Ha un ritmo estremamente sospeso Mon huan bu luo (in italiano «La tribù dei sogni») nell'affrontare le traiettorie esistenziali di tre diversi personaggi.
MON HUAN BU LUO(La tribù dei sogni) di Cheng Wen-Tang
Il tempo dell'alienazione. Ha un ritmo estremamente sospeso Mon huan bu luo (in italiano «La tribù dei sogni») nell'affrontare le traiettorie esistenziali di tre diversi personaggi. Il primo, Wa-tan, è un aborigeno che una mattina si vede recapitare una lettera dove viene a sapere che è stato ritrovato il suo portafoglio, perso molti anni prima. Il secondo è Xiao Mo, un giovane che lavora di giorno in un ristorante giapponese e che invece la notte trascorre gran parte del tempo in conversazioni telefoniche con delle ragazze nella speranza di trovare un'avventura sessuale. Una sera Xiao Mo riceve una telefonata da una giovane (il terzo personaggio) che, con voce triste e dimessa, gli chiede di ascoltare la propria storia d'amore. Sembra un percorso narrativo lineare quello di Mon huan bu luo. In realtà l'opera possiede una frammentazione avvolgente che, frequentemente, abbandona e riprende i destini dei tre protagonisti. Nelle inquadrature raggelate, nei movimenti di macchina che amplificano quel senso di dilatazione, Cheng Wen-tang si appropria di un ritmo nel rappresentare una storia dove solitudine e senso di estraneità s'intrecciano. In effetti, nel regista taiwanese sembrano combinarsi l'oggettivo sguardo dell'antropologo documentarista con la libertà del cineasta visionario. Da una parte la prima componente rientra in pieno in quella dimensione da cinéma-verité di Cheng Wen-tang, che già negli anni Ottanta aveva realizzato una serie di documentari etnografici sulla vita degli aborigeni (che si trovano socialmente ai livelli più bassi della società taiwanese) prima di produrre, nel 1998 il primo film su questo argomento, Ming Xin Pien, premiato al Tapei Film Festival. Dall'altra, però, la macchina da presa si perde dietro i loro itinerari disordinati, con una complicità nascosta nell'inseguire dei vagabondaggi quasi post-Nouvelle Vague. C'è in questo senso una coinvolgente perdita d'orientamento volontaria da parte del cineasta taiwanese,con immagini raggelate di attraente ambiguità nelle quali possono essere racchiuse una straniata rappresentazione della realtà, ma al tempo stesso anche la materializzazione-estensione di una dimensione onirica. Le inquadrature di Mon huan bu luo sembrano quasi contenere aria, elemento naturale che provoca una dispersione cromatica e una perdita della nitidezza dei contorni dei corpi e degli oggetti all'interno del quadro visivo. Gli stessi fasci di luce perdono la propria intensità, confondendosi con quella sorta di penombra che si estende su gran parte del film di Cheng Wen-tang. Sembra così esserci, più a livello visivo che narrativo, una propensione a rappresentare quel senso di estraneità, di immobilità appartenente al cinema di Antonioni. Le comunicazioni al telefono dove la voce di una ragazza cerca di raccontare la propria storia, gli interni squallidi, le luci al neon di Tapei che si trasforma, come in Hou Hsiao-hsien, in set indefinito che perde intenzionalmente la propria riconoscibilità urbanistica, e soprattutto i lunghi silenzi appaiono come i segni essenziali di un cineasta che seduce progressivamente, che consente di far penetrare sensorialmente all'interno di un universo che affascina nella sua inquietante lentezza. E' presente una contraddizione tra la forza degli autori emersi che si sono fatti conoscere a livello internazionale alla fine degli anni Ottanta e tutto il decennio successivo (Hou Hsiao-hsien, Tsai Ming-liang, Edward Yang, Ang Lee) e la crisi di mercato dove, soprattutto negli anni Novanta, si è drasticamente ridotta la produzione nazionale. Eppure, da questo paese continuano ad arrivare ai festival internazionali opere che fanno conoscere nuovi autori e che confermano la forte vitalità di questa cinematografia. Cheng Wen-tang, con Mon huan bu luo, ha realizzato il suo primo lungometraggio di finzione. Il regista (classe 1958) è coetaneo di Ho Ping ed è soltanto un anno più giovane di Tsai Ming-liang. Appare singolare come questa continua antinomia documentaristico/visionaria o questo approccio visivo di avvicinamento/distanza nei confronti di tutto ciò che inquadra abbia dovuto attendere tutto questo tempo prima di manifestarsi nella sua opera prima (non considerando il film televisivo Fu hua tan sui, diretto nel 2000). Probabilmente questa è una pellicola che il cineasta taiwanese aveva in testa da anni, che ha più volte pensato, rimesso in discussione. I temi degli aborigeni, della perdita di radici, dell'alienazione non sono tanto rappresentati sullo schermo ma appaiono visivamente quasi come una proiezione del proprio pensiero. C'è infatti in Cheng Wen-tang un sentimento quasi epidermico che produce immagini prive di una loro forma. Le immagini di Watan che canta al karaoke, della giostra illuminata che gira, la presenza del vento rappresentano frammenti di calore che penetrano dentro un'immagine raggelata e la squarciano con violenza. Sono punti di rottura di notevole intensità, emozionanti nella loro improvvisa presenza. Un cinema, quello di Mon huan bu luo, che si compone anche di soggettive annebbiate con lo sguardo del cineasta che appare continuamente in preda all'ipnosi. Il film rappresenta un presente "vuoto" dove però affiorano continuamente le cicatrici del passato. Il campo di miglio presente sia nella testa di Watan, sia della ragazza al telefono – ancora le coordinate di una de/composizione tra movimento e voce – è, al tempo stesso, il luogo della memoria come il luogo dell'utopia (quella del sogno tribale appunto). Mon huan bu luo è anche l'inadeguato tentativo di rimuovere continuamente le ceneri del tempo (la voce immobile della ragazza, il portafoglio intrappolato da anni in un blocco di cemento), di rialimentare l'esistenza di corpi non-vivi, replicanti provenienti dal nulla. |
Simone Emiliani