La leggerezza di Kiârostami questa volta passa attraverso il ricorso al simbolo e al "respiro filosofico" della narrazione. Mito, poesia, umanesimo nella storia di un fotografo che perde la sua macchina fotografica ma riacquista la vista. Orazio, Candide, Forugh Farrokhzâd i punti di riferimento kiarostamiani.
Titolo originale: Le vent nous emportera. Regia e sceneggiatura: Abbas Kiarfostami. Soggetto: da un’idea di Mahmoud Ayedin. Fotografia: Mahmoud Kalari. Montaggio: Abbas Kiarostami. Musica: Peyman Yazdanian. Interpreti: Behzad Dourani e gli abitanti del villaggio di Siah Dareh. Produzione: Marin Karmitz, Abbas Kiarostami per MK2 Productions. Distribuzione: Bim. Durata: 118’. Origine: Francia/Iran, 1999. Un gruppo di viaggiatori attraversa un paesaggio desertico su una jeep. Il tortuoso cammino che la macchina percorre porta ad un paese quasi nascosto nella natura circostante. I viaggiatori, guidati da un giovane locale, resteranno nel paese per qualche giorno. Il loro incarico, segreto e misterioso per gli abitanti del villaggio, è quello di filmare la morte di una anziana malata. A poco a poco il gruppo si dimenticherà dell’impegno, abbandonandosi all’ozio; solo il protagonista percorre, curioso e attento, le sinuose vie del paese. Seguendo le indicazioni del ragazzo, l’uomo inizia a avvicinarsi all’operosa vita quotidiana della gente del posto. Da un’intraprendente signora che gestisce un bar ad una ragazza che munge il latte nell’oscurità di una stalla. Poco lontano dal villaggio, sopra un promontorio, sta un cimitero dove l’uomo si reca sovente, anche perché è l’unico luogo da cui poter comunicare per mezzo di un cellulare. Delle sue telefonate come delle ragioni del soggiorno nulla trapela presso la comunità degli abitanti. Mentre tra questi cresce la curiosità per il vagabondare dell’uomo, il caso gli riserverà un ruolo importante. Nel cimitero, mentre l’uomo telefono, avviene il crollo di una buca nella quale un operaio stava scavando. L’uomo potrà così allertare in tempo i soccorsi e salvare la vita al lavoratore, offrendo la sua automobile al trasporto dell’infortunato. Il racconto si chiude con il ritorno al paese dell’uomo accompagnato dal dottore su un motorino. Un’occasione per gettare uno sguardo alla natura e riflettere sulla vita.
A fronte di un’arte sempre più aggrappata agli effetti speciali, a storie che sembrano aver perso quella grazia narrativa del cinema detto oggi classico, la semplicità abbracciata da Kiarostami affascina. Sembra la risposta ad una realtà culturale, ma anche storica e geografica, ingarbugliata (in Europa come nel Medio Oriente). Visto alla luce della scadenza del secondo millennio, che pare giustificare l’esplosione dei più folli deliri visionari, il processo d’epurazione, a cui le opere del regista iraniano sono sottoposte, acquisisce il significato di un preciso programma. Si potrà discutere sulla tiepidezza di tale manifesto — soprattutto se relazionato alla situazione da cui proviene — ma è indubbio che ogni film di Abbas Kiarostami si offre, sia per lo sviluppo narrativo scelto sia per le relazioni che intraprende con lo spettatore, come percorso di vita. Certamente, può infastidire il fatto che il portavoce (volente o nolente) di uno stato così ottusamente integralista non scelga la modalità di una dura opposizione; l’assenza di un programma di lotta esplicita non può però far passare il regista tra i complici di una tale politica. Non si può chiedere a Kiarostami di fare il rivoluzionario; come sarebbe del tutto fuorviante considerare i suoi film alla stregua di messaggi cifrati alla comunità internazionale. Questo però non deve far pensare ad un disinteresse dell’uomo verso la situazione storica in cui si trova. La sua arte è dissidente proprio perché non scende sul campo del nemico. Kiarostami parla dell’Uomo, il suo discorso tocca tanto l’iraniano quanto il curdo; l’europeo e l’americano. Il processo d’epurazione, lampante nelle ultime due opere, non è tuttavia assimilabile ad una negazione della realtà di provenienza. Sia Il sapore della ciliegia sia Il vento ci porterà sono intimamente legati ad un luogo fisico: da esso ne traggono linfa per raccontare dei percorsi di vita. La collina e il villaggio sono sì paesaggi simbolici, ma prima ancora territori fisici che il cinema esplora con uno sguardo solidale. Il cinema di Kiarostami non esisterebbe al di fuori della realtà iraniana; così come non esisterebbe se parlasse della politica iraniana. Non solo perché, forse, lo stesso regista, fisicamente, non sussisterebbe più, ma anche perché la sua poetica rischierebbe l’afasia. Un racconto filosofico La dimensione didattica, evidente nei primi film, si tramuta qui in percorso simbolico. Il racconto filosofico di Voltaire aleggia nella messa in scena di Kiarostami. Traspare una leggerezza affine a quella del «Candide», che non esclude la profondità di analisi ma la sintetizza, cogliendola in un movimento unico, in cui pensiero e sua espressione sembrano simultanei. Allo stesso modo, nel film, simbolico e reale si danno la mano; in un quadro che colpisce per la facilità con cui da un piano narrativo si trascorre ad uno morale o all’ambito poetico. Nel viaggio verso il paese ai confini della civiltà, nell’abbandono quasi totale di ogni azione finalizzata ad un esito pratico da parte del gruppo dei viaggiatori — a cui si contrappone la semplice operosità degli indigeni — si può cogliere la volontà di presentare una filosofia di vita, prossima a quella dell’illuminista francese. Dopo il pessimismo “leopardiano” de Il sapore della ciliegia, Kiarostami realizza un film in cui, nonostante la critica soffusa al suo protagonista, la realtà circostante è vista con uno sguardo più benevolo. Fiducioso. Fin da quei primi piani, in cui la situazione di smarrimento dei viaggiatori, ripresa direttamente dal film precedente, è mitigata da una divertita simpatia. Anzi: sebbene essi sembrino in balia delle circostanze, quel loro interrogarsi sulla giustezza della strada intrapresa, è chiara indicazione di una posizione positiva, oltre che una precisa scelta di campo. Solo chi cerca può trovare: questo il dettame che l’uomo del film segue costantemente. Certamente qualcosa c’è stato e la tempesta della sera prima (leggi: film precedente) si sente ancora. L’immagine d’apertura — la jeep che solca il campo largo — non presenta quello sguardo ordinato cui eravamo abituati. Il bambino che percorre la collina sezionata diagonalmente da un sentiero in Dov’è la casa del mio amico?, o il giovane che rincorre l’amata seguendo le tracce invisibili di un percorso tra i campi in Sotto gli ulivi erano il segno di una razionalità che il reale sembrava aver acquisito. Qui i protagonisti sembrano preda dell’ambiente. Il campo largo diviene il luogo per un’immagine soggettiva: riproduzione mimetica dello spaesamento vissuto dai protagonisti (la focalizzazione interna è suggerita dal sonoro che esclude l’audio ambiente). Similmente il sentiero non è figura della ragione umana che seziona e adatta la natura, ma segno di un percorso difficilmente comprensibile che finisce per gettare l’uomo nelle braccia della natura. Questo cambiamento di prospettive è significativo perché illustra una diversa posizione che Kiarostami adotta nei confronti dei suoi personaggi. Dallo sguardo pedagogico, divertito e ironico delle prime opere, che conduceva negli esiti migliori a suggestive visioni della realtà e delle sue orme di rappresentazione, si trascorre ad una maggiore compenetrazione tra autore e personaggio. L’uomo di Kiarostami — che pare nascere da quei bambini pieni di curiosità dei primi cortometraggi — crescendo acquista un atteggiamento di distacco, doloroso e disincantato. Consapevole della ferita del mondo, lacerato da esso e in fuga verso territori desertici, sa tuttavia mutare questa fuga in viaggio. Un percorso di conoscenza a partire da un naufragio. In questo rapporto tra soggetto e ambiente (umano e fisico), nel tentativo d’orientamento che l’uomo del film compie, Il vento ci porterà può essere considerato un film rinnovatore. Dopo il punto di non ritorno costituito da Il sapore della ciliegia, dopo aver dato una ragione alla sua presenza nel mondo, l’essere umano cerca di assimilare la realtà circostante. Il percorso del protagonista disegna questa situazione. In questa rinascita, indispensabile è la figura della fuga, che, rapportata alla situazione in cui il regista vive, acquista anche un valore tragico. Del mito e del suo eroe In questa direzione il viaggio verso la periferia o la campagna può recuperare anche una dimensione realistica. Testimonia la perdita di fiducia nei confronti dello sviluppo e della civiltà. Evidente è l’ironia o lo scherno che accompagna l’entrata in scena del cellulare, come evidente è l’affetto o la simpatia che seguono le visioni di una realtà nascosta, appartata. Dove le generazioni sembrano darsi la mano: l’anziana signora che resiste tenacemente al passare degli anni e la giovane il cui volto si nasconde all’uomo, e che si rivela solo alla magia del cinema, in una visione di scorcio. Se i viaggi degli argonauti erano delle metafore per raccontare delle conquiste dello spazio e davano ragione di un’esplorazione che il popolo civile aveva compiuto ai danni dei barbari, il viaggio di fine millennio si rovescia di senso. Privilegia l’emergere delle zone d’ombra, perché il percorso dell’eroe non tende a metterle in luce ma a preservarle, tutt’al più evocandole. La scoperta non è conseguente ad un movimento d’espansione, ma il risultato di un ripiegamento. Eroe è allora chi dimentica il proprio sapere e si affida al prossimo. Chi si abbandona alla natura e ne sa cogliere l’intima saggezza. Il vello d’oro di Kiarostami si trova, dimenticato, nella frontiera interna. Dentro una stalla. Kiarostami — sempre più investito dal percorso dei suoi personaggi — sta dalla parte dei nascosti. Vorrebbe essere, anche lui, nascosto. Occulto e dimenticato per poter proseguire coerentemente una riflessione personale. Il vento ci porterà è invece l’opera che testimonia la presa di coscienza di un ruolo che il regista assume. La dimensione simbolica risponde di questa posizione. Una posizione da cui ci sembra di vedere l’uomo Kiarostami in difficoltà. Ancora troppo tenacemente attaccato alla vita per far esplodere quelle contraddizioni che turbano i suoi personaggi. Questa stessa posizione — di ritiro forzato — garantisce invece all’artista Kiarostami la messa a punto delle sue qualità. Il vento ci porterà è il segno tangibile di un’arte che raggiunge livelli altissimi, per grazia e semplicità. Leggerezza Il film che tematizza questa presenza segna la quasi totale assenza degli agenti atmosferici. Il vento è il soffio, la seduzione di una parola, gettata nell’intima oscurità di una stalla. Dove l’aria verosimilmente è di piombo. Appartiene al verso di una poesia, quello che à il titolo del film, il compito di far smuovere l’aria. La lirica di Forough Farrokhzad (1934-1967), con il suo ritmo soave, sembra emergere dai recessi del protagonista, ma da quel momento anima l’intera opera. Come un basso continuo non la abbandona più. La poesia rappresenta il centro emotivo del racconto, essa è il punto di volta che fonda il cambiamento. La poesia emerge dal buio di una stalla. Sancisce quell’unione tra arte e vita che il film racconta e insieme non la banalizza con un’enunciazione palese. La ammanta di quella sospensione che il discorso poetico ha. D’altra parte essa preannuncia il capovolgimento finale: quel momento in cui gli uomini arrivati per filmare una morte vivranno l’esperienza di una vita riconquistata. Quella prova dopo la quale 1’uomo potrà riprendere il suo posto nella natura. Guardarla e comprenderla. |
Carlo chatrian
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