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Il tempo e lo sguardo: conversazione con Aoyama Shinji

Giappone

Aoyama si è occupato di cinema dapprima dal punto di vista critico e, solo successivamente, in prima persona come regista. L'aspetto ermeneutico dei codici visivi e narrativi è quello di maggior peso nella sua filmografia, come mostra emblematicamente Desert Moon.

Desert Moon è un'opera che solidifica il cinema di Aoyama Shinji, lo raccoglie in una forma compatta, tetragona a qualsiasi residua indefinitezza che il suo sguardo - ritrovatosi di film in film sempre più organico - potesse contemplare. Non è ampio e intenso come il precedente Eureka, ma ha l'alta qualità di contenere nella sua strutturazione il disordine quietamente dilagante nel cinema di questo autore. L'intreccio della storia - un imprenditore, sull'orlo del fallimento professionale e umano, assolda uno gigolò per seguire la moglie e la figlioletta, da cui ormai da tempo vive lontano - descrive l'arco di un'opera che sembra quasi voler materializzare, nella sostanza di uno spazio astratto, il perpetuo incedere in cerca di concretezza esistenziale, che da sempre caratterizza i personaggi di Aoyama. Fra gli esordienti giapponesi degli anni '90, Aoyama Shinji è, del resto, uno di quelli che maggiormente hanno voluto e saputo tracciare un percorso teorico per il loro cinema. Film dopo film, egli ha operato un continuo raffinamento dello sguardo, organizzando sempre più le sue idee attorno a un nucleo tematico/visivo, che si è offerto come riflessione, al contempo ampia e intimista, sui percorsi di ricerca dell'umanità nel territorio desolato (sino alla scarnificazione) di un Giappone terminale. I suoi film reccontano fughe minimali di figure slittanti sugli sfondi e sulle storie che impropriamente si trovano ad attraversare, colti in flagranza nella necessità di un incontro con parentali solitudini, articolate su rapporti di reciproca dipendenza e arbitraria libertà. 
 

 

 

In questo senso, il sempre più chiaro attingere di questo regista con trascorsi da critico a una ideale classicità del cinema (non solo giapponese, ma anche europeo e americano), rappresenta un termine di raffronto con la forza basilare di uno sguardo, che trova, nei suoi codici visivi e narrativi, la forma di una ragione in grado di organizzare gli spazi e le figure e di determinare la giusta distanza rispetto agli universi mostrati. Se tutto il cinema di Aoyama è attraversato da una immateriale tensione verso quell'ordine rimosso dall'umano scenario, Desert Moon rappresenta un punto d'arrivo fondamentale nella sua filmografia, l'opera (come racconta bene l'intervista che segue) che più di altre riesce ad organizzare i tempi, gli spazi, le figure - i loro moventi e movimenti - secondo un rigore teorico e una lucidità espressiva che, se ne rappresenta un po' il limite, ne incarna indiscutibilmente la più autentica ragione.

Desert Moon parte dall'idea che sia la famiglia sia la società hanno tradito le speranze e i desideri dell'umanità. Questo riguarda solo il Giappone?
Si tratta di un problema grave, che interessa in generale la società capitalistica e non solo il Giappone, anche se nel film tutto appare molto semplificato. L'economia della società capitalistica giapponese ha raggiunto il suo culmine tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta. Poi tutto è crollato secondo dinamiche del tutto simili ad altri paesi, che hanno vissuto un crollo economico dopo un periodo di estremo benessere. Il mio obiettivo era proprio quello di rappresentare la società dopo che si è verificata la crisi.

 

 

L'idea che sorregge il film è quella del ritorno a casa, soprattutto nel suo significato spirituale e filosofico.
Innanzitutto, bisogna fare chiarezza su quello che si intende per casa. Nella lingua inglese ci sono due parole differenti, una per indicare la casa in senso generale, l'altra per indicare la casa come propria abitazione. In Desert Moon volevo mettere in scena quest'ultima. L'ispirazione mi è venuta da una canzone di Bob Dylan, da un verso che dice pressappoco "this is not a house, this is home". In Giappone, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la gente voleva comprarsi una casa; ma per farlo aveva bisogno di soldi e quindi doveva guadagnare di più. Così ha perso di vista il vero significato di una casa, che deve essere vista come un rifugio per sé e la propria famiglia. È un problema nato nel dopoguerra, ma che si è protratto fino ai giorni nostri. Credo che gli incidenti, i fatti più gravi avvenuti nella società giapponese degli ultimi cinquant'anni siano legati alla perdita di questo concetto di casa e del rapporto intimo e spirituale con essa. La gente continua a diventare sempre più ricca, ma a scapito dei valori della famiglia.

In questo senso, va detto che in Desert Moon c'è una tendenza opposta rispetto a Eureka, dove era messa in primo piano la fuga dalla casa, l'allontanamento dal nucleo famigliare.
Il tema dei miei film è sempre la famiglia. Il concetto di famiglia, però, non può essere ridotto a un unico elemento. Bisogna tenere presenti stili e aspetti diversi: perciò è necessario prendere in considerazione differenti punti di vista. In Eureka mi interessava rappresentare delle persone che formano un nuovo gruppo, un nuovo tipo di famiglia. Volevo descrivere la situazione dall'esterno, prendendo le distanze dalle cose di cui parlavo. In Desert Moon, invece, ho voluto rappresentare la famiglia dall'interno, entrare nelle relazioni che si instaurano tra i suoi vari componenti.

In questo film, come nei precedenti, ci sembra molto forte la ricerca degli spazi aperti e della vita in campagna. Una tendenza che del resto accomuna molti film giapponesi contemporanei. Perché?
In alcuni casi la gente va a vivere in campagna sperando di trovare una soluzione a problemi personali. Io non sono d'accordo, perché credo che una tale scelta non risolva niente. Ma per tornare al mio film, devo dire che ho voluto entrare nel merito dei rapporti tra marito e moglie, tra padre e figlia e tra madre e figlia; e che questi sono semplicemente messi in evidenza nel passaggio dalla città alla campagna. Certo, un tale cambiamento non risolve niente, ma, nel film, in questo modo sono riuscito a mettere i personaggi di fronte alla necessità di risolvere i problemi della loro relazione. Anche in Eureka il protagonista maschile va in campagna, ma questo non lo aiuta: semplicemente non ha un posto dove andare e quindi diventa il simbolo di uno sconfitto. Alla fine del film tutti sono costretti a tornare da dove sono venuti.

Nei suoi ultimi film, da Shady Grove a Eureka, a Desert Moon, abbiamo colto un costante e dichiarato riferimento al cinema classico americano.
Nel cinema classico trovo sempre una notevole ispirazione. Mi interessa capire a che cosa hanno portato i progressi che hanno avuto origine in quei film e come sono stati assimilati dal cinema moderno. In questo senso mi ispiro ai film classici. Voglio analizzare questi aspetti nella loro valenza storica e nella loro evoluzione attraverso il tempo.

Nel caso di Desert Moon ci è sembrato di cogliere delle analogie con Rapporto confidenziale di Orson Welles...
Fra i film di Welles, Rapporto confidenziale non mi ha particolarmente colpito. Tuttavia devo dire che per montare il film ho lavorato in uno studio dove stavano ristampando molti classici americani, tra cui, appunto, Rapporto confidenziale. È dunque possibile che questo film mi abbia indirettamente influenzato.

Quale influenza ha avuto, invece, nelle scelte stilistiche di Desert Moon, la lezione di Ozu e Mizoguchi, soprattutto nella composizione dell'inquadratura?
È stata un'ispirazione importante, soprattutto nella seconda parte del film, quella ambientata nella vecchia casa di campagna. Mi sono reso conto che la maniera di inquadrare derivata da Ozu e Mizoguchi era la migliore per filmare quegli ambienti.

In realtà, ci sembra che nell'evoluzione del suo cinema, da Chinpira a Desert Moon, si possa cogliere una evoluzione del suo sguardo, che si è fatto più classico e più complesso.
Fino ad ora ho fatto dei film con uno stile semplice, utilizzando molti piani sequenza da montare insieme, l'uno dopo l'altro. In Desert Moon ho invece spezzato il tempo, suddividendolo in molte inquadrature. È lo scorrere del tempo a costituire il film: frammentandolo ci si può avvicinare di più ai personaggi, ma in questo modo è necessario anche variare la distanza dello sguardo.

Nei film precedenti, la sua maniera di inquadrare lo spazio era più attonita, mentre in Desert Moon abbiamo avuto la sensazione di uno spazio più raccolto, più chiuso.
Quando faccio i miei film, che durano dalle due ore alle tre ore e mezza, voglio che lo spettatore li veda dall'inizio alla fine, come fosse un'esperienza totale. Cerco di fare delle cose fortemente provocatorie, per metterlo di fronte a un'esperienza del tutto nuova. Tuttavia non voglio che egli entri troppo profondamente nello sguardo: preferisco che si mantenga a una certa distanza. In Eureka le azioni dei personaggi erano riprese da lontano, mentre in Desert Moon mi sono avvicinato, pur non entrando nel loro punto di vista. Per lo spettatore si tratta di un coinvolgimento diverso dal solito, un qualcosa che gli permette di pensare alle relazioni tra i protagonisti.

Ci piace il modo in cui riesce ad alternare video e pellicola, legando in particolare l'immagine video all'aspetto interiore dei personaggi.
In Desert Moon il protagonista guarda la moglie e la figlia sempre attraverso l'obiettivo della videocamera. In un certo qual modo le vede indirettamente, perché tutto ciò che vede passa attraverso qualcos'altro. Non ha un rapporto diretto con la sua famiglia, tento che chiede a un suo dipendente di seguire la moglie e la figlia. Il video simboleggia la distanza che mantiene rispetto agli altri. Lui vive nel mondo della realtà virtuale e non cerca di avere contatti fisici. Non sente le cose nella loro fisicità. Quando ho scritto il film mi sono posto un interrogativo, che è poi diventato un motivo dominante: mi sono chiesto come fa la gente a vivere esperienze dirette.

Perché all'inizio del film ha messo una canzone dei Beach Boys?
È una canzone che parla di una ex fidanzata. Il protagonista si lamenta del radicale cambiamento della ragazza dall'ultima volta che l'ha vista. È una canzone d'amore, ma di un amore perduto dopo un cambiamento. Rispetto al film simboleggia i sentimenti e le emozioni che il protagonista prova nei confronti della moglie, della figlia e del mondo in cui vive. Ma, naturalmente ho usato questa canzone anche perché mi piace molto.

a cura di Massimo Causo e Grazia Paganelli