"Nel cinema di John Woo l'uomo è costantemente il metro dell'orrore." Windtalkers di John Woo.
AL COSPETTO DI JOHN FORD
«Quando la pace dura da troppo tempo si finisce per rimuovere i ricordi della guerra, per scordare come debba comportarsi un uomo nelle situazioni di pericolo». (Yukio Mishima, «Lezioni spirituali per giovani samurai») Nel cinema di John Woo l'uomo è costantemente il metro dell'orrore. La perdita si quantifica in dolore che la messinscena esemplifica in geometrie balistiche e action painting emàtico. La guerra, dunque, è il macromitologema del cinema di John Woo in quanto portatrice di caos e morte. E in quanto tale denuda l'uomo delle sue difese "culturali" e lo interfaccia immediatamente con la sua finitezza, con la sua materia, con il suo essere per la morte. Nella dialettica della messinscena della morte di John Woo, oscillante tra il feroce elogio del sangue e della morte violenta di Zhang Che e la pietas cristiana, Windtalkers inserisce, di peso, un nuovo elemento: l'umanesimo fordiano tematizzato dall'incipit e dall'epilogo, girati proprio a John Ford's Point nella Monument Valley. Se tematicamente la guerra è presente nel cinema di Woo sin dal suo primo film (il quasi invisibile Young Dragons), declinata poi con il trascorrere degli anni in forme sempre più astratte, il richiamo all'autorità morale di Ford segna uno scarto interessante. Anche se Windtalkers, a tratti, ricorda di più Raoul Walsh (Obiettivo Burma su tutti) e Sam Fuller non vi è estraneo (il sangue nell'acqua che segna una cesura spazio-temporale e richiama l'orologio sulla spiaggia de Il grande uno rosso), è il magistero fordiano che è fermamente invocato. Intanto, c'è l'esercito che, come la cavalleria dei Buffalo Soldiers, è il luogo dove si verifica la tenuta del meticciato statunitense e poi, soprattutto, la fantasmizzazione dell'identità pellerossa. Come in molto cinema di Ford, i protagonisti di Windtalkers si scambiano le rispettive identità. E, se nei noir urbani di Woo la cosa recava con sé tracce evidenti dell'attrazione omosessuale che alligna nel cinema maschile sin dai tempi di Howard Hawks, in Windtalkers il feticismo dell'amicizia virile si decanta in una sorta di strategia mimetica che conduce il protagonista, ritornato in vita per poter sperare di affrontare la morte dopo aver riscattato i suoi peccati (il massacro dei commilitoni), ad assumere l'identità dell'uomo della cui vita e morte lui è stato eletto custode (il ritornante tema dell'angelismo di Woo). Così come Ethan Edwards in Sentieri selvaggi si trasforma di fatto nell'alter ego di Scar, Enders non solo diventa Yahzee, ma, sacrificatosi per il suo codetalker («Non muore più nessuno», afferma), si mostra degno della sua morte e, ascendendo al cielo della Monument Valley, lì dove risiede il principio di tutte le storie (del cinema), può assurgere finalmente a principio mitopoietico della sua stessa memoria affidato al figlio del navajo (e in questo senso il finale del film richiama quello di Face/Off, altro film che rifletteva sul diventare altro da sé). Straordinario come il precipitato politico di tale posizione – l'America che deve prima diventare il popolo pellerossa, ossia assumere, riconoscere la propria colpa originale per poter (sperare) di vincere la guerra (il codice, una lingua che reca con sé la memoria del genocidio) e quindi morire e invocare un'impossibile remissione dei peccati – evidenzi un'ideologia genuinamente cristologica: Enders privato del fardello della sua carne diventa un mitologema, il racconto fondativo di un'altra America che non è stata e che nella guerra ha purificato (avrebbe potuto purificare) le sue colpe. Windtalkers è il film attraverso il quale John Woo, ripensando il genocidio indiano nelle forme di un dramma bellico, non solo ricontestualizza la sua posizione in seno all'industria hollywoodiana (il suo cinema come un linguaggio in codice apparentemente decifrabilissimo, ma in realtà oscuro e labirintico), ma offre al cospetto di John Ford le proprie strategie mimetiche invocando così la cittadinanza nella tradizione maggiore del cinema. John Woo, quindi, continua a dissimulare la propria voce e la propria identità (esattamente come faceva a Hong Kong) offrendo così l'immagine più dolorosa e densa di un esilio che, proprio nelle forme di un magistero stilistico inusitato, distilla un dolore lancinante che àncora il suo sguardo alla materia dei corpi. È dunque proprio per questo motivo che la dissolvenza incrociata che permette a Enders di ascendere al cielo commuove: abbandonato il fardello della carne, l'anima perde finalmente la macchia della guerra, che diventa così solo una chanson de geste trasmessa a un bimbo navajo che, a dispetto di quanto fatto dai discendenti dei padri fondatori nei confronti dei pellerossa, saprà conservare in vita la memoria di un uomo bianco che ha saputo riscattare le sue colpe. |
Giona A. Nazzaro
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