Percorsi incrociati, sentieri labirintici, terreni accidentati, ripide strade in salita: l'opera cinematografica di Kiârostami è una ricerca incessante lungo un cammino di cui si sperimentano le difficoltà e di cui non sempre si conosce la meta. E come i piccoli eroi di Kiârostami ogni percorso di analisi batte le strade più tortuose al fine di dispiegare i principi di funzionamento del prodotto filmico, le operazioni ed i processi che ne regolano la produzione di senso con un'infinita possibilità di soluzioni. La nostra analisi vuole essere un piccolo viaggio che, attraversando la trilogia di Koker, ci riveli la sottile dialettica che si instaura tra le forme rappresentative ed enunciative.
PERCORSI INCROCIATI: TRA TRANSITIVITÀ E RIFLESSIVITÀ.Forme della rappresentazione e dell'enunciazione nella trilogia di Koker di 'Abbâs Kiârostami
Una faccia della finestra
'Abbâs Kiârostami
Introduzione Nel 1965 Eric Rohmer operava una netta distinzione tra il cinema che ha per oggetto e fine se stesso e il cinema come mezzo che ha per oggetto il mondo. Kiârostami, muovendosi tra transitività (dar voce all'altro) e riflessività (rappresentare il cinema nell'atto stesso del suo "farsi" e del suo "darsi") rimette in questione questa dicotomia. Nella trilogia di Koker queste due diverse proprietà (solo apparentemente contraddittorie) si articolano e si congiungono l'una all'altra e la messa in scena di se stesso (come regista sul campo o come personaggio di regista, con un ruolo nella finzione) conduce paradossalmente all'altro. Nel cinema di Kiârostami riproduttività e metalinguaggio sono sempre da intendersi come elementi interdipendenti, non semplicemente giustapposti: l'uno si attua attraverso l'altro, l'uno manifesta l'altro. L'operazione metalinguistica, che si esprime di volta in volta in forme diverse come l'intertestualità, l'autoreferenzialità e la mise en abyme, non perde mai il contatto con la realtà, con la vita che palpita sotto operazioni che rischierebbero di diventare semplici artifici postmoderni. È proprio la finzione dichiarata, la presenza avvertibile del "demiurgo" che conferisce verità ai film della trilogia: ponendo l'attività cinematografica al centro della sua riflessione Kiârostami ne indaga l'anima (crudele) e, al tempo stesso, riesce a cogliere la verità e a catturare la vita che si nasconde negli interstizi del cinema. Quella di Kiârostami si rivela, così, un'adesione di II livello alla realtà che, ricostruendola, cerca di rivelare anche la realtà della finzione. La trilogia, pur nella sua apparente semplicità e nella pretesa di virginale trasparenza, muovendo i passi da una scrittura filmica tendente al proprio annullamento, approda ad un esibizionismo metalinguistico che vuole essere disvelamento della finzione: dall'impressione di realtà alla realtà dell'impressione. Seguendo percorsi incrociati, analizzeremo il rapporto tra realtà e finzione, tra gli elementi della messa in scena all'interno di ogni film e tra i diversi film che compongono la trilogia, così come il rapporto dei film con il loro spettatore e con il loro autore: l'incrocio da un lato coinvolge separatamente le forme della rappresentazione e quelle dell'enunciazione, dall'altro ne individua il mutuo scambio e gli apporti reciproci. A livello rappresentativo il "mondo possibile" creato dai tre film tende all'analogia con il mondo reale, rispettandone attraverso il piano-sequenza e la scena l'unità spazio-temporale. La neutralità dell'atto rappresentativo, ricercata attraverso la dipendenza delle modalità di messa in quadro dai contenuti e attraverso la diretta relazione dei movimenti della mdp con gli elementi del profilmico, si stempera e si incrina, però, già al momento della messa in scena per la fitta trama di richiami intra e intertestuali che, in quanto frutto di una costruzione sapientemente ragionata e concertata, pongono l'accento sull'artificialità della trilogia. L'analisi dei livelli della rappresentazione, inoltre, mostra come le scelte stilistiche adottate dal regista siano estremamente motivate, trovando la loro ragion d'essere nella specifica posizione che occupano nella tessitura filmica. L'apparente naturalità della finzione si lacera definitivamente attraverso la rivelazione dell'atto enunciativo e la presenza, più o meno esplicita, dello spettatore e dell'autore nel testo. La trilogia di Koker si presenta, infatti, come un' "opera aperta", non solo per il ricorso ai finali aperti, ma anche perché chiama direttamente in causa lo spettatore guidandolo sulle tracce del fuori campo immaginabile, ponendolo ai margini dell'interpellazione (attraverso sguardi in macchina) o calandolo nei panni dei personaggi della diegesi (attraverso soggettive). In Sotto gli ulivi, infine, il meccanismo della finzione cinematografica (ancora implicito e in secondo piano in E la vita continua) viene esplicitamente disvelato dalla diegetizzazione del dispositivo e dalla presenza del film nel film. Realtà e finzione La realtà è, come in altri film, il punto di partenza dell'attività del regista. Dov'è la casa del mio amico? sviluppa una delle tante piccole storie reali che scandiscono Compiti a casa, innestandovi una storia di finzione che nasce da un racconto scritto da un maestro di scuola e da un fatto accaduto al figlio del regista quando aveva all'incirca l'età del protagonista del film. Kiârostami, sulla falsariga di Benjamin, mostra di saper attingere i fatti dalla propria vita, "così il racconto reca il segno del narratore come una tazza quello del vasaio". Il film è ispirato alla poesia Indirizzo di Sohrâb Sepehri, anche se spogliato dell'apparato mistico-religioso che permea il testo poetico. Anche E la vita continua trova la sua ragion d'essere nell'esperienza autobiografica di Kiârostami e precisamente nella sua attività di regista cinematografico: anche se davanti alla mdp tutto è stato ricostruito, Kiârostami è effettivamente partito con il figlio tre giorni dopo il cataclisma, alla ricerca dei bambini che avevano recitato in Dov'è la casa del mio amico?. Una scena del film (la scoperta nel boschetto di un bambino che piange nella culla, lasciato incustodito dalla madre) costituisce addirittura un vecchio debito per un episodio capitato al regista qualche tempo prima. Con Sotto gli ulivi, invece, Kiârostami torna sul suo film precedente e lo supera per studiarne il fuori campo, per dar voce ad Hoseyn e Tâhere che in E la vita continua non avevano avuto modo di esprimersi. Frutto di un legame altrettanto stretto con la realtà è il modo in cui Kiârostami dirige i suoi attori, i quali "non recitano ma vivono davanti alla mdp", come gli attori che hanno interpretato Ahmad Ahmadpur, la madre e il nonno del bambino. Stessa tecnica è stata usata per far dire ad Hoseyn la sua visione del matrimonio, cioè quella che il regista aveva in mente per il personaggio, ma che non gli ha imposto facendogli imparare a memoria il copione. La realtà, infine, costituisce per Kiârostami un continuo punto di riferimento per la prevalenza del rapporto indexicale che si instaura tra la realtà e la sua rappresentazione sullo schermo. In Dov'è la casa del mio amico? l'intera vicenda del protagonista è indice del sistema educativo vigente nei villaggi iraniani e della ferrea disciplina che i bambini devono osservare a casa e a scuola. Il film non tace neanche il ruolo che i bambini spesso hanno nel sistema economico familiare come forza lavoro e risulta esemplare della struttura economica dei villaggi, la cui vita è scandita dal ritmo della tradizione ed in cui gli unici indici di un ammodernamento sono le porte e le finestre in ferro. E la vita continua, invece, ci offre indici della distruzione causata dal terremoto e soprattutto della ricostruzione: macerie e rovine da un lato, ambulanze e autoveicoli che trasportano le provviste dall'altro. Sotto gli ulivi, infine, porta in primo piano il contrasto tra persone istruite e analfabeti, tra ricchi e poveri (indici della ricchezza e dell'istruzione sono di volta in volta il vestito, la casa e il libro) e rivela la crudeltà del cinema. La pellicola, per il suo stretto legame con la precedente, presenta ancora i segni del terremoto; essendo, però, già trascorsi due anni dalla realizzazione di E la vita continua, gli indici della distruzione sono ormai definitivamente scomparsi, lasciando spazio alla ricostruzione nel pieno della sua attuazione. Nonostante l'esperienza personale costituisca per Kiârostami la sorgente e la forza motrice della sua attività cinematografica e nonostante il forte legame indexicale con la realtà, lo sguardo del regista non è affatto uno sguardo neutro che si limiti a registrare passivamente tutto quanto giunga dall'esterno. Registrare la realtà, come ci ricorda il regista, è interferire con essa e tra la cosa rappresentata e la sua rappresentazione filmica c'è sempre uno scarto e un margine di arbitrarietà. Il cinema di Kiârostami si appropria del reale, ma per entrare in rapporto con il mondo circostante e modificarlo; cerca di ricostruire la vita ma, tenendo conto dei propri limiti, altera la realtà al fine di renderla somigliante e credibile: "la spontaneità non può mascherare la simulazione e raccontare vuol dire, in fondo, giocare con la verosimiglianza". Il cinema, rispetto alla realtà, è sempre in ritardo e può giungere a cogliere la verità (o meglio, alcuni dei tanti aspetti che la compongono) solamente attraverso la ricostruzione che, in quanto finzione, è menzogna. E così, come in Dov'è la casa del mio amico? il sentiero che unisce i villaggi è stato tracciato appositamente (per le esigenze del cinema) dai bambini del villaggio, in E la vita continua, il film che più degli altri sembra avere movenze documentaristiche, tutto è stato ricostruito, anche se cercando di avvicinarsi il più possibile alla verità (il film è stato girato 5 mesi, e non 5 giorni, dopo il terremoto). D'altra parte, in Sotto gli ulivi è il cinema che talvolta è costretto a conformarsi al ritmo del reale, come nelle numerose riprese della stessa scena a causa degli errori degli attori, calati in situazioni troppo reali per essere sottomesse alle esigenze del copione. Nessun elemento della trilogia è lasciato al caso, alla resistenza della vita nella sua incoerenza, nella sua disorganicità e nella sua imprevedibilità: anche quando ci si avvicina alla realtà tanto da coglierne la polpa e l'intima vita, si compie un lavoro di costruzione e ricostruzione (seppur nascosto) che pone l'accento su alcuni aspetti con un valore di secondo grado nella complessa architettura della trilogia. Ogni film presenta, prima di tutto, una serie di richiami intratestuali che rivelano il carattere necessariamente concertato di una messa in scena posta al servizio di una storia di finzione, prima ancora che della realtà. In Dov'è la casa del mio amico? assumono questo valore i pantaloni arancioni di Ne'matzâde, il fiore che il vecchio falegname dona ad Ahmad e che il bambino, a sua volta, lascia all'interno del quaderno del compagno e il dibattito sulle porte e sulle finestre in legno e in ferro (indici rispettivamente della tradizione e della modernità). In E la vita continua assumono un valore di secondo grado, per l'insistenza con cui attraversano l'intero film, il gioco del calcio e la sete (indice del gran caldo, ma anche simbolo del desiderio di conoscenza che guida i due protagonisti), mentre in Sotto gli ulivi meritano particolare attenzione il vaso di gerani (oggetto di uno scambio, rappresentativo delle esigenze del cinema), il vestito (emblema, come la casa o il libro, delle differenze sociali e culturali tra le classi), il gesso (indice della ricostruzione successiva al terremoto) e il telone usato dalla troupe per schermare la luce (emblema del cinema e della sua interferenza con il naturale corso degli eventi). Non mancano elementi che accomunano tutte e tre le pellicole della trilogia e che costituiscono dei veri e propri richiami intertestuali. La struttura dei tre film, pur nelle sue specifiche differenze narrative e nelle sue peculiarità, ricalca l'archetipo del viaggio e segue un modello "dinamico-figurato", in cui il punto di arrivo presenta uno scarto notevole rispetto a quello di partenza: Ahmad parte alla ricerca della casa del suo compagno di banco, Farhâd e Puyâ si muovono sulle tracce dei due bambini che hanno recitato nel precedente film della trilogia e Hoseyn intraprende un difficile percorso di conquista dell'amata negli interstizi delle riprese. Correlativo oggettivo del viaggio è il sentiero a zig zag che compare in maniera pressoché identica in tutti e tre i film della trilogia, "forma simbolica", cristallizzazione del fare artistico di Kiârostami, gesto compendiario e figura di un minimalismo stilistico che si affina progressivamente nei tre film. È proprio nel zig zag che il regista "mette a punto il topos dei topoi del cinema, la fulminea sintesi iconografica del proprio modus operandi, la monade vertiginosamente rarefatta di un intero mondo poetico." Il sentiero non viene mai inquadrato nella sua astratta essenzialità, ma animato da figure umane che lo percorrono a porre l'accento sul percorso e sul "farsi" dell'azione. L'assenza dei dialoghi e l'accompagnamento del motivo musicale (come in Dov'è la casa del mio amico? e in E la vita continua) conferiscono a queste inquadrature una valenza universale che supera le contingenze del quotidiano. Accanto al sentiero, un elemento emblematico delle difficoltà che caratterizzano la ricerca è costituito dalle scale, che ora Ahmad ora Hoseyn sono costretti a salire ripetutamente. La musica extradiegetica, inoltre, benché usata parsimoniosamente, assume un importante valore di secondo grado che scardina l'apparenza documentaria di certe riprese, scandendo il viaggio di andata di Ahmad a Poste, accompagnando le pause contemplative di Farhâd (Concerto per oboe e violini di Domenico Cimarosa) e animando l'allontanamento di Hoseyn e Tâhere oltre gli ulivi (Concerto per 2 corni di Antonio Vivaldi). Un altro motivo che compare in tutte e tre le pellicole è quello del bambino che piange nella culla e che rappresenta il bisogno di comunicare. Accanto ai richiami intertestuali ci sono personaggi che fungono da cerniera tra i tre film, comparendo in più di una pellicola non semplicemente come attori, ma disvelando il ruolo che hanno nella finzione: il signor Ruhi, Mohammad Rezâ Parvâne, il bambino che in Dov'è la casa del mio amico? era seduto in terza fila, il signor Defâhi e gli stessi fratelli Ahmadpur. Non mancano le incongruità: il personaggio di Tâhere nei due film non è interpretato dalla stessa attrice, mentre la donna che in Sotto gli ulivi interpreta la nonna della ragazza in E la vita continua interpretava una vicina di casa dei due giovani sposi. Sebbene la messa in scena riveli un fitto intreccio di richiami intertestuali, ogni film della trilogia mantiene una specifica identità e una logica interna che agisce in particolare sul piano della messa in quadro. Le scelte stilistiche adottate dal regista, varie e articolate nonostante la loro apparente omogeneità, così, trovano la loro giustificazione nella posizione che occupano nella struttura filmica. In Dov'è la casa del mio amico? il percorso del protagonista si innesta sulla rottura di uno spazio chiuso e rigidamente gerarchizzato (l'aula scolastica) per attraversarne uno aperto e variamente caratterizzato e chiudersi, in una struttura ciclica, proprio sul luogo di partenza, ma con un surplus di maturità che ha permesso di trasgredirne le regole. La messa in quadro, benché strettamente dipendente da quanto filmato, non evita scelte che hanno un particolare valore espressivo. Il regista riserva i P.P. quasi unicamente ai bambini (in particolare al protagonista), rivelando non solo una certa simpatia verso di loro, ma anche la volontà di dar voce ai più piccoli mostrandone l'espressione del volto, in un sistema che li costringe al silenzio o al monologo perché non ascoltati. Molte inquadrature, inoltre, sono a misura di bambino, in quanto la mdp sceglie di filmare ciò che si vede ad altezza del protagonista (come nella scena della compravendita delle finestre o nel breve tratto di strada che Ahmad percorre con il vecchio falegname), a sposare il punto di vista di Ahmad che rivendica il suo diritto di parola e ascolto. Il viaggio del bambino nel complesso è un percorso che si affida al metodo indiziario, basandosi sulla lettura dei pochi indizi (sonori e visivi) di cui il protagonista dispone (un paio di pantaloni arancioni appesi ad un filo, la casa con la porta azzurra vicino alla fonte, l'albero spoglio vicino ad una stalla, il belare delle pecore, ecc.). Ben diverso è il caso di E la vita continua in cui tutto il viaggio si svolge all'interno ed intorno ad un'automobile che attraversa l'arido altopiano del Gilân, cercando di raggiungere Koker, dove vivono i bambini che hanno recitato in Dov'è la casa del mio amico?. Il viaggio è ancora una volta costellato di indizi, ma non c'è più una barriera da rompere, bensì una serie di ostacoli da superare che spesso impongono di tornare indietro (la strada bloccata o aperta solo per gli aiuti, il traffico, le voragini, le difficoltà della macchina a ripartire o salire lungo un ripido sentiero). Allo spostamento nello spazio corrisponde una certa stabilità delle modalità di messa in quadro, per la ripetizione di identici modi di rappresentazione. I termini in gioco non sono più in un rapporto di opposizione ma in continuo contatto, aprendo progressivamente la possibilità di un aiuto reciproco: dai brevi incontri iniziali finalizzati ad ottenere informazioni sulle condizioni della strada nel corso del viaggio i due protagonisti hanno l'occasione di conoscere meglio i loro interlocutori e la loro personale storia di dolore. Anche E la vita continua è un film popolato di bambini, che la fanno da padroni nel racconto sul terremoto, a partire da Puyâ che accompagna Farhâd nel suo viaggio, proseguendo con Mohammad Rezâ Parvâne e con le due bambine che lavano i piatti presso la fonte e per concludere con i due bambini che vengono fatti salire prima di affrontare l'ultimo tortuoso tratto di strada. Il film, che la critica ama definire il più rosselliniano di tutti, si stacca dal precedente per la presenza di molte inquadrature di lunga durata, in particolare dell'auto in movimento (in C.L. o in C.L.L.) e delle semisoggettive dall'interno dell'abitacolo (in camera car). Ciononostante, E la vita continua è il film che presenta il maggior numero di inquadrature per il ricorso, accanto alle riprese di paesaggio, a molte sequenze di dialogo, in cui si alternano con ritmo alquanto serrato i P.P. degli interlocutori, stabilendo un intimo contatto tra lo spazio "abitato" dai protagonisti e quello aperto. Sotto gli ulivi, invece, nasce e si sviluppa intorno alla ricostruzione delle riprese di E la vita continua e precisamente intorno alla sequenza in cui Farhâd, durante la sosta al villaggio, si intrattiene a parlare con il giovane sposo. Tutto il film ruota intorno al set, tanto che apparentemente il cinema sembra il protagonista del film ma, lungi dal voler realizzare un documentario sul making del precedente film della trilogia, la vita giunge ben presto ad infiltrarsi negli interstizi delle riprese e a rivendicare il proprio diritto di esistenza. Quello del set è uno spazio chiuso ed isolato, frammentato, fortemente personalizzato e gerarchizzato, in cui ognuno possiede il proprio spazio, ma è proprio il regista ad invadere il campo degli attori per parlare con Hazim e poi, in un momento di pausa delle riprese, a superare la corda divisoria e a sedersi tra i bambini. E allora ecco la vita penetrare nel film, intralciare le riprese e prendere corpo nell'emergere della storia personale di Hoseyn, a cui è riservato il maggior numero di P.P. Questa volta, dunque, lo spettatore si trova ad altezza di Hoseyn, condividendone ansie, turbamenti, sconforto ed ostinazione, mentre Tâhere rimane chiusa in un silenzio di ghiaccio, tanto sul set quanto nella vita. È in Sotto gli ulivi che il processo di omogeneizzazione e rarefazione della scrittura filmica giunge a compimento: il numero delle inquadrature si riduce notevolmente e ci troviamo di fronte a veri piani sequenza, in cui intere sequenze sono girate senza stacchi di montaggio. Le riprese del set prediligono i C.M. e i TOT., anche quando discordanti con le inquadrature corrispondenti di E la vita continua, per inquadrare la totalità della casa davanti alla quale è ambientata la scena, nonché entrambi gli attori che ne sono protagonisti. L'inquadratura fissa e la distanza dall'azione filmata, inoltre, accentuano l'angoscia della ripetitività delle riprese della stessa scena, che non è mai alleggerita dalla scelta di un angolo di ripresa differente o dal ricorso alla varietà della scala dei piani o da ellissi. L'esame dei richiami interni alla trilogia e della struttura dei singoli film che la compongono sembra, quindi, smorzare affrettate conclusioni alle quali saremmo potuti giungere attraverso l'analisi dell'indexicalità del cinema di Kiârostami e del suo intimo legame con la realtà. La scrittura filmica della trilogia sembra in più punti accostarsi ad una "narrazione zero", per la continuità spazio-temporale (raccordi rigorosamente determinati dalla scena, rispetto del tempo reale e quasi totale assenza di ellissi sul piano narrativo), il suono in, l'assenza di voce off, la predominanza dei totali, i movimenti di macchina a seguire azioni e personaggi e la descrittività implicita e neutra dell'immagine. Ciononostante, la trilogia non manca di sposare un preciso punto di vista che conduce progressivamente al disvelamento dell'atto enunciativo in maniera implicita, tramite emblemi o semplici richiami alla finzione (E la vita continua), o esplicita, tramite una scelta comunicativa metareferenziale (Sotto gli ulivi). Anche le riprese in piano sequenza e in profondità di campo presentano una naturalità e una neutralità solo apparenti, in quanto sapientemente costruite con un paziente lavoro di montaggio (oltre che durante le riprese) in cui niente è lasciato al caso o in balia dell'imprevedibilità del reale ma motivato, accuratamente predisposto e allestito già in fase di messa in scena. Come osserva Metz, "non esistono immagini neutre": ogni elemento (visivo o sonoro) del film, anche se sfugge a precise marche dell'enunciazione (voce off, costruzione in abisso, ecc.), anche se risulta estremamente ordinario, è il risultato di scelte che implicano sempre un'attività. L'enunciazione (non le sue marche) è onnipresente e responsabile di ogni dettaglio e non si dà rappresentazione (anche quando strettamente dipendente dal reale) senza enunciazione. L'enunciazione neutra è un punto di arrivo (sempre in atto di arretrare) in cui si esauriscono tutte le marche, via via che diventano meno marcanti e meno marcate. Kiârostami si discosta da questa immaginaria linea d'orizzonte già a livello rappresentativo. Se fa uso di P.P. neutri e pertinenti, non disdegna neanche il ricorso a P.P. espressivi. Così, i C.M. del set di E la vita continua in Sotto gli ulivi, nonostante la loro lunga durata, non sono finalizzati al rispetto dell'ambiguità del reale di cui parla André Bazin, perché escludono dal campo i componenti della troupe e i bambini che assistono alle riprese, assumendo un preciso punto di vista che sposa quello che dovrebbe essere della mdp di E la vita continua. Non si tratta di un punto di vista esterno alla scena, neutro ed anonimo, ma di una focalizzazione interna a Sotto gli ulivi, in cui la scelta del tempo reale e della medesima ripresa in profondità di campo serve, come abbiamo già osservato, a comunicare l'angoscia della ripetizione delle riprese e degli alienanti tempi del cinema. Anche i totali non sono sempre oggettive reali, in cui si mostra allo spettatore direttamente una porzione di realtà, senza alcuna mediazione e presentando tutto ciò che in quel momento è necessario vedere: lo spettatore, tramite soggettive o semisoggettive, si trova spesso ad altezza dei personaggi e ne condivide un vedere limitato, un sapere infradiegetico e un credere transitorio. La critica internazionale ha spesso accostato Kiârostami al neorealismo italiano, rintracciandovi, se non una filiazione diretta, almeno un esplicito riferimento. A conferma di questo possibile legame ci sono l'uso di attori non professionisti, il suono in presa diretta, il piano sequenza, le riprese in esterni e il tempo reale. Ciononostante, queste cifre sono strumenti che permettono al regista di comunicare nella maniera più idonea un determinato messaggio, tanto da non essere esclusive ma spesso accompagnate da scelte molto diverse. Se la povertà dei mezzi a disposizione e l'attenzione alla situazione sociale del proprio paese sono altrettanti elementi che avvicinano Kiârostami a registi come De Sica o Rossellini, non bisogna dimenticare che il contesto socio-politico dell'Italia del dopoguerra e quello dell'Iran degli anni ottanta e novanta possono risultare simili solo ad uno sguardo superficiale e per alcuni aspetti (la povertà e il difficile sviluppo economico), date le notevoli differenze culturali che le caratterizzano. A questo dobbiamo aggiungere che il neorealismo raccoglie registi spesso guidati da ideali e progetti anche molto differenti, nonostante la comune adesione al dato cronachistico che contribuì a propagare nel mondo l'immagine dell'Italia che usciva dal fascismo con le lacerazioni della guerra, dell'occupazione tedesca e di un'endemica arretratezza. Sebbene anche Kiârostami si faccia testimone della realtà, analizzata e indagata con attenzione, il suo impegno è volto semplicemente a rivelare qualcosa allo spettatore. Conviene, quindi, evitare di avvicinarsi all'universo kiarostamiano cercando riferimenti o filiazioni improbabili, frutto dell'esigenza di leggere tutto ciò che è nuovo con categorie ed etichette che già possediamo (perché più vecchie ed appartenenti al nostro sistema culturale), e mostrare una maggiore attenzione ai valori interni all'opera stessa. Valga come esempio un rapido confronto tra Germania anno zero e E la vita continua, che potremmo chiamare (sulla scia di Laurence Giavarini) Iran anno zero. Nonostante le somiglianze stilistiche (piani sequenza, campi lunghi e carrellate panoramiche) e narrative (la distruzione vista attraverso gli occhi dei bambini), la catastrofe in Kiârostami è naturale, mentre in Rossellini è umana, troppo umana. Inoltre, se l'Edmund di Rossellini viene letteralmente sconvolto da ciò che vede al punto da essere spinto al suicidio, il Puyâ di Kiârostami non è sfiorato da alcuna tentazione di annientamento. Il viaggio è per lui scoperta dell'impegno della ricostruzione: la vita continua e, nonostante il dolore, un'antenna televisiva permetterà di vedere la partita dei mondiali di calcio. Dalla rappresentazione all'enunciazione Nella trilogia lo spazio cinematografico centrifugo prende corpo nell'esplosione dell'inquadratura oltre i propri limiti, stimolando l'immaginazione dello spettatore che si trova costretto a visitare e ricostruire uno spazio che ipotizza, a partire dai dati che eccedono l'immagine pur appartenendole. Il fuori campo rende conto dell'eccedenza della diegesi, ponendosi oltre lo spazio reale, bidimensionale e rettangolare dell'inquadratura (lo spazio iconico), ma all'interno dello spazio fittizio, tridimensionale ed illimitato della diegesi, "ricostruibile in base ai dati offerti dal discorso filmico". In Dov'è la casa del mio amico? il fuori campo immaginabile fa sentire il suo peso nella sequenza in cui Ahmad si dirige con il vecchio falegname alla ricerca della casa di Mohammad Rezâ Ne'matzâde e in quella simmetrica in cui ritornano indietro, animando il campo dei riflessi colorati delle finestre poste fuori campo e di voci e rumori di cui lo spettatore può solo immaginare il corpo e l'origine. In E la vita continua il viaggio dei due protagonisti è accompagnato dal basso continuo dei rumori del traffico, del suono delle sirene e del rombo degli elicotteri, senza che la loro origine sia sempre visualizzata: suoni d'ambiente inglobanti o suoni-territorio, che marcano tutta la regione del Gilân con la loro presenza continua ed onnipresente. L'incontro con un'anziana signora al villaggio, inoltre, si colloca quasi interamente nel fuori campo che si cela dietro la porta dalla quale provengono le voci, a porre lo spettatore ad una giusta distanza dalla tragedia, senza scaraventarlo all'interno dell'abitazione, luogo per eccellenza del dolore familiare (il lutto) e della distruzione (le macerie). In Sotto gli ulivi, infine, questo procedimento giunge a termine a partire dalla seconda sequenza, che in un'unica inquadratura condensa l'incontro della signora Shivâ con il signor Defâhi, senza che i due interlocutori vengano mai inquadrati. In questo caso il fuori campo che lo spettatore è chiamato a ricostruire non è solamente una figura della cible, ma anche del foyer: il rifiuto del controcampo (che è assenza di intervento), dove sarebbe atteso e prevedibile, assume il valore di intervento, facendo sentire la presenza dell'enunciatore, nella misura in cui costringe lo spettatore a subire ciò che gli viene dato a vedere, scegliendo (o non scegliendo) per lui e negandogli la libertà (illusoria) della visione. I titoli di testa dei tre film della trilogia segnano, nella loro varietà e per tappe successive, l'ingresso dello spettatore nella finzione, non senza un richiamo all'attività cinematografica stessa, ora implicito ora esplicito. Le tre sequenze di apertura vanno, così, a costituire un percorso ideale attraverso il quale viene progressivamente disvelato il gesto enunciativo. L'inquadratura di apertura di Dov'è la casa del mio amico? è un campione dell'intera trilogia con funzione metonimica, rappresentativo dell'intero modus operandi di Kiârostami, per la tensione che si instaura tra lo spazio visibile e quello non visibile (il fuori campo che si cela dietro la porta stessa e dal quale provengono le voci di bambini che schiamazzano). Si tratta di una lunga inquadratura iconica (che immette direttamente lo spettatore nella finzione) di una porta che oscilla, tanto omogenea, uniforme e poco informativa rispetto alla sua durata da creare una certa dilatazione temporale e fungere da sfondo per il testo scritto. Due strutture enunciative si sovrappongono: quella del testo iconico (da vedere) e quella generatrice del testo scritto (da leggere), elemento che inscrive esplicitamente nel film le sue marche di enunciazione. Ad attenuare il contrasto tra il testo iconico (diegetico) e quello scritto (extradiegetico) è il valore simbolico che assume la porta, incorniciata e "tagliata" a sua volta dal rettangolo dello schermo, raddoppiamento della mediazione scopica e figura del foyer. L'apertura della porta, che accompagna il passaggio all'inquadratura successiva, marca (raddoppiandolo) il segno di interpunzione introdotto dallo stacco operato dal montaggio, segnando la fine della lettura e di una forma di visione dominata dall'attività discorsiva. Con l'ingresso in campo del maestro entriamo nella finzione, calati pienamente nell'universo diegetico del film. In E la vita continua, invece, l'ingresso dello spettatore nella finzione si fa immediato e repentino per la presentazione ritardata dei titoli di testa. L'inquadratura di apertura allude al "darsi" del film in maniera debole e svigorita, attraverso il raddoppiamento del quadro operato dal casello autostradale, davanti al quale sfilano gli automobilisti che cercano di raggiungere i villaggi distrutti dal sisma. La voce fuori campo montata su questa inquadratura accentua l'effetto finzione, proiettando direttamente lo spettatore nella situazione. La macrosequenza che precede i titoli di testa presenta già tutti gli elementi che animeranno il film sul piano narrativo (l'automobile, il viaggio e i suoi protagonisti) e su quello stilistico (camera car, rispetto del tempo reale, ecc.). I titoli di testa compaiono solamente quando l'auto entra nel grande tunnel, stagliandosi con i loro caratteri bianchi sul buio della galleria, in un'inquadratura alquanto omogenea che permette allo spettatore di concentrare la propria attenzione sulla lettura. L'uscita dal tunnel assume una triplice funzione: chiude definitivamente il prologo e sancisce il progressivo avvicinamento alla regione colpita dal terremoto, indica la fine della lettura e, attraverso l'opposizione buio/luce, anticipa simbolicamente la fine del film, ovvero la riscoperta della vita e della voglia di continuare a vivere nonostante la morte e la distruzione. Un finale annunciato dal titolo stesso: E la vita continua… Anche in Sotto gli ulivi i titoli di testa vengono presentati in medias res. L'inquadratura di apertura ricorre ad un gesto brechtiano, che denuncia la finzione come inganno e smaschera l'attore stesso come parte dell'istanza enunciativa. Lo sguardo in macchina, esplicito gesto di interpellazione che chiama in causa l'enunciatario, è una figura della cible, nonché del foyer dell'enunciazione, figurativizzato in un personaggio di cui condivide l'azione (il guardare) e gli obiettivi (puntare a colui che viene chiamato a guardare). L'enunciatore, riassorbito dai bordi dell'immagine, acquista lo statuto del narratore diegetizzato o delegato (personificato e attestato). Il narratore, inquadrato in F.I., svela il suo ruolo all'interno del film (quello di regista del film nel film) e la sua identità (quella di attore) e introduce il film che stiamo per vedere; si tratta di una voce in (interna all'immagine) riconducibile ad un regime narrativo extra-omodiegetico, in cui al narratore, appartenente alla diegesi (omodiegetico), ma in posizione momentaneamente defilata (peridiegetica), è affidata una narrazione di I livello (extradiegetica). Le informazioni che ci vengono veicolate sul film primo sono quelle che lo pongono in diretta relazione con il film secondo, fornendoci un sapere metadiegetico. I titoli di testa vengono inseriti al termine del prologo, su fondo nero, con un forte segno di punteggiatura che marca un'ellissi sul piano diegetico (dal giorno dei provini ci spostiamo al giorno delle riprese) ed indica il passaggio ad una forma di visione non più dominata dalla modalità discorsiva. Ad attenuare lo stacco interviene solo la musica che, pur essendo diegeticamente giustificata, accompagna anche i titoli di testa. Soffermiamoci ora sull'uscita dello spettatore dalla finzione, con una serie di gesti che accentuano la sua posizione di semplice enunciatario al quale è stato dato a vedere un film e che ora può e deve ritirarsi. Il finale di Dov'è la casa del mio amico? è il solo finale chiuso della trilogia e il solo ad essere rivolto su stesso, per la struttura ciclica che impone il ritorno - con le dovute differenze - ad una situazione analoga a quella di partenza. Esplicitamente aperti, invece, sono i finali di E la vita continua, in cui non sappiamo se i fratelli Ahmadpur siano stati ritrovati, e di Sotto gli ulivi, in cui non conosciamo la risposta di Tâhere. Alla non chiusura sul piano narrativo fa eco il progressivo allontanamento della mdp dall'azione fino al C.L. L'enunciatario, rinunciando alla propria competenza, si cala in quella dell'enunciatore, riducendosi a pura facoltà di vedere, a sguardo senza collocazione. Il gesto è, in entrambi i casi, accentuato dalla musica extradiegetica che contribuisce all'astrazione della scena dalla contingenza in cui è filmata e che la scandisce in due tempi alludendo ad un possibile mutamento di percorso. Lo spettatore è calato nella finzione anche per mezzo di soggettive, attraverso le quali la mdp assume il punto di vista di uno dei personaggi. In Dov'è la casa del mio amico? l'uso delle inquadrature in soggettiva si riduce a qualche caso sporadico, di lieve importanza nella geografia degli sguardi che intrecciano la tessitura filmica, se non per il valore che assumono nella costruzione del film, in quanto condensano il senso della ricerca "indiziaria" in cui è impegnato Ahmad. In E la vita continua la ripresa in soggettiva occupa, invece, una posizione di fondamentale importanza all'interno del film, a partire dalle prime sequenze. La soggettiva rende conto dello sguardo dei protagonisti dall'interno dell'automobile, sorta di finestra sul mondo in cui è calato anche lo spettatore: lo spazio esterno viene inquadrato dall'interno dell'abitacolo, attraverso i finestrini laterali o il parabrezza, in un raddoppiamento della mediazione scopica che è anche una figura del foyer. In Sotto gli ulivi, infine, sono le riprese sul set ad esser girate in soggettiva, dal momento che la mdp sposa il punto di vista della mdp interna al film, quella che sta girando E la vita continua o, se vogliamo, della troupe che assiste alle riprese. Al di là delle soggettive e delle semisoggettive, lo spettatore si cala nella finzione identificandosi con il personaggio all'interno dell'identificazione con la mdp. Il narratore dà un'inflessione alle cose tradendo un punto di vista "predicativo", corrispondente ad un suo preciso atteggiamento mentale e al suo giudizio sull'avvenimento. Così, in Dov'è la casa del mio amico? la mdp si pone ad altezza di Ahmad, anche se in focalizzazione esterna, da un punto di vista che tende a rivelarne il "mondo interiore", in E la vita continua ad altezza di Farhâd e in Sotto gli ulivi ad altezza di Hoseyn. È per questo che si potrebbe parlare di focalizzazione interna sul personaggio. La trilogia non fa sentire solamente la presenza dello spettatore, ma anche del narratore, che occupa posizioni variabili, ora nascondendosi dietro le quinte e registrando gli eventi come semplice testimone ora rivelando la sua presenza attraverso esche, manovre preparatorie o segni premonitori che orientano la nostra visione e ci avvertono di ciò che accadrà. Basti pensare all'attenzione che nel primo film della trilogia viene riservata al lavoro minorile o al contrasto tra modernità e tradizione e tra giovani e anziani o alle "manovre" che in E la vita continua annunciano la difficoltà dell'automobile a salire sulla collina e in Sotto gli ulivi ci preparano a conoscere la storia di Hoseyn. La trilogia presenta più o meno esplicitamente, nella varietà delle tre storie che racconta, la diegetizzazione di alcuni elementi che appartengono al cinema, al suo "farsi" e al suo "darsi a vedere". In Dov'è la casa del mio amico?, nella sequenza in cui Ahmad si dirige con il vecchio falegname alla ricerca della casa dell'amico, i riflessi delle finestre poste fuori campo possiedono una doppia connotazione: dal punto di vista diegetico sono un esempio del contrasto tra modernità e tradizione sul quale il film si è più volte soffermato, mentre dal punto di vista enunciativo costituiscono un esempio di mise en abyme omogenea visiva, che, inducendo lo spettatore ad immaginare il fuori campo, rimanda alla struttura stessa del film e al sistema indiziario che caratterizza la ricerca del protagonista. Come lo spettatore deve ipotizzare lo spazio fuori campo di cui i riflessi, in continuità metonimica, sono indice, così Ahmad deve decifrare gli indizi che incontra nei suoi due viaggi a Poste, collegandoli correttamente al loro referente. I riquadri interni sono una delle principali caratteristiche di E la vita continua, materializzati nel parabrezza e nei finestrini laterali della Renault di Farhâd. Qui il quadro secondario ha la funzione di "mettere in evidenza il primo quadro, cioè il luogo dell'enunciazione, di cui è una «marca», fra le altre, frequente e riconoscibile", obbedendo ad un principio metadiscorsivo. Si tratta di una metafora del film, dell'intero percorso di conoscenza di Farhâd e del figlio e del loro approccio con una realtà "altra" che prende le proprie mosse dall'automobile e che ha come principale strumento proprio la vista. A queste inquadrature dobbiamo aggiungere l'inquadratura in cui Puyâ, giocando con le proprie dita, realizza una sagoma quadrangolare ponendo l'accento sul "farsi" stesso del raddoppiamento e la sequenza in cui Farhâd si avvicina ad una casa diroccata in cui il riquadro interno è presente (ora per accostamento, ora in successione) in una triplice variante (finestra, quadro, specchio). Lo specchio sostituisce quasi completamente le finestre in Sotto gli ulivi, il film metadiscorsivo per eccellenza. Accanto alle inquadrature in cui una serie di sottoriquadri crea un effetto concentrico di messa in abisso, si segnala infatti la cospicua presenza di specchietti retrovisori che alludono al meccanismo riflessivo del dispositivo cinematografico e al suo ritardo rispetto alla realtà. A questi si aggiunge l'eco, che possiede nel film una doppia connotazione: sul piano della diegesi si lega al discorso di Hoseyn e sul piano dell'enunciazione filmica allude al tentativo del cinema di riflettere la realtà (riproducendone l'ambiente sonoro). In Sotto gli ulivi altra marca di enunciazione è la messa in vista del dispositivo cinematografico, o meglio di un dispositivo cinematografico, quello che ha prodotto E la vita continua, di cui ci vengono mostrati il set, la mdp che lo sta girando, l'apparecchiatura per la registrazione del suono o la realizzazione delle foto di scena, il ciak (in cui in realtà leggiamo il titolo Sotto gli ulivi), la troupe stessa e gli attori che recitano nel film. Accanto agli strumenti del mestiere vi sono gli addetti ai lavori, ampio catalogo delle figure che animano il mondo del cinema: il regista del film nel film (Keshâvarz), la segretaria di produzione (la signora Shivâ), l'aiuto regista (Panâhi, aiuto regista di Kiârostami nella realtà) e così proseguendo con il tecnico del suono, il fotografo di scena e l'operatore. Le tracce dell'enunciazione in questo film operano anche attraverso la finzione. Accanto ai ruoli professionali e all'ingresso del regista nella finzione merita di essere menzionato il flash back attraverso il quale Hoseyn fa partecipe Keshâvarz della sua vita. Informatori e figure professionali hanno i loro corrispettivi tra le figure della ricezione. I protagonisti dei primi due film della trilogia sono veri e propri alter ego dello spettatore: viaggiatori attenti, intenti a decifrare indizi e a inoltrare un territorio sconosciuto, sfidando l'instabilità del loro percorso (come Farhâd) e rischiando di smarrirsi e non tornare indietro (come Ahmad). In Sotto gli ulivi, invece, la figura dell'enunciatario si incarna direttamente nei bambini-spettatori che sono venuti ad assistere alle riprese di E la vita continua. Al pari dell'esibizione degli specchi e dei dispositivi rivelati, forma riflessiva ormai consolidata è quella del film nel film. E la vita continua instaura uno stretto legame con Dov'è la casa del mio amico?, ma solo sotto forma di richiami impliciti: non vediamo mai delle inquadrature o delle sequenze del film precedente, ma sappiamo che Farhâd e il figlio stanno cercando i bambini che ne sono stati protagonisti (di cui vediamo le foto) e incontriamo le persone "reali" che vi hanno recitato (Mohammad Rezâ Parvâneh, il bambino seduto in terza fila e il signor Ruhi). Riflessività e transitività si intrecciano e si confondono: da un lato vengono svelati i trucchi del cinema e dall'altro ci viene mostrato anche il retroscena della vita degli attori non professionisti, abitanti di un povero villaggio per giunta colpito dal sisma. Nell'ultimo film della trilogia il meccanismo riflessivo si esplicita instaurando una simbiosi in cui il film primo (Sotto gli ulivi) si tesse attraverso il film secondo (E la vita continua), che non è veramente altro (non si tratta delle vere riprese di E la vita continua) e che al tempo stesso non viene completamente inglobato dal film primo (ne vediamo solo alcune sequenze). Invece di realizzare un documentario sulle riprese di E la vita continua, Kiârostami torna sul film precedente penetrandone la realtà e toccandone l'intimità, fino a tirarne fuori la vera anima (il lato crudele del cinema), che il film non ci aveva permesso di conoscere. Continuiamo, però, a distinguere il film dal film nel film che si sta realizzando al suo interno e il procedimento di mise en abyme non viene realizzato perfettamente. Il film secondo, infatti, nonostante le apparenti somiglianze, non riflette il soggetto del film in cui è inserito. Si viene a creare un intreccio di livelli di realtà nel rapporto che il film intrattiene con la sua costruzione interna e che lo spettatore deve districare: 1) la finzione nella finzione, ovvero l'enchâssement di E la vita continua in Sotto gli ulivi, 2) la messa in scena della finzione nella finzione, ovvero il set di E la vita continua, 3) la realtà della finzione, ovvero la storia d'amore tra Hoseyn e Tahere che si svolge negli interstizi delle riprese, 4) la realtà oltre lo schermo, ovvero la vita reale degli attori della finzione che il film non ci mostra, 5) il precedente film della trilogia, che viene richiamato e al quale si fa riferimento. Dei 5 livelli individuati, solamente i primi 3 sono interni alla finzione, mentre gli altri sono esterni. Lo scarto esistente tra il I e il V livello è quello che smaschera la finzione. D'altra parte è lo stesso narratore diegetizzato a disvelare l'inganno collocando le riprese non più 5 giorni dopo il terremoto (come in E la vita continua), ma un anno dopo. Il cinema continua ad ingannare gli innumerevoli Sabziyân che proiettano i loro sogni sullo schermo, mentre la vita continua il suo corso, anche oltre gli ulivi… Conclusioni Il viaggio di Ahmad, di Farhâd e di Hoseyn è un viaggio di superamento delle barriere e degli ostacoli che si frappongono alla ricerca, verso territori nuovi e sconosciuti che trovano la loro concretizzazione nella solidarietà verso un compagno, nella conoscenza e nell'aiuto della popolazione colpita dal terremoto e nel desiderio di conquistare la propria amata seguendola nello spazio che si apre oltre gli ulivi. Nonostante l'apparente neutralità delle modalità di ripresa, la messa in scena e la messa in quadro non mancano di mostrare il loro carattere necessariamente concertato e motivato, così come sul piano enunciativo il narratore e lo spettatore fanno il loro ingresso in campo, inizialmente in maniera implicita e successivamente in maniera esplicita, attraverso il film nel film. Rappresentazione ed enunciazione si incontrano e si alimentano reciprocamente.
Note
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Mara Cerquetti