«Eureka non ne ha l'aria, ma in effetti è un western!», dice il regista, che non tralascia neanche di citare Sentieri selvaggi come referente del suo film... Dispersi nell’ampiezza solenne e fuoritempo di un bellissimo cinemascope in un bianco e nero seppiato, i personaggi si spostano nella realtà cercando un nuovo accesso nello spazio delle loro coscienze, occluse nel trauma del tragico evento che li ha sospinti nel vuoto in cui galleggiano.
Da anni in crescita in una dimensione di complanare spiazzamento rispetto a gran parte della produzione giapponese contemporanea, il cinema di Aoyama Shinji ha infine trovato nel respiro disteso delle oltre tre ore e mezza di Eureka il tempo di un confronto totale e veramente intimo con i suoi perso-naggi. Conosciuto ed apprezzato in Italia grazie al Torino Film Festival,che ha presentato tutti i suoi film, questo giovane regista con precedenti di critico (ha curato l'edizione giapponese dei Cahiers du Cinéma) lavora da sempre su una immateriale sostanza del vivere, avviluppandosi attorno al gioco relazionale delle sue figure in movimento, disperse sul paesaggio desolato di una realtà estranea alle comuni coordinate del reale. Una immota pulsione etica prende i suoi personaggi come di sorpresa rispetto all'indolente scorrere delle loro esistenze, quasi bloccandoli in se stessi e, al contempo, fuori dalla realtà: Helpless, Chinpira, Tsumetai Chi, il recente Shady Grove prima di questo Eureka, raccontano tutti di fuoriuscite esistenziali, di deviazioni dalla stasi perpetua della vita destinate a produrre terminali ritrovamenti e immateriali riconversioni. Nel quadro rientrano sempre giovani figure sradicate nella loro stasi, fondamentalmente immobili nella loro libertà, infine sospinte in direzione di una ricerca che ne anima le piatte coscienze, increspandole di emozioni e sentimenti trovati con disponibile stordimento nello spazio improvviso di accadimenti estre-mi e scoordinati. Del resto anche Eureka è un viaggio iniziatico a ritroso: parte dal prematuro epilogo che coglie le esistenze dei protagonisti e le getta nella sospensione di una vita vissuta in mancata morte. L'inizio è folgorante per la nettezza dei tratti che si contrappone diametralmente allo sfocamento del resto del film, prima di consegnarsi al volo finale: un autobus cittadino dirottato in uno spiazzo da uno psicopatico intenzionato a sterminare gli ostaggi, è il punto di fuga terminale delle esistenze dell'autista Makoto, della piccola Kozue e di suo fratello maggiore Naoki. Sopravvissuti al rapimento, i tre in realtà restano ostaggi di quell'evento sino a quando, due anni dopo, le loro strade non si incrociano di nuovo: rimasti soli dopo la morte del padre e chiusi in un silenzio gravido del trauma subito, i due ragazzi finiscono infatti per accogliere in casa Makoto, infine riapparso in città e subito allontanato dalla sorella, in quanto sospettato dalla polizia d'essere il responsabile dei misteriosi omicidi commessi nei paraggi. La convivenza dei tre riunisce le tracce disperse delle loro vite sospese sul drammatico evento di due anni prima, ma, poiché ciò non basta a sbloccarne il dolore, Makoto acquista un autobus d'occasione, lo rimette in sesto adattandolo a camper e, assieme a Kozue, Naoki e al loro cugino Akihiko, infine unitosi a loro, parte per un lungo viaggio senza meta. Una sorta di peregrinazione nelle loro coscienze, che, ini-ziata nel punto in cui s'era consumata la fondativa tragedia, è destinata a terminare in una liberazione dal peso della morte che gravava sullo spirito di tutti loro, e segnatamente su quello di Naoki. Anche in questo suo nuovo film, Aoyama Shinji spende il suo intenso sguardo su una immaterialità che traduce il suo cinema in una ampiezza della dimensione etica dei personaggi che ha qualcosa di estremamente classico. «Eureka non ne ha l'aria, ma in effetti è un western!»,dice del resto il regista, che non tralascia neanche di citare Sentieri selvaggi come referente del suo film... C'è una funzione epica dello smarrimento che agisce come traccia fondamentale del percorso iniziatico di questi personaggi così immateriali e limpidi nella loro spostata purezza, una potenza morale che traduce in insensibile eroismo il loro più intimo dolore, la loro necessaria inadattabilità alla realtà cui dovrebbero appartenere. Dispersi nell'ampiezza solenne e fuoritempo di un bellissimo cinemascope in un bianco e nero seppiato, che in realtà attende solo di ritrovare i colori nella sequenza aerea del finale, questi personaggi si spostano nella realtà cercando un nuovo accesso nello spazio delle loro coscienze, occluse nel trauma del tragico evento fondativo che li ha sospinti nel vuoto in cui galleggiano. Rapiti a se stessi e mai "tornati a casa", Makoto, Naoki e Kozue vivono la loro assenza nell'epica attesa di un ritorno che li restituirà al loro pieno valore morale, eroi dissipati il cui destino è quello di ritrovare se stessi al termine di un viaggio destinato a porli di fronte ai fantasmi della loro coscienza: «Alla fine del film Makoto dice a Kozue: "Kaerō" ("Torniamo!"), che è l'equivalente del "Let's go home, Debbie!" di John Wayne a Natalie Wood nell'ultima scena di Sentieri selvaggi», ribadisce ancora il regista nelle sue note sul film, rimarcando il significativo rimando fordiano. Del resto il rigore con cui Aoyama Shinji affronta la trasparenza dei suoi personaggi si traduce in un pacato impeto d'attesa che sembra sostenere l'idea stessa di una fuga/assenza come segno prolungato della durata della vita. Le geometrie da cui dipendono tutte le inquadrature scaturiscono da una simmetria intima alla natura dei personaggi, colti in essere sulla immateriale colpa della loro sopravvivenza all'evento che avrebbe dovuto stroncarne le esistenze e le ha invece solo proiettate in un altrove dal quale ora attendono/cercano/temono di tornare. Sfuggito alla morte nel tragico gioco d'equilibrio che, al culmine dell'evento fondativo,lo aveva visto legato al corpo dello psicopatico – spalle contro spalle, identici nell'abbigliamento, mimetici l'uno rispetto all'altro agli occhi della polizia, in una drammatica bilancia in equivalenza di pesi e in opposizione di macchia –, Makoto ristabilirà solo alla fine l'equilibrio morale della innocente colpa d'essere sopravvissuto. Ognuno di questi fantasmi ritroverà il suo tempo e il suo spazio nell'identità con il segno morale di cui si rendono responsabili: Makoto sfuggendo infine al peso della mortale gemellarità con lo psicopatico dell'autobus, Naoki sfuggendo al peso della morte di cui s'era fatto interprete, Kozue risolvendosi nella libertà da cui era stata separata. |
Massimo Causo
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