La cruda violenza spettacolarizzata e gratuita diviene soggetto stesso della pellicola, in cui Kim Ji-woon privilegia isolati effetti drammatici e un sempre più attento lavoro di articolazione formale.
L'ultimo film di Kim Ji-woon va ad alimentare il già rappresentativo filone del film vendetta, genere molto prolifico in oriente e soprattutto in Corea, basti pensare alla famosa trilogia di Park Chang-wook, ma non solo. Oltre ad essere il motore narrativo della pellicola, la vendetta è qui pretesto per mettere in scena una serie di elementi stilistici che il regista di Quiet Family, A Bittersweet Life, ma anche di Two Sisters o The Good, The Bad, The Weir, porta gradualmente a maturazione, come a sperimentare assiduamente, su vari terreni, le proprie abilità di narratore e, in modo specifico di tecnico del cinema, che lavora accuratamente con il materiale espressivo che ha a disposizione. La pellicola assume quella connotazione di ludico divertissement condotto alle estreme conseguenze in cui la violenza raggiunge la sua enfasi nella tendenza gore.
Il thriller trova una serie di momenti estremamente intensi al di là della vera e propria fabula, andando oltre singole scene di dialoghi e concentrandosi sull'impatto visivo e drammatico su cui la narrazione poggia: il taglio curato della fotografia, i movimenti di macchina, la suspense, l'azione, e, naturalmente, la violenza efferata, il sangue.
Una lunga inquadratura dall'interno di una vettura, di notte in una strada desolata completamente imbiancata dalla neve che continua a cadere ininterrottamente. La macchina da presa, sempre a simulare lo sguardo e l'attenzione dell'automobilista, si sofferma su un'auto in panne a lato della strada. All'interno vi è una giovane donna che sta parlando al telefono con il suo fidanzato, agente di stato, che le suggerisce di attendere il carro-attrezzi e le canta una canzone d'amore. L'uomo si propone di aiutarla mentre si fa palese la reticenza della donna. Un'inquadratura minacciosa vede il suo primo piano oltre il vetro, ma poi accenna ad andarsene. La ragazza accende le luci e le inquadrature si susseguono sui dettagli dei suoi gesti. Guarda davanti a sé, ma all'improvviso una veloce panoramica coglie l'uomo urlante, intento a spaccare il parabrezza. Un'azione concitata: lei tenta di fuggire, ma è inutile, si dimena, lui la prende a martellate in testa e si nota il suo primo piano con il sangue che cola. Inquadratura su un dettaglio bianchissimo, di neve candida, si sposta gradualmente per inquadrare, dall'alto la scia di rosso che si sta formando sul selciato. L'uomo che trascina la donna sanguinante è con lei, inizialmente fuoricampo. Lo stacco rimanda ad un interno, una sorta di macelleria che il serial killer utilizza per fare a pezzi le sue giovani vittime, con tanto di canali e tubature di scolo per il drenaggio di sangue che avviene abitualmente dopo i macabri rituali.
Suspense e attesa, azione improvvisa ed effetto sorpresa, messa in campo totalizzante del dettaglio, del sangue che fuoriesce dalla vittima e impiego del fuoricampo, dell'ellissi visiva, nonché di quella temporale che conduce in interni, contrapposta alla dilatazione temporale del long-shot d'apertura.
Una luce bluastra, notturna si alterna al bianco e al rosso, l'oscurità dell'esterno, alla luminosità all'interno dell'auto della donna. L'incipit ha un ritmo equilibrato di tensione in crescendo e di elemento risolutivo che fa tesoro del grande cinema d'azione e di genere, mescola topoi e stilemi dell'horror, del thriller, del melodramma, preparando con efficacia il climax della sequenza.
Il lynchano ritrovamento di un orecchio, da parte di un ragazzino che gioca sotto un ponte, sancisce l'avvio delle ricerche e la conseguente scoperta della testa decapitata della donna, proprio quando giunge, oltre al padre, detective della squadra omicidi ormai in pensione, il fidanzato, agente di stato, a breve individuale giustiziere, che vede, nella foga che si sta creando, ruzzolare il capo dell'amata, fuori da una scatola tenuta in mano da un operatore della scientifica che si inciampa.
In seguito a questo nero umorismo, non estraneo a Kim Ji-woon, la narrazione si aggrappa ad uno schema maggiormente lineare e costante: promette vendetta davanti alla tomba dell'amata, liquida in un paio d'azioni due dei presunti colpevoli per poi concentrarsi sul vero serial killer.
Buona parte della pellicola infatti è contrassegnata dalla sadica esibizione di una continua caccia e di una rispettiva fuga, un dilatarsi di una cruente perseveranza ostentata sui due fronti. Il serial killer alimenta la sua mania omicida, la sua indifferenza e temerarietà, mentre il protagonista tortura a più riprese, rimandando l'epilogo e subendo la controffensiva.
Tutto ruota intorno ai due personaggi che si scontrano in un duello costante. Una capsula fatta ingerire al serial killer permette al poliziotto di cogliere di sorpresa la sua vittima mentre persegue il suo letale obiettivo, fino alla risoluzione dell'intrigo, in cui il gioco si fa più difficile in seno ad una svolta narrativa imprevista.
I due caratteri sono ben interpretati dalla star Byung-hun Lee, l'agente (e il ribelle Sun Woo di A Bittersweetlife), e ancora più intensamente da Gook-hwan Jeon, il killer Squad Soo-hyeon, con il suo sguardo minaccioso, il gelido cinismo, la sua mimica psicotica, che ricorda il Javier Bardem di No coutry for old men dei Coen.
Gli altri personaggi sono solo di contorno e hanno la funzione di avviare isotopie narrative o mediare in funzione dei protagonisti, rendendoli unici partecipi. Le numerose vittime mietute sono pretesto per accentuare l'efferatezza della violenza e stimolare il gusto della vendetta, innescare sequenze che si accumulano per rendere esasperanti le esecuzioni, i duelli, la suspense, la preparazione delle scene violente e il conseguente intervento improvviso dell'eroe. Eroe negativo, come spesso avviene nella prevalente visione ironica e tragica dell'autore: «a combattere contro i mostri, si diventa mostri», cita una frase del detective in pensione, per sottolineare didascalicamente il rapporto che intercorre fra i due, la visione pessimistica di una realtà contemplata dal genere.
E infatti gli elementi macabri, le mutilazioni, le ferite, gli schizzi di sangue, sono dettagli preponderanti, volutamente sovrabbondanti, che la macchina da presa esibisce senza censure o con esplicite allusioni. I protagonisti guidano l'auto, si muovono nel centro cittadino, prendono taxi e vanno in farmacia o dal dottore indisturbati con i segni della lotta sul volto, con un trucco marcato, nell'esplorazione che l'obiettivo compie sui corpi, sulle conseguenze di un atto violento. Basta inquadrare il pavimento tinto di rosso sangue, la conseguente fuoriuscita dal tubo di scarico in cui l'acqua cambia colore; i fiotti che nel controcampo vanno a sporcare il volto del carnefice, o il finestrino dell'auto. L'insistenza dei piani fissi e con accentuate angolazioni che dilatano il tempo di una sanguinaria lotta: quando l'agente colpisce a più riprese il killer o il suo amico che lo ospita in un hotel sotto suo sequestro.
I lenti movimenti di macchina, calibrati, contribuiscono a creare quel sentimento di attesa e mistero che pervade la pellicola, movimenti fluidi che danno più ampio respiro fra le intense scene concitate, di veloci dettagli che caratterizzano i combattimenti. Movimenti che legano spazi dell'azione in funzione drammatica, i quali, nella loro eleganza, non trascurano il portante principio compositivo estetizzante. Di notte l'agente è nel suo appartamento, inquadrato dall'esterno delle vetrate quando la macchina da presa si sposta per sovrastare la città e abbassarsi gradualmente su una periferica fermata del bus, dove la prossima vittima verrà adescata dal killer. All'interno del taxi una panoramica circolare preannuncia il tragico evento che si sta per scatenare, inquadrando i diversi volti dei tre uomini e ponendo nell'indifferenza le banali parole del tassista.
Il film è scuro, notturno con un'illuminazione contrastata, che immerge i protagonisti nel buio esaltandone l'aspetto inquieto ed inquietante, con inquadrature dal basso, o verticali plongè che enfatizzano le scene più statiche. Gli interni maggiormente illuminati sono i luoghi dell'azione, perché la si possa segmentare in dettagli ben visibili, perché si possa evidenziare un scenografia abbondante, carica, tesa a rinchiudere i personaggi, soffocarli ed ostacolare i loro movimenti, ma anche per sfruttarla come nascondiglio e per utilizzare armi improvvisate di ogni genere: un cacciavite, degli ami da pesca, un estintore, un'arma da fuoco, come un attrezzo da giardinaggio, la prolunga di un elettrodomestico, come una chiave inglese o un set completo da macellaio.
La cruda violenza spettacolarizzata e gratuita diviene soggetto stesso della pellicola, la quale, al di là delle spicce considerazioni morali, si rivela come sempre, un terreno di prova e di esercizio stilistico per Kim Ji-woon, che privilegia, nel complesso, isolati effetti drammatici e un sempre più attento lavoro di articolazione formale.
Davide Morello