Attivo a partire dagli anni cinquanta, Hani Susumu (1928 -) è stato uno dei registi più originali e innovativi del cinema giapponese, un artista che è riuscito silenziosamente a imporre la sua personale visione del cinema, mai condizionato dalla logica commerciale dello studio system.
Attivo a partire dagli anni cinquanta, Hani Susumu (1928- ) è stato uno dei registi più originali e innovativi del cinema giapponese, un artista che è riuscito silenziosamente a imporre la sua personale visione del cinema, mai condizionato dalla logica commerciale dello studio system, e sempre all'inseguimento della primordiale innocenza racchiusa nel mondo dell'infanzia e dell'adolescenza, la difesa della quale è divenuta con tempo l'obiettivo primario della sua arte cinematografica. Hani è uno degli indipendenti assoluti del cinema giapponese, che al contrario degli altri registi non è mai dovuto sottostare alla dura ascesa come assistente alla regia all'interno delle grandi case di produzione, e che è giunto al cinema quasi per caso, prima attraverso i reportage per conto dell'agenzia di stampa Kyōdō, presso la quale ha costruito lo scheletro del suo personale e originale linguaggio cinematografico, e successivamente attraverso i documentari girati per il Ministero della Sanità e per quello dell'Istruzione attraverso cui si è imposto all'attenzione della critica. Con Kyōshizu to kodomo (Aule e bambini, 1955), piuttosto che seguire le direttive ministeriali secondo le quali l'opera avrebbe dovuto offrire una dimostrazione diretta delle teorie pedagogiche del governo, Hani ha ritratto la realtà scolare degli anni '50 insistendo invece su idee relative a una libera educazione come strumento di preservazione della spontaneità e dello spirito creativo del mondo dell'infanzia. Il risultato del suo approccio spontaneo sorprese tutti, e la naturalezza del comportamento dei bambini con i quali il regista aveva lavorato per giorni fianco a fianco così da metterli a loro agio con la macchina da presa, risultarono estremamente innovativi al punto che la critica in seguito parlò del documentario come del primo capolavoro della Nouvelle Vague giapponese. Il successo spinse Hani a girarne un altro sul mondo infantile, E o kaku kodomotachi (Bambini che dipingono, 1956), per il quale rimase sei mesi a contatto con i bambini di una classe scolastica, mentre qualche anno più avanti si dedicava a un semi-documentario nato dall'adattamento di un romanzo di Tamura Ichiji dal titolo Te o tsunagu kora (Bambini che si tengono per mano, 1964), dedicato ai bambini colpiti da handicap. Era lo stesso periodo in cui Hani cominciava a elaborare le sue teorie con opere che rompevano deliberatamente con la cinematografia tradizionale, in particolare con documentari come Umi wa ikiteiru (Il mare vive) del 1958, o Nihon no buyō (Le danze del Giappone) del 1960, veri manifesti dei suoi propositi artistici, da cui emerge la figura di un regista il quale – su diretto influsso del neorealismo italiano - non si pone al di sopra della realtà come un ente che plasma demiurgicamente la materia filmica, ma come un occhio che opera una selezione sulla realtà, per trasferirla in seguito sulla pellicola unicamente attraverso la macchina da presa, rifiutando dunque i linguaggi della post-produzione e la natura estetica dei codici del montaggio.
Furyō shōnen ( 1961) Alla ricerca di una forma espressiva non ancora condizionata dalla società e per questo in grado di preservare la naturalezza e la spontaneità ancora viva nei bambini e negli adolescenti, Hani si avventura nel lungometraggio con Furyō shōnen (Cattivi ragazzi, 1961) girato con giovani delinquenti in un centro di riabilitazione minorile di Tōkyō, interamente in presa diretta e alternando pellicola da 16 mm e da 35 mm. È a partire dall'inquadratura della ordinaria quotidianità di ognuno dei ragazzi che Hani delinea il suo linguaggio impressionista, e se da un lato il regista rifiuta un approccio sociologico privando la pellicola di qualsiasi morale precostituita, dall'altro oppone la considerazione del valore dei rapporti umani alle teorie governative sull'educazione e alla standardizzazione romantica dei problemi giovanili tipica invece di molti seishun eiga (film giovanili) di registi suoi contemporanei. I dialoghi sono quasi tutti improvvisati e incorporati all'interno di uno schema sommario di sceneggiatura studiato insieme ai ragazzi, così che l'aspetto finzionale finisce per risultare inscindibile dalla tecnica documentaristica, dando vita così a un nuovo tipo di realismo che costituirà da questo momento in poi la piattaforma stilistica di ognuna delle pellicole successive.
Tra queste, un adattamento dal romanzo Mitasareta seikatsu (Una vita piena, 1962) di Ishikawa Tatsuzō, in cui Hani affronta una riflessione sul valore dell'individuo in rapporto alla società contemporanea, e Kanojo to kare (Lei e lui, 1963), un film solare che ruota intorno al rapporto tra un uomo e una donna della media borghesia in una degradata periferia metropolitana, anche in questo caso sfruttando l'immediatezza del suono in presa diretta, e lavorando con attori professionisti che riescono a trasmettere l'innocenza quasi infantile del carattere dei personaggi, visti dall'autore come figure intermediarie nel percorso dall'adolescenza alla maturità.
Kanojo to kare (1963) Dopo la parentesi di Buwana Toshi no uta (La canzone di Bwana Toshi, 1965) e Andesu no hanayome (La fidanzata delle Ande, 1966), due film nati dal desiderio di indagare sulla "primordialità" dell'essere umano non ancora plasmato dall'identità culturale a partire dal rapporto tra la nazionalità giapponese e le civiltà degli altri paesi del mondo, Hani si cimenta in Hatsukoi jigokuhen (Primo amore, versione infernale, 1968), uno dei più affascinanti prodotti cinematografici nella storia del cinema giapponese nonché il primo film nato dalla collaborazione del regista con il genio creativo di Terayama Shūji, qui autore della sceneggiatura.
Hatsukoi jigokuhen (1968) Numerosi sono gli elementi che rimandano all'opera di Terayama e che contraddistinguono l'immaginario simbolico alla base della sua multiforme espressione artistica: la pubertà, il conflitto edipico accanto alla figura della madre castrante, l'iniziazione sessuale, l'inibizione, l'erotismo e il sogno sottoforma di rivisitazione dell'inconscio adolescenziale in chiave freudiana. Ma al di là del titolo, ciò che maggiormente interessa Hani è il tema dell'amore puro tra due giovani, Shun e Nanami, di cui vengono affrontati direttamente gli aspetti fisici della sessualità: durante il loro primo incontro l'impotenza del ragazzo - conseguenza di un rapporto conflittuale con il sesso soprattutto a causa dei traumi infantili legati alla pedofilia del padre - si scontra con l'abitudine al sesso come prodotto commerciale della ragazza che lavora come modella di nudo per una rivista. I due giovani cercano di risolvere il problema provando più volte a fare l'amore, e forse è proprio una certa pragmaticità dell'approccio un altro dei fattori che distinguono il cinema di Hani da quello dei registi a lui contemporanei, in cui le problematiche giovanili erano sempre affrontate da un punto di vista più teorico e platonico. Girato alternando un formato 35mm a inserti spesso di carattere amatoriale girati in un 16mm monocromatico, Hatsukoi è per Hani l'occasione per esplorare l'universo del sesso politicizzato e commercializzato la cui vittima è proprio la spontaneità degli adolescenti per i quali il sesso non può più essere naturale. L'impotenza di Shun è dunque il risultato di un soffocamento di pressioni sociali e famigliari che impediscono lo sviluppo emotivo del ragazzo, e per effetto delle quali è virtualmente impossibile da parte della giovane coppia trovare uno spazio adeguato se non in uno squallido love hotel; la morte del ragazzo con cui il film si conclude è dunque a sua volta emblematica della morte dell'innocenza giovanile di cui il regista intende offrire la sua personale e apocalittica testimonianza. Filmografia
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Marco Ciavirella