Film ritenuto da molti come evoluzione necessaria nella carriera del regista, all’apice della “produzione politica”, segno della vittoria del privato sul pubblico. Un forte segnno del rapporto tra eros e crimine che ha costituito le fondamenta di gran parte dell’opera dell’autore.
Di Maria Roberta Novielli[1]
Ai no koriida (questo il titolo giapponese del famoso film del regista del 1976) costituisce in un certo senso il cardine dell’evoluzione cinematografica di Oshima. Si colloca infatti all’apice della produzione politica che da Notte e nebbia del Giappone (Nihon no yoru to kiri, 1960) a Sulle canzoni sconce giapponesi (Nihon shunka ko, 1967), fino a Storia segreta del dopoguerra dopo la guerra di Tokyo (Tokyo senso sengo hiwa, 1970), gli ha permesso di denunciare il proprio paese attraverso i suoi fallimenti. In tal senso la storia di una coppia, vissuta in una stanza, ne è quasi l’epigrafe, una conseguenza limite ma necessaria, come vittoria del privato sul pubblico.
Il film è d’altra parte l’esaltazione di un ideale perseguito da Oshima nei suoi film, dettato da un costante rapporto tra eros e crimine, motivo dominante in Il demone in pieno giorno (Hakuchu no torima, 1966) come in quasi tutti i film fino a La cerimonia (Gishiki, 1970), per poi soggettivizzarsi definitivamente nelle figure dei due protagonisti Sada e Kichi.
Il film stempera inoltre il necessario rapporto tra gli “oggetti” della civiltà in un universo gestuale “altro”, capace di tradurre le pulsioni più intime più di quanto la parola, strumento politico, possa fare. Con ciò prelude alla ricerca estetica, già sondata in Gishiki, dei film successivi. L’Eros in quanto tale viene divinizzato in varie dimensioni iconografiche, si presta al rapporto con la morte nell’evanescenza del linguaggio teatrale e pittorico, per poi definire un suo spazio ed elevarlo rispetto alla società. In questo senso è un atto criminale a cui Sada e Kichi si concedono totalmente, accettando in modo naturale il destino che il sociale riserva, cioè l’esaurimento dell’atto.
Imprevisto il successo ottenuto nonostante il delicato equilibrio sociale che vigeva all’uscita del film, nel 1976, e soprattutto la fama acquisita internazionalmente.
Ai no koriida è costituito da una fitta rete di norme e codici simbolici difficilmente identificabili in Occidente. Ciò che rappresenta una cruces per gli esegeti di Oshima è soprattutto il rapporto Eros-Thanatos tracciato nel film; la tentazione di risolvere questa scalata erotica in direzione della morte in termini batailliani o sadiani deriva anche dalla critica mossa a Oshima di essere uno xenofilo, quasi che il film rappresenti una conversione o debito del regista nei confronti della cultura occidentale[2]. E’ proprio a partire da questo presupposto che si dimostra, invece, come Oshima abbia dichiarato una volta di più (una volta per tutte) la sua estraneità all’Occidente. Nel caso di Ai no koriida, infatti, il rapporto Eros-Thanatos va riconcepito e scartato dalla koiné europea, ricondotto piuttosto a una più generale “teoria del desiderio” che è esclusivamente nipponica. Essa è stata così messa a fuoco dallo stesso Oshima: “All’inizio credevo di essere qualcuno che si prefiggeva di distruggere tutte le forme estetiche e tuttavia, un film dopo l’altro, scopro un’estetica mia propria (…). Se dovessi spiegare questo, direi che c’è scambio tra una forma d’ascesi e un sentimento ineffabilmente epicureo. E se dovessi riassumermi in un’inquadratura, si vedrebbe una fiamma su fondo nero e scurissimo. Così L’impero dei sensi manifesta deliberatamente il limite cui mi conduce questa estetica.”[3]
La morte in Occidente rappresenta il limite, tragico perché inevitabile, della vita stessa. Oltre questo limite c’è il nulla (o l’espiazione), quindi la perdita, e ciò rende ancora più irrimediabile e suprema la mise à mort dell’individuo. E’ una condizione cristiana, e in quanto tale prevede una costante rivalutazione del Sé in funzione della propria redenzione/salvezza, rivalutazione, in pratica, della ragione. Rifiutando la ragione nascono i personaggi batailliani: laddove, infatti, la ragione istituisce un ordine di vita, economicamente inteso, la voluttà è per Bataille così simile a uno “spreco rovinoso” che “chiamiamo piccola morte il momento del suo parossismo”[4]. Ciò non dovrebbe rappresentare un’equazione scontata: definire l’erotismo come sacro, per Bataille non significa parlare di erotismo in senso cristiano. Una lettura di Ai no koriida in termini batailliani è possibile solo qualora si scarti il condizionamento ossessivo del concetto di Eros come trasgressione nei confronti del Cristianesimo, errore in cui lo stesso Oshima è caduto[5].
La teoria del desiderio lyotardiana si rivela un valido strumento di lettura di Ai no koriida: nega l’idea che il movimento descritto dalla libido sul corpo organico parta da un Eros regolatore e inteso come principio attivo, e si stemperi nella pulsione di morte che agisce come “decostruttrice” del sistema. Si tratta di una machinerie pulsionale in cui i due protagonisti, Sada e Kichi, si fondono: Sada, in particolare, agisce sulla-nella storia riconcependo il suo amante per gradi, fa in modo che egli si liberi dal corpo e di qualsiasi sua possibile mercificazione, così da poterlo assorbire, cristallizzando in eterno quel loro orgasmo-morte continuamente minato dall’esterno. Perciò la morte di Kichi non va intesa come atto finale del loro rapporto: al contrario, lo strangolamento, e ancor più la castrazione, suggellano la loro unione e la denunciano al mondo.
Prima di incontrare Kichi, Sada ha vissuto una latenza sessuale, quasi un letargo. Le mani della sua collega che all’inizio del film si insinuano nel suo corpo non riescono a sottrarla all’attesa, né il veccio barbone masturbato nel cortile riuscirà ad avere un senso. Ma entrambi sottolineano il corpo di Sada come tessuto di segni libidinali da cui l’erotismo non ha saputo ancora elevarsi nella sua sacralità. E del resto anche i primi incontri con Kichi conservano la stessa connotazione: lui gioca a farle da cliente porgendo a tratti la sua virilità in modo quasi canzonatorio. Questa “merce” sarà sempre più rifiutata e sempre più limitata a un valore “economico”: le visite di Sada al suo anziano cliente Omiya ne sono l’esempio più evidente, come anche l’ironica offerta di sesso al locandiere in cambio di roba da bere.
In compenso si accentuerà sempre più la violenza del loro rapporto: già l’istante del loro primo incontro ne è impregnato,e viene ribadita ritmicamente tra coltelli e minacce, sfidata dall’accondiscendenza di Kichi e filtrata dallo sguardo di Sada.
La fusione di Kichi in Sada si attua, come dicevo, in smitizzazioni graduali. Il primo di questi istanti è sicuramente quello in cui Kichi assaggia il sangue mestruale[6]. E’ il primo sguardo all’utero in cui gradualmente si immergerà, seguito dal banchetto di cibo intinto nella vagina, preludio dell’uovo inserito per scrutare — e perciò definito come metafora dell’occhio[7] —, che anticipa la visione di Kichi (amplificata dal suo avvicinarsi alla morte con lo strangolamento) di una marea di sangue, di un calore primitivo in cui si è sentito sprofondare, e che lo ha quasi fuso in Sada.
Altro elemento è l’enfasi posta sulla nudità di Sada, distillata secondo il ritmo proprio di un cerimoniale, e che per questo precede il finto matrimonio. Ripropone la metafora feticista, un corpo-immagine svelato che introduce a un erotismo differente, in cui intervengono gesti e ombre che permettono a Sada di riemergere come idolo. Un idolo dissacratore, s’intende, che organizza i suoi rituali concentricamente intorno a sé, affermando il proprio potere sulla disgregazione di altri idoli-feticcio. Il finto matrimonio tra Sada e Kichi, unica vera cerimonia del film, viene celebrato tra geisha —maschere, volti uguali e impersonali sotto la rigidità del cerone bianco. Si simula la perdita di verginità, esorcizzando con l’innaturalità di questo rito la possibilità di un condizionamento morale nella loro relazione. Per contrasto, avviene la violazione di una delle geisha, Kosome, la cui verginità viene dissacrata in un rapporto plurimo e omosessuale, senza dolore, ma esposto solo al piacere e praticato con un giocattolo (l’uccello di legno). Si rivendica così, ancora una volta, il diritto al piacere.
Con il matrimonio Sada si è impossessata del tutto del pene di Kichi, e d’ora in poi lo brandirà come suo. Anche lui dice: “mi chiedo davvero se mi appartiene ancora”. Sada gli chiederà in seguito di lasciare che sia lei a gestire l’amplesso, minaccia più volte di evirarlo per evitare che faccia l’amore senza il suo consenso.
Con il corpo di lei diventato ormai “altro”, androgino e perciò altamente simbolico, si definisce la fusione tra i due annunciando la castrazione finale. Sada invoca spesso la “sua” virilità ordinandogli di possedere prima la ragazza per strada, poi una geisha che li ha definiti “disgustosi”. Sarà Sada a decidere che Kichi penetri la vecchia geisha, assistendo sovrana, da una parte, alla consumazione di questa sorta di incesto. Il simbolismo della vecchia è flagrante, riassume la tensione Eros-Thanatos dell’intero film, concludendo, al contempo, il ciclo di smitizzazioni, prima della corrida finale. La vecchia, madre dissacrata, è agli antipodi rispetto al vecchio barbone dell’inizio: duplice rapporto incestuoso, dunque, praticato nella sozzura (dell’impotenza del vecchio prima, della pseudo-morte della vecchia adesso). Il vecchio emerge dai rifiuti e ne è intriso, la vecchia si putrefà nel suo aspetto a contatto con Kichi quando dalla nera parrucca sconvolta dall’amplesso escono impietosi i suoi capelli bianchi e la maschera bianca del suo volto si sfalda, finché l’intero corpo cede.
Da un lato, dunque, il rifiuto di Sada per l’immagine paterna (i quasi sarcastici buffetti sotto lo scroto), dall’altro quello di Kichi per l’immagine materna (quando asserisce di avere l’impressione di stringere il cadavere di sua madre), ombre di morte proprie della vecchiaia, costanti nel film e contrapposte ai bambini, simbolo di vita. Lo stesso Oshima ha dichiarato di aver intenzionalmente tracciato il senso di morte nel film attraverso queste immagini: così anche il preside Omiya, cliente di Sada, e il vecchio danzatore nella scena dell’orgia servono a far vibrare questa sensazione; i bambini che urlano, che si prendono gioco del vecchio barbone, quelli che assistono alla parata militare, rappresentano tutti vita e movimento, energia di cui Sada vuole appropriarsi (stringendo il pene al bambino prima, e decidendo per la bambina nella sua allucinazione finale).
Per la coppia l’eros non può declinare: come un “fiore di ciliegio” [8], deve morire prima di sfiorire, essere legato alla perfezione della giovinezza. L’idea che il culto della gioventù sia legato alla morte, richiama contraddittoriamente l’immagine di Mishima[9] e dei kamikaze. Ma di fatto Kichi deve morire prima che il corpo, l’oggetto, decada (“mi renderai scheletro”, le dice), affrontare cioè la morte all’apice dell’Eros. E’ per questo che lui stesso chiede a Sada di non fermarsi e di finirlo, stremato e sospeso tra veglia e sonno.
Nella fase di sonno-liquido-nascita-morte, dunque, Sada infligge il suo ultimo colpo. Segue un’allucinazione: lei è finalmente nel sole, stesa supina sulla panca dell’enorme stadio, a sua volta in una dimensione onirica. L’immagine di Kichi che corre intorno svanisce: Lui è già morto, Sada ha optato per la bambina, per la vita. Soluzione strana data la pratica dello shinju (il doppio suicidio degli amanti), ma Oshima dice: (…) per me ella può sopravvivere per la ricerca di un nuovo piacere.”[10] Di fatto, però, Sada si solleva sulla panca e, sgomenta, invoca Kichi che si è dissolto nel nulla. Il suo corpo seminudo disperso nella linearità delle panche intorno a lei evoca un’idea di solitudine, l’eco della sua invocazione sembra voler rincorrere Lochi sin dentro la sua morte. Per questo deve compiere l’ultima mossa in questo “gioco delle parti”, attuare una presa di possesso definitiva della sessualità che l’ha legata a Kichi, e quindi lo evirerà.
Ma Oshima ha fornito anche un’altra verisone di questa allucinazione finale, non tradotta in immagini, che in realtà riassume in un’enorme smorfia questa dilatazione. Nel testo pubblicato in Giappone dopo l’uscita del film[11], l’autore così descrive la terzultima e allucinatoria scena:
“SOGNO DI SADA
Sada sta facendo l’amore con Kichi e contemporaneamente sta osservando questa scena. Improvvisamente è Toku {moglie di Kichi, n.d.t.} che fa l’amore con lui. Sada, sconvolta, si butta sull’uomo, cerca di dividerli ma non ci riesce.
Anche dietro di Sada compare Kichi e comincia a fare l’amore con lei. Sada grida di piacere.
Davanti a lei c’è un corpo di donna. Sul suo pube spunta un pene, e Sada penetra l’odiata Toku. Il volto si trasforma poi in quello di Kichizo. Tanti peni penetrano Kichi, e anche Sada ne è penetrata.
Il grosso pene di Kichizo penetra nella bocca di Sada. Lei istintivamente lo strappa via. Questa volta per lei è come se le fosse stato strappato via il proprio pene. Sgorga sangue sia dalla bocca, sia dal pube da cui le è stato strappato il pene.”
Quindi, qui Sada si è definitivamente trasformata in lui. Quando il sangue sgorga dalla sua bocca e dal pube contemporaneamente, si ridefinisce il percorso libidinale descritto sul corpo nell’intero film. La scena che si apre dopo le due allucinazioni, quella messa in scena nel film, e quella descritta nel libro, indicano la sospensione parossistica di ogni sensazione, corpi immobili e sparpagliati, svuotati della tensione che li ha inarcati fino a quel punto. Il pene reciso indica la fine della sola fase carnale. L’immagine di Kichi inseguito dalla bambina non ha nulla della morte come mancanza, quanto una vera e propria liberazione, un volo in direzione di un cielo da cui Sada per un attimo si sente esclusa.
Ai no koriida è stato spesso tacciato di apoliticità, un segno di una sorta di disimpegno da parte del suo autore, poiché per la prima volta ha cconcluso un film su uno scorcio di privato. Ci si è riferiti alla delusione politica del regista: il suo modo di adottare l’Eros come strumento per sondare la realtà e tradurla in pulsioni (politiche, sociali), si sarebbe così ridotto a un dialogo, chiuso e ideologicamente nichilista, tra due corpi inseriti solo in senso cronologico nella società.
In realtà bisogna valutare il film partendo da un presupposto del tutto antitetico: seppellire una storia nel privato, fare dell’”apoliticità” un rifiuto della contemporaneità storica, è probabilmente la posizione più estrema che Oshima avrebbe potuto sostenere. Indica il suo dissenso rispetto alle attuali forme costituite, lette in parallelo alla situazione del ’36 (entrambe assurte a simbolo di un fascismo strisciante da cui il regista intende sottrarsi[12]); attesta che il sociale come forza attiva si è disgregato, che il Giappone ha fallito nelle sue velleità e ora non può che rassegnarsi a un “privato che lo stritoli”. Al posto dei collettivi, delle manifestazioni e delle trasformazioni sociali, si afferma dunque la sovranità di una coppia che nega (affermandone di conseguenza l’esistenza) l’impegno politico, si rifiuta di porsi a disposizione della dittatura del gruppo, si isola e approda a un’anarchia di codici e di sentimenti. Naturalmente è un sistema destinato a perire perché deviato, dato che ripropone il desiderio come principio vitale nelle sue componenti di sesso e violenza, trasgredendo così quella façade sociale (tatemae) con una “intenzione reale” (honne) prepotente.
E’ indicativo che Pasolini, negli stessi anni e come Oshima, ha ricostruito il desiderio organizzandolo in una struttura architettonicamente angusta in Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975): il suo castello propone e denuncia lo stesso rapporto tra pubblico e privato edificato per Ai no koriida nelle varie stanze dell’albergo (pubblico) – casa (privato). E’ inoltre una struttura esaminata dal suo interno, corpo ermetico concluso e impenetrabile, dove si vanifica la nozione di tempo e di spazio.
Sada e Kichi possono così sottrarsi al condizionamento dell’offerta e costituire un sistema economicamente concluso, essere “liberi di scegliere la morte”, negare anche l’affermarsi di un ordine proto-fascista. Ciò significa, inoltre, che non sono più soli rispetto alla guerra e all’idea di morte che questa sottende.
La guerra è l’elemento esterno posto a contrastare il loro amour fou, il cui esaurimento è simultaneo e allo stesso tempo indipendente dalla storia a cui i due appartengono. La loro scelta si presta come simbolo della reazione dell’individuo rispetto a grandi movimenti, come quelli che hanno portato al niniroku jiken (incidente del 26 febbraio) o alla “guerra di Tokyo”.
Come negli altri suoi film, Oshima ricorre alla reciprocità di crimine e sesso, rispettivamente trasgressione del sociale e fuga nel privato. Così Sada e Kichi riassumono una serie di dissensi solo sotterranei al tempo, primo fra tutti il fatto che a livello popolare il grande mutamento non era ancora avvertito. Gli amanti che si “liberano” nella loro passione non accettano più alcuna forma di oppressione, nonostante conviva nella loro dimensione l’eccezionalità di una guerra. Il regista sceglie di scandirla di continuo nel film, offrendone l’esatta e cruenta dimensione.
L’elemento più ricorrente è lo hinomaru, la bandiera giapponese, brandita grottescamente dai bambini (quando deridono il vecchio, o nel pubblico che assiste alla parata militare), a indicarne la violenza fanatica. E’ hinomaru anche la fantastica immagine del corpo di Sada nello stadio dopo la morte di Kichi (vittoria dell’ordine sociale sul ‘potere’ della coppia, in un certo senso). Ma Sada e Kichi ignorano del tutto ciò che la società ha edificato: Kichi incrocia la parata ma non vi presta attenzione, cammina tra la gente senza appartenervi. Sada, a sua volta, discute con l’anziano cliente mentre alle sue spalle “esplode” la festa del bambino (altro segno esaltato dal regime), senza lasciarsi sfiorare da ciò che le accade intorno.
La loro corrida è talmente autonoma rispetto alla cronaca, che la voce di Oshima alla fine del film, spiegando che si è trattato di una storia vera, risveglia in qualche modo dalla dimensione onirica lo spettatore. E lo stesso effetto deve aver suscitato la notizia all’epoca: i giornali hanno parlato di Sada non come di una squilibrata, ma con lo stesso ardore riservato ai miti giapponesi capaci di una prepotenza sentimentale. Si legga per esempio l’intestazione dedicata alla notizia dallo Yomiuri Shinbun (noto quotidiano giapponese) del 19 maggio 1936:
“Omicidio grottesco alla fine di una lunga attesa – Voluttuosa tragedia al mattino del settimo giorno – Affascinante donna uccide uomo quarantenne e gli amputa i genitali – Misterioso documento scritto con il sangue tra le gambe e le lenzuola: ‘Sada e kichi’, noi due soltanto.”
Affascinante, non squilibrata o pericolosa, con un potere carismatico in grado di esercitare una fascinazione sul popolo, ancora più particolare quando si tenga conto della contemporanea esaltazione politica. Lo dimostra la lievità della pena a cui è stata sottoposta, la popolarità acquisita, al punto di diventare musa di poesie, opere teatrali, canzoni e film.
Oshima ha dunque affondato la lama nella sfera più intima del suo popolo. Sesso e crimine, intersecandosi, non fanno che tradurre una pulsione che per secoli morale confuciana ed esaltazione collettivistica hanno cercato invano di gestire. In tal senso, è evidente la violenza dell’immagine, poiché presenta materializzata, quindi rivelata, una nudità. Da qui l’accusa di oscenità mossa a Oshima alla pubblicazione del libro in Giappone, da cui si è sottratto sostenendo: “La parola ‘oscenità’ è soprattutto un termine giuridico. (…) L’oscenità non risiede in ciò che non è rappresentato, in ciò che non si può vedere, in ciò che è celato? Essa risiede nel cuore dell’uomo che reagisce a queste dissimulazioni.”[13]
In Ai no koriida la coppia è evidentemente un axis mundi posto al centro di un ideale proscenio; la sua astrazione dal contesto storico-sociale prevede che la storia avvenga in una sorta di scatola magica, di cui il linguaggio teatrale costituisce un fermo supporto.
Del kabuki, Oshima ha in qualche modo trasferito i codici scenici, affiancandovi una rigorosa unità narrativa che sorregge il caratterre “tragico” dell’opera. Il film si sviluppa lungo un percorso gestaltico: ogni scena è lunga, statica e conclusa nell’unità del film; si articola come in una danza di kabuki attraverso una serie di sospensioni e di reiterazioni (dello stesso coito, per esempio), a cristallizzare i momenti anti-climax. Come per il teatro di burattini bunraku, non si tratta di imitazione, ma di stilizzazione: è la posa a conferire il senso più che il movimento. La sospensione anticipa e amplifica allo stesso tempo le sensazioni. Da questa dilatazione della realtà si recupera la fragilità dello scorrere del tempo: la tragedia è stemperata prima della scena finale, e il sangue alla fine è solo un’estensione della coppia, intendendone la fatalità del futuro[14].
In Ai no koriida, a differenza dell’impianto teatrale di stampo occidentale, la parola ha una funzione sussidiaria; il linguaggio è facilmente intelleggibile, perché ciò che conta è una “scrittura geroglifica” (alla Artaud, quindi) che si avvale di elementi visuali, pittorici, plastici e verbali al contempo.
Il dècor indica l’alta attenzione prestata alla dimensione pittorica, sottolineata dalla musica che diventa parola e da una fitta rete di sguardi che pongono la coppia in posizione sempre centrale rispetto alla rappresentazione. Infatti, oltre all’assenza di fuori campo, la scena tende a rinchiudersi man mano che i personaggi vi si allontanano, ma il la rappresentazione si fonda sulla rete euritmica di sguardi che segnano la distanza tra spettatore-teatro e teatro-Sada/Kichi.
Una complessa serie euritmica di sguardi segna una precisa distanza tra spettatore e proscenio. Una distanza che si dispone a più livelli, interagenti e autonomi allo stesso tempo, come già suggerito da Stephen Heath in un saggio del 1978[15]: all’inizio Sada, distesa sul futon, jha gli occhi aperti e lo sguardo disperso nello spazio al confine con la m.d.p.-occhio dello spettatore. Alla fine, vicino al cadavere di Kichi, lo sguardo di Sada si è definitivamente sottratto da quello dello spettatore. Il testo trascritto tra questi due istanti è ordinato secondo una serie di sguardi che, a loro volta, definiscono lo spazio sessuale del film:
— sguardo di Matsuko su Sada per definire il suo desiderio: Sada vi si sottrae dirigendo il proprio sguardo al limite dell’immagine;
— Sada spia attraverso una fessura del fusuma: Kichi e la moglie Toku fanno l’amore, la m.d.p. si sostituisce agli occhi di Sada, e torna quindi su Sada che osserva la scena;
— il barbone è attratto dallo sguardo di Sada ed è questo che risveglia in lui il desiderio;
— sguardo di Toku verso la stanza in cui Sada e Kichi stanno facendo l’amore. Trasposizione ellittica: a Toku si sostituisce la m.d.p. e lo spettatore accede all’interno della stanza;
— sguardo di Sada e Kichi davanti allo specchio mentre lui viene raso dalla moglie; Kichi, a sua volta, l’osserva. Lo specchio e Toku interferiscono come spettatori, e il loro voyeurismo esorcizza quello dello spettatore. Nella scena successiva lo sguardo oblitera l’allucinazione rendendola conseguenziale: Sada osserva il rasoio e recide la nuca a Toku, PPP su Sada e l’allucinazione si dissolve;
— le cameriere li osservano mentre fanno l’amore, ma Sada e Kichi non se ne curano;
— matrimonio: tutte le geisha guardano e questo è motivo di eccitazione, è una sensazione contagiata attraverso gli sguardi e si abbatte sulla più giovane, costretta a osservare;
— una vecchia in giardino li osserva mentre fanno l’amore; Sada sottolinea la sua presenza e quindi ammette la presenza di uno spettatore;
— una geisha osserva Kichi che mangia del cibo intinto negli umori di Sada, poi la m.d.p. si sostituisce al suo sguardo ed è a sua volta rimpiazzata dall’uovo che scruta nell’utero;
— lo spazio della fiction è ormai notevolmente ridotto alla coppia. I terzi hanno disertato quasi tutti la scena. Accanto alla coppia resta uno specchio;
— la vecchia geisha osserva Sada mentre esegue una fellatio e subito dopo è Sada a osservarla mentre fa l’amore con Kichi. PPP sulle labbra di Sada: il desiderio vi si è trasferito dagli occhi, esaltato;
— dopo lo strangolamento Kichi le racconta il suo viaggio nell’utero e di come con lo sguardo si sia tuffato in una marea di sangue;
— allucinazione finale: Kichi e la bambina escludono Sada dal loro sguardo, lei non vi appartiene più (fine della fase sessuale). Solo al dissolversi di Kichi la bambina la osserva, quando lei si è riappropriata del suo desiderio di provare piacere.
Questa è in pratica un’organizzazione in cui tutto risponde a un’economia visiva che agisce come specchio: lo sguardo tende a ripercorrere gli stessi itinerari, perché dalla sua ripetizione si descrive la dimensione libidinale che attraversa il film fino allo spettatore. Gli oggetti, lo scorrere delle pareti, l’interferenza dei terzi, tutti delimitano i confini entro i quali si conclude un rito.
Ai no koriida è uno dei rari esempi cinematografici in cui, tramite un diniego di percezione operato sullo spettatore, la durata filmica sembra coincidere con quella diegetica. Ciò è dovuto al fatto che le cesure di tempo-reale della storia rientrano nel disegno di un’opera che intende “negare” il reale stesso (e, di conseguenza, assolutizzarlo) nella trasparenza cinematografica. L’effetto è ottenuto a due livelli: da un lato con la parcellizzazione della diegesi del racconto in amplificazioni pittoriche, dall’altro con l’uso del dècor come linguaggio-altro.
Il primo livello si attua lungo una sorta di parcellizazione iconografica dalle differenti sfumature plastiche, grazie alla quale ogni istante messo in scena viene svelato al suo apparire, nel suo materializzarsi in forme, colori e ombre. La “cornice” è offerta dalla stanza e dai movimenti delle sue pareti che fungono da trompe-l’oeil, simulando profondità e spazzio del reale.
Tra i vari significanti del quadro c’è innanzi tutto il corpo, la cui dualità di tensione vitale (muscoli in azione, sguardo) e inerzia (gli organi, il sesso), coincide con quella alla base delle xilografie erotiche dei noti artisti giapponesi del calibro di Utamaro: si esalta così un ideale materialistico del corpo come illusione di un piacere ininterrotto e inevitabilmente tragico. La profanazione propria delle xilografie, cioè la rappresentazione esagerata dei genitali come fulcro del piacere, viene qui resa quando Oshima trasfigura Sada nell’estasi sessuale.
Si aggiunga l’economia e l’estrema stilizzazione dei particolari. Gli oggetti sono ridotti a una quintessenza e la posizione statica della m.d.p. li rende immmobili, senza una precisa collocazione tempo-realistica.
La profondità si percepisce grazie alle lunghe riprese oblique, deformazioni del movimento che guida la tensione tra le forze interne al quadro e le convoglia in un unico punto focale: Sada/Kichi. Anche nella sequenza in cui fanno l’amore in giardino, adottando un sistema di sfasamento prospettico simile a quello noto dei dipinti di epoca Heian, Oshima riesce a penetrare fino ai loro corpi, riconducendo a loro la visione d’insieme.
Il punto focale slitta un po’ per volta al centro dell’immagine: le ultime sequenze, quelle che preludono lo strangolamento, vedono la m.d.p. ormai del tutto in asse con il corpo dei due. Tutte le porte scorrevoli si sono rinchiuse alle loro spalle e la chiusura determina un preciso senso di angoscia. Oshima stempera questa tensione nuovamente nel finale, quando in un totale abbraccio lo stadio che, con la ripetizione illimitata di panche disposte concentricamente intorno al punto focale (il corpo di Sada), estende per la prima volta nel film, fino al fuori campo, lo spazio riguadagnato dalla sessualità di Sada.
Come nelle xilografie erotiche, ogni immagine conclusa ripropone corpi che acquistano rotondità in contrasto il cubismo degli sfondi, effetti di luce che accentuano la nitidezza dei contorni e lo splendore dei colori (si tenga conto che lo shikido, la “via del colore”, come qualità intrinseca del mondo materiale era espressione di erotismo). La luminosità interna all’immagine è a sua volta vettore di energia, e infatti, nella scena che segue lo strangolamente mortale, l’immagine è quasi del tutto buia, non se ne percepiscono le forme e i colori, seguita dall’esplosione di luce della scena dello stadio e dal momento in cui Sada, prima di evirare Kichi, appre tutti gli accessi alla luce.
Anche i colori, come nelle stampe erotiche, sono semplici ma intensi, distesi su ampie superfici: sottolineano i corpi più che gli sfond; predominano, a livello simbolico, il bianco e il rosso: bianco è il volto/maschera della geisha (in Giappone questa tinta indica anche ciò che è “insondabile”), bianco è il kimono che avvolge Sada nella sua allucinazione finale. Rosso è il colore dell’iscrizione del film, sempre presente e sempre più insistente.
Infine, come nelle stampe erotiche, le pose acquistano particolari valenze, esaltando il piacere erotico. In particolare, come nelle stampe ricorre la presenza di una terza persona che osserva l’amplesso, a volte rappresentata da uno specchio e a volte solo implicita.
I PERSONAGGI
Si tratta di un’organizzazione pressocché piramidale: all’apice Sada a cui spetta la gestione dell’intera rete di rapporti, e che è dunque il primo e l’ultimo personaggio ritratto nel film. Dopo Kichi, segue una serie di personaggi “minori”. La struttura del film non coincide del tutto con quella proposta da Oshima nella sceneggiatura pubblicata in Giappone e poi soggetta a censura. Nel libro, gran parte del potere è dibattutto tra Sada e la moglie di Kichi, Toku, in un mondo quasi esclusivamente femminile. Kichi è oggetto di disputa e di desiderio.
Sada procede nella relazione con Kichi in modo “criminoso”, cioè intensificandola ogniqualvolta venga contrastata dalla moglie o per sottrarre le sue energie perché Toku non possa avere piacere.
La moglie, a sua volta, non resta indifferente al potere che Sada esecita su Kichi e, pur consapevole di non perderlo comunque (infatti Kichi, dopo ripetuti sforzi per tornare a casa, propone a Sada di gestire un ristorante per continuare a stare con sua moglie), la sfida apertamente facendo l’amore davanti ai suoi occhi. Tra i tanti tentativi che Toku fa per riuscire a tenere con sé Kichi, l’ultimo è quello di cercare di ucciderlo proprio per evitare che sia Sada a farlo. Perciò, nel rispetto della continua simmetria del film, brandisce un rasoio che ritorce su se stessa, scomparendo poi dalla scena.
Nel libro, il potere esercitato da Toku su Kichi è più sottile, più sotterraneo (è, oltretutto, sociale) rispetto all’amour fou di quello con Sada, ma altrettanto tenace. Sada lo percepisce e lo teme continuamente: crea in lei delle fobie allucinatorie e sensi di castrazione. Quando si innesca la vera e propria corrida dell’amore, dato che ormai Kichi non si rade più, l’unica volta che va dal barbiere per ripristinare una sorta di ordine, scatena la reazione omicida di Sada che da questo momento in poi ne minaccia continuamente la morte. Kichi, di suo, è ormai ridotto alla semplificazione del suo pene. Gli altri uomini che intervengono nella storia sono controparti grottesche della sua virilità, vecchi e sviliti dalla loro impotenza.
Ciò che il libro perde rispetto al film in dècor, lo recupera nel respiro dato alle scene, con ricchezza di dialoghi (per quanto scarni, come pennellate incompiute) e tensione nelle pause. Sembrerebbe quasi che l’immediatezza dei dialoghi, calibrata in modo da ricreare il tempo reale della storia (cioè un solo attimo), la astragga al contempo dalla cronaca, collocandola in un luogo fantasmatico delle nostre passioni.
MITOGRAFIA DI ABE SADA
Oshima non è stato il primo autore a “utilizzare” l’immagine di Sada. L’anno prima era stato distribuito il film erotico Dossier Abe Sada (Jitsuroku Abe Sada, 1975) del regista Tanaka Noboru, opera in cui gli accenni storici collocano la coppia con prepotenza nella società. Tra gli altri riferimenti cinematografici, va segnalato un episodio in nel film Love and Crime (Meiji – Taisho – Showa – Ryoki onna hanzaishi, 1969) di Ishii Teruo e il 16mm di Awazu Kiyoshi Abe Sada, autore di molte opere importanti riferite alla donna. Molte anche le opere teatrali, tra cui Kigeki Abe Sada – Showa no yokujo e Abe Sada no inu di Sato Makoto, messi in scena dal teatro delle ombre della compagnia Yuki Ningyo Ichiza.
Tutti hanno letto in Sada un simbolo, il sintomo di un Giappone angosciante, schiacciante, e ne hanno disegnato, pur se in maniera diversa, il “gesto” come irripetibile. Negli anni Settanta i giornali hanno ripreso a occuparsi della donna, ma le varie indagini non hanno condotto ad alcun risultato: Sada sembrava scomparsa nel nulla. Si sa di lei che, nel corso del processo che la vedeva imputata per l’omicidio di Kichi, quando le è stato chiesto perché avesse segnato sul corpo dell’uomo con il sangue quella sorta di epigrafe, lei abbia spiegato che voleva che lui portasse con sé il suo nome fin dentro la morte e che, allo stesso tempo, anche la gente lo sapesse.
[1] Il presente saggio riprende quanto già proposto dall’autrice nella sua tesi di laurea che includeva, tra l’altro, le traduzioni integrali della sceneggiatura del film desunta da VHS e quella pubblicata dal resgista in Giappone: Oshima Nagisa, Ai no koriida, Tokyo, San’ichi Shobo, 1976.
[2] In realtà è sempre stata riconosciuta un’ascendenza culturale di stampo occidentale nel cinema di Oshima (il “Godard giapponese”); ricorrono spesso nei suoi film riferimenti, più o meno espliciti, ad autori tipo Brecht, Kafka, Artaud, Baudelaire, Klossowski, Bataille e altri. A proposito di Genet, per esempio, il richiamo è lampante: in Shinjuku dorobo nikki (Diario di un ladro di Shinjuku) è esplicito il debito del titolo al Journal du Voleur e, prescindendo dall’impronta genettiana nel contenuto, quest’opera è anche il primo dei libri che il protagonista ruba nella libreria.
[3] “Intervista a Nagisa Oshima”, in L’impero dei sensi di Nagisa Oshima, sceneggiatura originale trascritta da Jean-Paul Manganaro, Milano, Ubulibri/Edizioni Il Formichiere, 1980, p. 90.
[4] Georges Bataille, L’erotismo, Milano, SE Studio Editoriale, 1986, p. 162.
[5] In un’intervista rilasciata a Sara Rafowicz ha infati sostenuto: “Certamente, avevo letto le opere di Bataille. Ma spero che questo film venga descritto come un buon atto sessuale, un buon atto d’amore. (…) Ci sono molte cose in Giappone che avrebbero potuto interessare Georges Bataille ma soprattutto nel Giappone del passato. L’importanza del sesso in Bataille è una presenza contro il Cristianesimo. In Giappone il sesso ‘alla Bataille’ è una cosa molto naturale”. Sara Rafowicz, “Cahiers du Cinèma”, 273, 1977, in Il rito, la rivolta il cinema di Nagisa Oshima, a cura di Enrico Magrelli ed Emanuela Martini, Roma, Di Giacomo Editore, 1984, p. 171.
[6] E’ evidente il richiamo all’atavico aborrimento del sangue in Giappone oltre alle possibili letture in termini batailliani.
[7] Pascal Bonitzer, “L’essenza del peggio (L’essence du Pire – L’empire des Sens)”, in Cahiers du Cinèma, n. 270, set.-otto. 1976, citato in Manganaro, cit., p. 98.
[8] Questa “figura” ricorre spesso nella letteratura giapponese (in Mishima, per esempio), e ha liricamente espresso il pathos del sacrificio dei giovani kamikaze nell’immaginazione popolare.
[9] Per Mishima la morte ha rappresentato l’unica possibile fine ‘pura’ per la perfezione della giovinezza, perfezione prima di tutto estetica, come dimostra il culto che l’autore ha riservato al suo stesso corpo. Nelle parole di Oshima: “Là se trouve la limite de sa conscience esthètique vulgaire. (…) De là le culte qu’il vouait à l’artificiel, au fabriquè. Et il s’est forgè, s’est fabriquè lui-meme au point d’en mourir.” Nagisa Oshima, Ecrits 1956-1978, Dissolution et Jaillissement, Cahiers du Cinèma, 1980, p. 269.
[10] “(…) le fait que Sada (…) n’ait pas choisi le ‘shinju’ est assez remarquable: je pense que la raison en est qu’elle savait hautement apprècier l’amour. (…) elle a rèalisè un amour que les Japonais n’osent pas assumer d’ordinaire. (…) pour moi, elle peut survivre pour la recherche d’un nouveau paisir- (…) Habituellement, l’aboutissement de l’amour dans la mort est plutot provoquè par l’intervention des idèes dans cet amour. Mais, pour Sada et Kichi, l’absence de toute idèe est flagrante (…). Il s’agit d’une passion exclusivement physique, sensuelle.” “Entretien avec Nagisa Oshima à propos de l’Empire des Sens”, a cura di Max Tessier, in Ecran, n. 48, feb. 1976, p. 39.
[11] Oshima Nagisa, Ai no koriida, op. cit.
[12] Si pensi al fallimento della lotta contro il rinnovo del Trattato di Sicurezza nippo-americano protrattasi negli anni Sessanta fino alla “guerra di Tokyo” del ’70, e agli attacchi terroristici dei militari fascisti nel ’36.
[13] Oshima, Ai no koriida, cit., pp. 139-140.
[14] L’estetizzazione del sangue e della crudeltà è già una caratteristica del kabuki della metà dell’Ottocento.
[15] Stephen Heath, “The Question Oshima”, in Ophuls, ed. by Paul Willemen, London, British Film Institute, 1978, p. 76.