In questa sezione vengono analizzati nel profondo tutti gli aspetti di Umrao Jaan oltre la trama: attori, situazioni e rimandi della pellicola e oltre la pellicola stessa.
Mettiamola così: se nel 1899 o 1905 Mirza Muhammad Hadi “Rusva” – ovvero il “Disgraziato” o il “Disonorato” – non avesse dato alle stampe il romanzo Umrao Jaan Ada (id.) e se nel 1981 Muzaffar Ali non avesse diretto Umrao Jan, si potrebbe dire semplicemente che quello di J.P. Dutta è un bel filmone del genere kotha movie, laddove kotha (“bordello”) è per antonomasia il luogo del piacere della cultura indiana. La vicenda in sé sarebbe comune ad altre pellicole di questo filone:1 una commovente storia d’amore tra una bellissima cortigiana e un giovane aristocratico, talora a (finto) lieto fine, come in Pakiza, tal’altra invece destinata al dolore, come in questo. Il romanzo, tuttavia, è stato scritto e il film di Muzaffar Ali realizzato: volenti o nolenti, il confronto era inevitabile. E non si è fatto aspettare. In genere, i critici non sono stati teneri con il film di J. P. Dutta, come non lo è stato il pubblico.
Ciò non significa che sia da buttare; tutt’altro, che di punti di forza ne ha più di qualcuno. Anzi, partiamo proprio da quelli. Gli interpreti, per cominciare; è doveroso dare la precedenza su tutti a Shabana Azmi, ‘scoperta’ ormai tanti anni orsono da Shyam Benegal, che l’aveva voluta come protagonista nel suo primo film a soggetto, Ankur (Il germoglio, 1973). Nel film di J.P. Dutta, Shabana Azmi impersona Khanam Jaan, l’energica e materna maîtresse del kotha, ruolo, per incidens, che nella versione di Muzaffar Ali è sostenuto dalla madre dell’attrice, Shaukat Kaifi, molto più nota per la sua attività teatrale che cinematografica. Nonostante alcune sbavature sentimentalistiche, quello di Khanam è il personaggio meglio disegnato nella nuova versione di Umrao Jaan: Khanam – il cui nome è la forma femminile di khan, “padrone”, titolo per nobili musulmani – conserva ancora la bellezza e il fascino che ne avevano fatto una cortigiana di fama. A queste doti unisce una penetrante intelligenza della realtà del mondo e la fredda determinazione di trarne il miglior profitto per la sua ‘impresa a conduzione familiare’. Le virtù che tanto dilettano i facoltosi clienti – la colta e raffinata conversazione, la poesia, il canto e la danza, oltre alle arti erotiche – sono il frutto di una lunga e costosa disciplina educativa, che non può permettersi troppo rilassamento. Le relazioni delle cortigiane con i clienti si fondano e si sostengono sul danaro, non sull’amore, che è invece lo strumento tattico privilegiato del mestiere: solo a queste condizioni le mura che le proteggono dalla durezza della strada rimarranno ben salde. E’ la lezione di base che Khanam – appropriatamente chiamata, nel romanzo e nel film di Muzaffar Ali, con l’appellativo maschile Sahab, “signore” ¬– impartisce quotidianamente alla sua ‘squadra’. Quelle mura sono per molti versi una prigione: anche in questo film si ripropone, infatti, la metafora della cortigiana come uccello nella gabbia d’oro, ma all’epoca dei fatti (tra il 1840 e il 1870) anche le donne ‘perbene’ erano confinate nella gabbia della casa, che raramente era d’oro. Il rigore disciplinario di Khanam si applica con assoluta imparzialità e talora con durezza a tutte le cortigiane, che considera sue figlie al pari di Bismillah, la figlia carnale: “Bismillah, sono sempre stata molto severa con te, perché non si dicesse che ero ingiusta. Perché io non sono solo tua madre, ma la madre di tutte queste figlie”. Con queste parole, Khanam si congeda dalla ‘famiglia’ in fuga da Lakhnau, investita dalla rivolta anti-inglese del 1857: lei, invece, rimarrà al kotha, pronta a condividerne la sorte.
Per restare ancora tra le glorie stagionate, citiamo Kulbhushan Kharbanda, anche lui ‘bravo’ della banda Benegal, qui nel ruolo del Maulvi Sahab, l’anziano poeta che, per amore della cortigiana (ora in pensione) Husaini, aveva accettato di vivere nel kotha per istruire le apprendiste cortigiane nella letteratura e nell’arte di recitare poesie. Anche in questo caso si rileva più che un fondo di sentimentalismo nell’espressione dell’affetto che lega il Maulvi Sahab a Umrao, per la quale egli diventa un amoroso padre adottivo ancora prima di scoprirne il talento poetico. Ma la classe, va senza dire, non è acqua.
Poi c’è un consueto triangolo: i tenebrosi Lui (il Navab Sultan) e l’Altro (il Navab Faiz Ali) che si contendono l’amore di Lei (la cortigiana Umrao Jaan), che ha già donato il cuore a Lui. Gli ha donato anche il fiore che tutti i clienti avrebbero amato cogliere: la sua verginità. Ciò che infatti distingue questo rapporto è proprio la sua esclusività: il Navab Sultan non ha avuto rivali prima e non li avrà dopo, anche se non avrà modo di saperlo. L’unica ‘macchia’ sul corpo di Umrao – perché in questo caso, si sa, la colpa ricade su chi subisce, non su chi agisce – è lo stupro di Gauhar Mirza, che l’autore riscatterà con una probabile morte in difesa della città, invasa dalle truppe inglesi. Questa Umrao ha un’aura profondamente, intimamente virginale: per usare termini verdiani, “fredda come la casta tua vita”. Questo non vuole essere una critica all’interpretazione di Aishvarya Ray, che anzi è la luce che riesce ad animare la legnosità dei due amorosi, interpretati rispettivamente da Abhishek Bachchan, figlio di Amitabh Bachchan e marito di Aishvarya Ray nella vita, e da Sunil Shetti. Se una critica va fatta, questa riguarda l’impostazione generale del film, che riduce una creazione letteraria intrigante e provocatoria a una melensa storia d’amore tra una dolente “vittima della sventura” e, per continure sul solco verdiano, un amante “cieco, vile, misero”, ferito nell’orgoglio e incapace di distinguere il vero dal falso.
I molti punti deboli del film dipendono in prima istanza proprio dal romanzo. Quest’ultimo finge di essere l’autobiografia, raccolta dall’autore, di un’affascinante ed enigmatica cortigiana di Lakhnau, divenuta famosa come poetessa.2 L’aspetto ‘scandaloso’ del testo, a dispetto di una vernice moralistica, è dato dal fatto che Umrao Jaan, superato in men che non si dica il trauma del rapimento, non è una vittima della sventura, non è un’innamorata infelice e, soprattutto, non è una puttana pentita. Anzi, è perfettamente consapevole che è stato il mondo del kotha – il “paese delle fate”, come le appare inizialmente – ad aprirle la strada per diventare qualcosa di più elevato di una “rana nel pozzo”, come in hindi si definiscono le persone dall’orizzonte intellettivo e conoscitivo microscopico. La poetessa, l’artista, la filosofa, l’intellettuale Umrao Jaan non cambierebbe mai la sua conquistata identità individua con la grigia esistenza dell’onesta casalinga che avrebbe potuto diventare Amiran, se avesse sposato il cugino: “Vivo come una puttana, che dio abbia in serbo per me la morte o la vita, non accadrà che io me ne stia a soffocare dietro un velo”,
afferma alla fine del romanzo. Nel film di J.P. Dutta, invece, Umrao racconta la sua storia a Rusva proprio da dietro una cortina, sotto forma di anima penitente che sempre piange il grande amore perduto. Un grande, unico amore che nel romanzo non si trova affatto: il Navab Sultan è solo un cliente gentile e di gran bell’aspetto con cui Umrao ha una breve e appassionata relazione, un innamoramento un po’ vero e un po’ finto, come dichiara allegramente, perché “né io ho mai amato alcuno, né alcuno ha mai amato me”. Di clienti-amanti, però, ne aveva avuti parecchi: dal pestifero Gauhar Mirza, che l’aveva consenzientemente deflorata quando era poco più di una bambina; a Faiz Ali, il generoso e gentile bandito con il quale se n’era andata dal kotha per ‘mettersi in proprio’ (nulla a che fare con l’arrogante e vendicativo villain del film); ad Akbar Ali Khan, l’avvocato che l’aveva salvata dalla ‘persecuzione’ di un aristocratico cliente che, per averla tutta per sé, aveva affermato, con falsi testimoni, di averla sposata. E li ricorda tutti con tenerezza e rimpianto (rimpianto che riguarda più la giovinezza lasciata alle spalle che gli amanti incontrati sul cammino): in un’intensa pagina del romanzo, Umrao – che ora vive sola ma si reca a far visita a Khanam ogni due o tre giorni ¬– fa rassettare la sua vecchia stanza (sempre riservata a lei) e si siede davanti allo specchio dove, come in una lanterna magica, scorrono ripetutamente i volti degli amanti e le immagini del tempo gioioso di un’altra età. Questo dolcissimo “addio del passato” non è un congedo dai “bei giorni ridenti” in vista di un futuro di solitudine e sofferenza. Umrao è una persona in pace con se stessa, col mondo e con dio e benché “il desiderio sia quella disgrazia che non esce dal cuore se non con l’ultimo respiro”, in realtà non le manca l’amore di nessun Alfredo: il “conforto e sostegno dell’anima stanca” l’ha trovato da quel dì nell’arte, nella conoscenza e nella filosofia. Tale addio acquista un sapore ben diverso se rapportato al film di J. P. Dutta, che stravolge completamente l’aspetto unico e straordinario del testo per riportarlo a una muffosa banalità. L’abisso che separa il personaggio letterario da quello cinematografico si completa nei versi che concludono le due opere. Nel film, una mesta Umrao esala dolorosa : “Se qualcuno chiedesse se c’è una fine delle prove dello sventurato / allora che io sia l’esempio, che io sia l’immagine”. Anche nel romanzo i versi finali vogliono essere una testimonianza, un utile esempio che la cortigiana-poetessa lascia ai lettori, ma il succo è ben diverso: “Il giorno della morte è vicino forse, o vita, / la mia natura si è più che saziata di te”.
A questo punto, non è possibile non accennare alla versione precedente di Umrao Jaan, quella ‘sacra’ del 1981 di Muzaffar Ali, che si è già avuto modo di illustrare. A dire il vero, circa un decennio prima era già apparso un film pakistano, Umrao Jaan Ada, diretto da Hasan Tariq (per il quale rimandiamo a Désoulières 1985), molto liberamente tratto dal romanzo. Non sappiamo se J.P. Dutta ha avuto modo di vederlo; di sicuro conosce bene quello di Muzaffar Ali, ma sostiene che il suo film non ne è un remake. Afferma, invece, che è tratto da un soggetto di suo padre, il quale a sua volta si era ispirato al testo di Rusva. In un certo senso, non ha torto: il romanzo e il film non sono che una vaga ispirazione, il resto è farina del sacco Dutta. Benché i tre film abbiano tutti come centro emotivo la storia d’amore tra Umrao e il Navab Sultan, la versione di Muzaffar Ali è l’unica che si mantiene vicina allo spirito, se non alla lettera, del romanzo. Evidenzia, infatti, la consapevolezza di Umrao della propria individualità, raggiunta attraverso l’arte e la cultura: una conquista a cui l’individuo Umrao non può più rinunciare, anche se potrà conservarla solo rimanendo entro il confine del kotha.
La personalità unica di Rekha, protagonista del film di Muzaffar Ali, è determinante nella costruzione del personaggio: meno bella di Aishvarya Ray, secondo canoni classici, vibra di una sensualità che, curiosamente, attiene più allo spirito che alla carne. La sua Umrao non ha nulla di virginale, è una sorgente di fascino psico-erotico, magicamente accentuato dai brani musicali. Di per sé, il kotha movie è un genere che richiede più di altri l’eccellenza delle musiche, anzi delle song-picturization: Pakiza ne è l’esempio esemplare (J.P. Dutta, infatti, lo “cita” in una scena in cui Umrao esegue un mujra, una performance insomma, insieme a due compagne). Nel film di Muzaffar Ali, la bellezza delle musiche del grande compositore Khayyam e dei versi dell’altrettanto illustre poeta urdu Shahryar riescono quasi a mettere in ombra le scarse doti coreutiche di Rekha. La migliore predisposizione alla danza di Aishvarya Ray, invece, riesce solo in parte a compensare la minore intensità dei pur pregevoli risultati del musicista Anu Malik e del poeta Javed Akhtar, sceneggiatore, quest’ultimo, di grande reputazione e marito di Shabana Azmi.
Rimane una sensibile traccia di rimpianto, che si estende a tutto il vecchio film, al romanzo e alla ‘rivoluzione’ di cui si erano fatti interpreti e che sembra ora inghiottita nelle nebbie di un passato lontano.
Cecilia Cossio