Asiamedia

Umrao Jan, 1981

India

Umrao Jan è uno degli astri più luminosi del kotha movie, il 'genere' che ruota intorno alla figura di una cortigiana. Tratto da un romanzo dello scrittore urdu Mirza Hadi "Rusva" (1857-1931), narra le vicende di una ragazzina rapita e venduta a un bordello di Lakhnau, dove cresce e diventa una famosa poetessa/cortigiana, ammirata e onorata da intellettuali ed artisti. Ma diventare un 'individuo' comporta un alto prezzo da pagare.

Regia e produzione: Muzaffar Alī; Compagnia di produzione: Integrated Films; Soggetto: dal romanzo Umrāo Jān Adā di M.H. "Rusvā"; Sceneggiatura: Shamā Zaidī, Jāved Siddīqī, Muzaffar Alī; Fotografia: Pravīn Bhatt; Scenografia: Bansī Chandragupt, Muzaffar Alī e Manzūr; Costumi: Subhāshinī Alī; Montaggio: B. Prasād; Musica: Khayyām; Versi: Shahryār; Interpreti: Rekhā (Umrāo Jān); Fārūq Shekh (Navāb Sultān); Shaukat Kaifī (Khānam Sāhab); Gauhar Mirzā (Nasīruddīn Shāh); Rāj Babbar (Faiz Alī); Dīnā Pāthak (Husainī); Gajānand Jāgīrdār (il Maulvī). Urdu/colore/145'
 

Amīran, mentre gioca col fratellino, viene rapita da un nemico del padre e venduta a un raffinato kothā (bordello) di Lakhnau, diretto da Khānam Sāhab. Divenuta una bellissima cortigiana, acquista fama anche come poetessa, col nome di Umrāo Jān. S'innamora, riamata, di un aristocratico, il Navāb Sultān. Questi tuttavia si sposa per obbedire alla volontà della madre, mentre Umrāo fugge delusa dal kothā insieme al bandito Faiz Alī, che viene ucciso in un'imboscata. Umrāo si stabilisce a Kanpur, dove ben presto si sparge la sua fama. Invitata a cantare alla festa di compleanno per il figlio di un nobile (il Navāb Sultān, naturalmente), scopre che la moglie di questi è la ragazzina che era stata rapita insieme a lei tanti anni prima. In seguito, Umrāo viene costretta, con uno stratagemma, a tornare a Lakhnau: Khānam Sāhab ha investito molto in lei ed ha quindi diritto ai frutti. Qualche tempo dopo la città è raggiunta dall'onda della grande rivolta anti-inglese del 1857 e le donne del kothā sono costrette a fuggire. Si fermano per una sosta proprio nei pressi della casa paterna di Umrāo. Qui la donna ha uno straziante incontro con la madre, interrotto brutalmente dal fratello: Amīran è morta e Umrāo Jān torna a casa, al kothā.

 

Insieme con Pākīzā (o Pure Heart, 1971, re. Kamāl Amrohī), Umrāo Jān è – come osserva S. Chakravarty (1996) – il "quintessential courtesan film of the Bombay cinema": uno degli astri più luminosi del kothā movie, il 'genere' che ruota intorno alla figura di una cortigiana. È tratto dal romanzo Umrāo Jān Adā, dello scrittore urdu Mirzā Hādī "Rusvā" (1857-1931), opera che continua a mantenere il suo carattere provocatorio oggi come alla sua pubblicazione nel 1899 o 1905 (la data è controversa). Presentato come autobiografia - raccolta dallo scrittore - di una famosa tavā'if (cortigiana) ormai ritiratasi dall'attività, esso ritrae l'ambiente cortigiano di Lakhnau, ma rivela soprattutto un mondo di valori capovolto rispetto a quello della società 'rispettabile'. Amīran, superato il trauma del rapimento, si adegua presto alla nuova vita all'interno del kothā, che diventa la sua casa, la sua famiglia, il suo mondo ‘normale', con propri codici di comportamento e con una vasta gamma di rapporti interpersonali: una famiglia, diretta con polso ferreo dalla maîtresse Khānam Sāhab. In questo mondo - il "paese delle fate" (paristān), non esita a definirlo Umrāo (Rusvā 1971) - la 'prima volta' delle cortigiane viene celebrata con una grande festa, la missī, quasi un rito che sancisce l'ingresso in società della giovane, al cui nome viene aggiunto il suffisso onorifico Jān: Umrāo assiste piena d'invidia alla missī della compagna Bismillā, nell'ansiosa attesa del proprio turno. In realtà, le tavā'if come Umrāo non avevano solo o principalmente rapporti sessuali con i clienti, né con qualsiasi cliente. Avevano invece relazioni esclusive - o naukrī ("impiego") - con alcuni privilegiati che pattuivano un compenso mensile anche per periodi molto lunghi. Ciò tuttavia non impediva alle cortigiane di intrattenere gli altri semplicemente con la conversazione o con i mujrā, performances artistiche di canto; per queste ultime venivano poi invitate fuori dal kothā in varie occasioni, religiose o sociali, pubbliche o private. È infatti grazie alle cortigiane che si sono preservate alcune forme delle grandi arti di rappresentazione, quali appunto il canto e la danza.

 


Il film ricrea egregiamente il complesso e fascinoso mondo cortigiano del romanzo, al quale è abbastanza fedele nello spirito anche se non certo nella lettera. Il film, in effetti, ruota fondamentalmente intorno a un grande amore romantico e infelice, quello tra Umrāo e il Navāb Sultān, assente nel romanzo: qui il Navāb è un giovane cliente, bello e gentile, di cui Umrāo si invaghisce un po' e per un breve periodo. È un innamoramento un po' vero e un po' falso, come lei stessa afferma. Gauhar Mirzā, factotum del kothā e 'agente' di Umrāo, e Faiz Alī, il bandito altrettanto gentile con cui fugge dal kothā, hanno un ruolo molto più rilevante nella sua vita. Ciò che tuttavia il film evidenzia al pari del romanzo è l'evoluzione di Amīran e la sua trasformazione in Umrāo in seguito alla vicenda - per tanti versi dolorosa e tragica - che la porta al kothā di Khānam Sāhab. Una volta accettato il nuovo e inaspettato destino, appare subito evidente che Umrāo non è condannata all'infelicità. Anzi, la vita al kothā è per molti aspetti ben più interessante rispetto a quella di una semplice moglie, piena di momenti, di stimoli e di hobbies - chiamiamoli così - non fruibili dalle casalinghe, come l'apprendimento delle arti, l'accesso alla cultura in generale, la libera frequentazione di persone diverse, per tacere di altro, compreso il ritorno economico. È proprio questo destino che trasforma Amīran, una ragazzina qualunque, destinata a un tradizionale matrimonio con il cugino, in Umrāo Jān Adā, la poetessa ammirata, onorata e rispettata da intellettuali e artisti, oltre che dai clienti. "Pensa se al mio posto avessero scelto te", osserva la moglie del Navāb Sultān. "A me sarebbe toccata questa kothī (casa signorile) e a te il kothā", conclude Umrāo. Probabilmente, Amīran sarebbe stata felice di essere la fedele sposa di quel bravo marito, le cui passioni tuttavia avrebbero trovato soddisfazione altrove. Ma Umrāo non è più Amīran: la sorte che l'ha resa cortigiana ha anche fatto di lei un individuo, una persona, con una mente e una volontà proprie, che come tale si rapporta al mondo che la circonda. Così si confronta anche con il Navāb Sultān, che trova in lei tutto ciò che può allettare un uomo sensibile, colto e raffinato al par suo: Umrāo lo sfida e lo affascina intellettualmente, mentre lo eccita e lo appaga sul piano erotico; senza che questo richieda responsabilità, noie e imbarazzi domestici e sociali.

 


L'idea di sposarla e di riabilitarla agli occhi del mondo, come fa Salīm con Sāhabjān in Pākīzā, non lo sfiora neppure. La vera lezione che Umrāo trae da questo amore è appunto questa: l'emancipazione raggiunta non le permetterà di oltrepassare i confini del kothā, sia esso quello di Khānam Sāhab o quello ideale che la circonda come un'aura dovunque si sposti. Tuttavia Umrāo, l'individuo-Umrāo, pretende altro: non tanto un matrimonio, quanto un compagno - di sentimenti, di intelletto e di sesso - e un rapporto alla pari, non limitato e protetto da mura compiacenti. Il Navāb Sultān, invece, si ritrae spaventato davanti all'affermazione di individualità, di soggettività, non solo da parte di una cortigiana, ma soprattutto da parte di una donna, cosa ugualmente intollerabile per hindu e musulmani, già poco avvezzi al concetto di 'individuo' anche per parte maschile. Anche nel film, tuttavia, questa acquisizione di soggettività non avviene affatto attraverso l'amore, ma esclusivamente attraverso il mondo del kothā. Anzi, è proprio la soggettività già acquisita che determina le modalità di questo rapporto. Poi, come osserva Chidananda Das Gupta (1991), il regista si arrende al lirismo sentimentale e romantico della cultura del kothā, eliminando tutte le tracce del coraggio unico della Umrāo Jān di M.H. Rusvā. Nella vicenda del romanzo, infatti, l'aspetto melodrammatico non trova posto e l'amore stesso è solo un ferro del mestiere, ardita ed inequivocabile verità che la protagonista confessa apertamente, illustrando le tecniche di seduzione delle cortigiane, perché: "né io ho mai amato alcuno, né alcuno ha mai amato me" (Rusvā 1971). Umrāo non si duole affatto della sua sorte; anzi, rileva l'ipocrisia del mondo 'rispettabile' a fronte dell'atmosfera gioiosa del kothā, su cui veglia l'occhio vigile e severo, ma sinceramente affettuoso di Khānam Sāhab. E pur prestando un lip service all'onestà, augurando ad esempio alle donne velate di conservare per sempre la loro felicità nuziale e il velo che la protegge, non chiede per sé la stessa sorte: "Vivo come una puttana, che dio abbia in serbo per me la morte o la vita, non accadrà che io me ne stia a soffocare dietro un velo" (ibid.), mentre il racconto si chiude con un distico significativo: "Il giorno della morte è vicino forse, o vita, / la mia natura si è ben saziata di te".

Bibliografia
Chakravarty, S., 1996, National Identity in Indian Popular Cinema 1947-1987, Oxford University PressDelhi, p. 287-291.
Das Gupta, C., 1991, The Painted Face. Studies in India's Popular Cinema, Roli Books, New Delhi.
Désoulières, A., 1998, The three lives of Umrao Jan Ada, in Dalmia & Damsteegt (eds.), Narrative Strategies. Essays on South Asian Literature and Film, CNWS, Leiden, pp. 67-89.
Rajadhyaksha, A., - Willemen, P., 1995, Encyclopaedia of Indian Cinema, Oxford University Press-British Film Institute, New Delhi-London, p. 421.
Rusvā, M.H., 1971, Umrāo Jān Adā, Maktaba Jamya Limited, Delhi, edizione critica in urdu a cura di Muhammad Hasan.
Ruswa, M.M.H.,2001, La cortigiana Umrao Jan Ada, L'Harmattan Italia, traduzione dalla lingua urdu, introduzione e note a cura di Daniela Bredi

Cecilia Cossio
liberamente adattato da L'amor profano ovvero la cortigiana nel cinema hindi
in Scarcia, G. (a cura di), 1999, Bipolarità imperfette, Cafoscarina, Venezia, pp.61-97