Nonostante la forte riconoscibilità che ha il cinema iraniano nel mondo, ogni regista si differenzia per scelte dei soggetti e per stile. Qobâdi sceglie una via percorsa da pochi suoi colleghi: l'assoluta essenzialità della rappresentazione. Non un'inquadratura di troppo, non una spiegazione in più.
VARIAZIONI DI STILE E DI SGUARDO: IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI
di Bahman Qobadi
Il cinema iraniano è oggi, insieme a quello portoghese, il più dotato di una forte riconoscibilità sul piano del linguaggio, dei ritmi narrativi, degli spazi, dei personaggi. A determinare questa caratteristica è, in primo luogo, lo spirito di mutua assistenza che anima i cineasti iraniani: il film di Samira Makhmalbaf è stato sceneggiato e fotografato dal padre, Moshen Makhmalbaf; quanto ai due esordienti Hassan Yektapanah e Bahman Qobadi (vincitori ex-aequo della Camera d'Or), sono stati entrambi assistenti di Abbas Kiarostami, il primo per Le gout de la cerise, il secondo sul set di Le vent nous emportera. Qobadi è inoltre, come attore, uno dei protagonisti del film della Makhmalbaf, senza contare che la sua decisione di girare un lungometraggio è stata presa dopo che Makhmalbaf padre aveva visto ed elogiato i corti realizzati in precedenza. Ci troviamo dunque di fronte ad una sorta di scuola, di movimento espressivo, nell'ambito del quale, come generalmente avviene in ambito artistico, la tradizione e il mestiere vengono trasmessi di generazione in generazione, con i "maestri"che incoraggiano i giovani di talento a cimentarsi a loro volta nella regia di un film. Evidentemente, il rovescio della medaglia, rispetto alla forte identità e riconoscibilità del cinema iraniano, sta nella forte ripetitività di temi e situazioni. E d'altronde, un po' come avviene per i soggetti religiosi nella pittura rinascimentale, proprio la ricorrenza del medesimo repertorio tematico e narrativo permette di valutare meglio le differenze tra i vari cineasti. Il film di Qobadi, ad esempio, ha diversi tratti in comune con Le tableau, opera seconda della Makhmalbaf: è girato esattamente negli stessi luoghi, la zona montuosa del Kurdistan situata al confine fra Iran e Irak, ed ha per protagonisti bambini e ragazzi che – a piedi, a dorso di mulo o in groppa ad un cavallo – contrabbandano ogni sorta di merce da uno stato all'altro. Ma mentre in Le tableau è riscontrabile una forte tensione verso la metafora, nel tentativo di arrivare alla concettualizzazione di un discorso sulle miserie e i tormenti dell'infanzia, Qobadi opta per un racconto più lineare e semplice, che si regge esclusivamente sulla forza e l'impatto emotivo dei personaggi e delle loro vicissitudini. La trama del film – una famiglia iraniana di cinque ragazzi rimasti orfani, con il maggiore che si prodiga per mantenere gli altri quattro e pagare le medicine al minore, gravemente malato, che necessita inoltre, al più presto, di un'operazione chirurgica – è basata su una storia autentica, al pari degli interpreti, alle prese con ruoli che rispecchiano molto da vicino la loro miserevole vita quotidiana. Tuttavia, Qobadi ha distillato dalla vicenda un film che riconduce il tutto ad uno stadio di estrema, rarefatta essenzialità: mai un'inquadratura di troppo, mai una concessione alla natura fortemente melodrammatica dell'intreccio, nessuna traccia di compiaciuta indulgenza verso il dolore. Quasi che la sofferenza abbia imposto al regista una totale intransigenza morale, anche e soprattutto sul piano della narrazione e della messa in scena. Egli guarda e racconta con severità e distacco, dando alla sua ricostruzione la forza impassibile di una documentazione, e mescolando conti-nuamente i due piani, ovvero lasciando che il confine tra cinema di finzione e di testimonianza venga gradualmente ad offuscarsi. Valga da esempio la scena più bella e forte del film, quella successiva alla decisione della sorella più anziana di andare in sposa ad un uomo proveniente da una ricca famiglia irachena, che dovrebbe procurare il denaro necessario all'operazione del fratello minore. I due gruppi si danno appuntamento in mezzo all'altopiano, in una zona di confine. Al momento dell'incontro, la famiglia irachena respinge il bambino malato, che secondo i patti avrebbe dovuto seguire la sorella, e lo ricaccia indietro, perché impressionata dagli effetti, ben visibili sul suo corpo, della malattia. Ne nasce un litigio, al termine del quale, a mo' di riparazione per il rifiuto del bambino, ai ragazzi iraniani viene dato un cavallo. Qobadi riprende questo episodio da lontano, tenendo la m.d.p. fissa, in una posizione sopraelevata rispetto ai personaggi. È uno sguardo, il suo, che registra in modo impietoso la lenta evoluzione del dramma, senza mai aderirvi, semmai badando a contestualizzarlo all'ambiente circostante,un territorio montuoso e coperto di neve. L'effetto è straniante: il paesaggio sembra da un lato stemperare l'intensità della tragedia, e dall'altra manifestare nei confronti dei suoi sviluppi una sorta di muto assenso, quasi che la natura, che in questo film mostra all'uomo il suo volto più ostile, legittimi l'esito di una resa dei conti in cui i più deboli subiscono infine le scelte dei più forti. Non vi è davvero bisogno d'altro, per spiegare la duplice tragedia di un'infanzia costretta al contempo a sopportare gli arbitrii degli adulti e le fatiche imposte da una terra aspra, che i contrabbandieri-bambini attraversano in lungo e in largo, nelle condizioni atmosferiche più impensabili. Qobadi ha questo dono, che lo avvicina più alla "scuola" di Kiarostami che a quella di Makhmalbaf: ha piena fiducia nella forza espressiva del materiale di partenza, e su di esso interviene con discrezione, quel tanto che basta a valorizzarlo appieno. Rende la sua presenza di regista-sceneggiatore quasi impercettibile, eppure decisiva, fondamentale a produrre lo scarto tra un evento di cronaca e l'oggetto di una messa in scena cinematografica. |
Leonardo Gandini
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