un film che poggia la sua forza sull'uso di un linguaggio figurato, dove il realismo dell'osservazione sociale e del dettaglio quotidiano si mescola e si contamina continuamente con la dimen-sione del sogno/desiderio dei personaggi.
I tempi migliori di Chang Tso-chi
La vita di una famiglia povera in un sobborgo piovoso di Taipei viene introdotta dalla macchina da presa di Chang Tso-chi con un virtuosistico, ma non banale piano-sequenza che attraversa tutta l'abitazione nei suoi due livelli seguendo i vari personaggi presi dalle loro routinarie occupazioni quotidiane. Al centro della casa c'è un acquario, pozza di luce blu, luce sepolcrale, che si affianca e si sovrappone cromaticamente alle luci rosse, più vive, delle lanterne. L'acquario è una palese metafora di intrappolamento: i bellissimi pesci tropicali non possono sfuggire la loro sorte di prigionieri perenni di uno spazio angusto, proprio come i personaggi della casa non sfuggiranno ai loro destini sociali o individuali già tracciati. Ad esempio, la giovanissima Min è condannata a morire di leucemia, e la vediamo mentre passa il tempo dipingendo e accudendo l'acquario. La cifra della malattia è del resto una costante del film: se Min è leucemica, suo fratello gemello Wei, per empatia, ne condivide nausee, vomiti e capogiri. Il vicino e grande amico di Wei, Jie,ha un fratello maggiore che è un ritardato mentale. Il destino che grava sui personaggi è reso in qualche misura più pesante e ineludibile da questi legami psicofisici e dalle dipendenze affettive che intercorrono tra gli uni e gli altri, e dal continuo ricorso alla preghiera (e alle sbronze) come modo di esorcizzare l'esistente. In questo quadro, la felicità sembra coincidere tutt'al più con la disponibilità ad abituarsi allo squallore che circonda le vite, simboleggiato dal canale che scorre nel quartiere e in qualche modo ne traccia i confini di esclusione e marginalità (come si vede, l'acqua è la metafora centrale del film). L'uso insistito di inquadrature fisse e piani totali, spesso di lancinante bellezza, che ricordano naturalmente il cinema di Hou Hsiao-hsien e Tsai Ming-liang, sembra voler tenere assieme figure umane altrimenti destinate alla polverizzazione, ed anche comunicare il senso di una stentata comunione con un paesaggio indifferente ai loro destini. Il giovane Wei, quando non è a casa,sta in strada a spedire i clienti vogliosi nel locale "allegro" di un gangster; l'amico Jie ha il compito, per conto del padre devoto, di sostituire le lampadine bruciate che illuminano una scritta nel vicolo, «Egli è la via, la verità e la vita», che suona naturalmente piuttosto ironica dato il contesto. Dei due amici, Wei è il più equilibrato, responsabile: una figura quasi paterna, particolarmente commovente quando spinge la carrozzina della sorella inferma; ma di una responsabilità già compromessa, alle prese con il dato di realtà. Molto più immaturo, Jie sfoga la sua ansia di vivere con l'ossessione dei giochi di prestigio, oppure suonando le percussioni in un gruppo musicale del quartiere, ma soprattutto allenandosi al kung-fu nell'imitazione del suo idolo Bruce Lee, che campeggia, ironicamente, in un megaposter appeso nella sua stanza. Quando i due ragazzi, decisi a fare il salto di qualità, vanno dalla mafia locale e si propongono come esattori di debiti (con le buone o con le cattive), la situazione naturalmente è destinata a precipitare in fretta. In possesso di una pistola (con un solo proiettile, peraltro), Jie si esalta e perde il controllo: durante una visita a un debitore, ci scappa il morto, che è un pezzo grosso della mafia. Prima che inizi una caccia spietata e tragica per i vicoli, il bravo Chang Tso-chi inserisce, un po' come farebbe Kitano, un intermezzo lirico: i due ragazzi si rifugiano in un villaggio lungo la costa, dall'ex-fidanzato di Min. Ci stanno per un po', vanno anche a pesca di anguille sulla spiaggia. Ma i pesci che hanno catturato, con palese simbologia, si liberano quando l'acqua del mare si alza di livello. Muore improvvisamente la sorella di Wei, e i due ragazzi tornano a Taipei ad affrontare il loro violento destino. Jie viene ucciso quando ormai pensa di averla fatta franca e sta sorridendo all'amico dal fondo del vicolo (in una sequenza in cui la profondità di campo della fotografia "schiaccia" i due amici, tenendoli assieme anche quando sono lontani fisicamente, ai lati opposti del vicolo). Wei sopravvive, ma il destino ha in serbo una seconda possibilità: inaspettatamente, con uno svolazzo onirico, mentre Wei sta passeggiando, la scena dell'agguato e dell'uccisione si ripete, ma questa volta l'esito (sognato?) può essere diverso per i due amici. Wei questa volta può intervenire a sottrarre Jie dalle grinfie della gang, in un contesto narrativo che abbandona decisamente il realismo ed evoca piuttosto una dimensione magica, tra templi buddisti e ma-scheroni agli angoli delle strade, prima mai inquadrati dalla macchina da presa. I due amici, però, finiscono di nuovo in trappola, in una dead end, circondati dai nemici. L'unica via di fuga è l'acqua, non più prigione ma liberazione: Wei e Jie si tuffano in un torrentello che si trasforma pian piano in un acquario tropicale, il "doppio" liberatorio di quello presente nella casa. Nuotando sott'acqua e respirando come pesci, come nel capolavoro di Jean Vigo, i due ragazzi danno vita a una sorta di balletto subacqueo, un duello di kung-fu al rallentatore, di sovrana bellezza e armonia, sottolineato (come nei film di Wong Kar-wai) da una melodia sudamericana. Un finale elettrizzante, una via di fuga onirica, che chiude in modo del tutto coerente un film che poggia la sua forza sull'uso di un linguaggio figurato, dove il realismo dell'osservazione sociale e del dettaglio quotidiano si mescola e si contamina continuamente con la dimensione del sogno/desiderio dei personaggi. Fantasia e realtà,vita interiore e docu-drama, tenuti assieme dal rigore e dall'abilità con cui le varie inquadrature sono organizzate, permettono che si proceda parecchio in direzione del cinema simbolico e metaforico (l'acqua, i pesci, il nuoto) senza che si perdano tensione ed equilibrio narrativo. |
Alberto Morsiani