, solare. Può essere... Forse per me Wolves era più simile ad un sogno, mentre questo film è più una storia quotidiana, fatta di cose sorprendenti, di incidenti che accadono ogni giorno... Per finire volevo chiederti di dirci qualcosa degli anni in cui hai studiato cinema in America, alla Syracuse University di New York. Cosa ricordi? Ne sei stato segnato in qualche maniera? Non ci facevano vedere molto cinema «main stream». Ci mostravano invece film indipendenti: come quelli di Godard o di altri filmmakers sperimentali. Devo dire che durante quelle proiezioni a volte mi capitava di addormentarmi... Ma poi, quando sono tornato a casa e ho iniziato a fare film, mi sono accorto che quei cinque anni hanno lasciato qualcosa in me. Mi hanno insegnato a guardare la realtà da un altro punto di vista. Ne sono stato segnato in una maniera inconscia... |