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Hou Hsiao-Hsien Negli anni '90

Taiwan

Un cineasta nostalgico e tradizionalista: lo sviluppo del cinema di Hou impone una definitiva revisione critica di simili categorie, non mirando ad una loro rimozione, quanto piuttosto a un approfondimento, a una sondatura della loro effettiva complessità.

Sovente sono state attribuite a Hou Hsiao-hsien, soprattutto riguardo ai suoi primi film, delle etichette a rischio di equivoco e di fraintendimento: tra di esse, quelle di nostalgico e di tradizionalista. Lo sviluppo del cinema di Hou impone una definitiva revisione critica di simili categorie, revisione che non intende procedere a una loro rimozione, quanto piuttosto a un approfondimento, a una sondatura della loro effettiva complessità.

Durante gli anni '70 del secolo passato,Taiwan è stata soggetta a un rapido processo di modernizzazione e di industrializzazione che ha sconvolto nel volgere di breve tempo gli inveterati assetti della società dell'isola, imperniati intorno al "mito" tradizionalista della madrepatria cinese, della sua riconquista e del conseguente ritorno. La rivoluzione economica ha fatto da traino per quella culturale, quella geografico-ambientale (la crescita di grandi città,lo spopolamento delle campagne e la loro marginalizzazione conflittuale) e quella sociale (nuovi tipi di lavoro, di esigenze, di problemi; l'insorgenza dello scontro generazionale) e politica (la progressiva apertura del regime, la revoca del codice marziale, ecc.). Lo sconvolgimento fu subitaneo e mancò l'accortezza di "mediare" tra i lasciti della tradizione e la nuova dinamicità, le nuove provocazioni dello sviluppo. Lo svecchiamento della società portò con sé un forte senso di smarrimento, di incertezza dei valori, dal momento che quelli avìti si erano sgretolati e non se ne erano assestati di nuovi.

La filmazione di Hou Hsiao-hsien nelle prime opere (da I ragazzi di Fengkuei, 1983, fino a Dust in the Wind, 1986) si fa esplorazione della memoria individuale (spesso autobiografica) e collettiva; il suo occhio guarda indietro per cercare sedimenti, schegge e suggestioni di un passato che aiuti a capire ciò che si è stati, ciò che si è (magari per differenza) e ciò che si potrà essere (il passato è una riserva di possibilità). Questa "cura" implica il presente non solo come bersaglio polemico, ma come momento di frizione e fonte di riflessione interrogante. La nostalgia di Hou non è ripiegata su se stessa, non scaturisce dalla modernità solo per contrapposizione; ma anzi, la sua nostalgia è figlia della modernità , ne percepisce la sfida e la riversa sul passato come deposito di identità e di tradizione per verificarne la tenuta e i punti di cedimento. La programmatica contrapposizione città/campagna che si dipana come un fil rouge tra i primi film del regista è molto meno monolitica di quanto sembri: non solo queste opere registrano uno scambio reciproco e variamente modulato tra i due luoghi, ma anche in campagna il ricordo fatica a farsi veicolo di un'assiologia ben definita. Non è un caso che nel cinema di Hou manchi a livello familiare la figura che più di tutte si fa latrice di un modus vivendi, cioè quella paterna, la cui importanza è tanto più spiccata in una società fortemente patriarcale come quella di Taiwan. L'incertezza pervasiva che deriva da questi sbriciolamenti induce a una difficoltà di maturazione che affligge le giovani generazioni: sommessi racconti di formazione, i primi film di Hou Hsiao-hsien hanno ricostruito le coordinate di questa difficoltà, suggerendo la contiguità della crescita e della consapevolezza della morte e della violenza  – emblematico è In vacanza dal nonno, 1984. Paradigmatica risulta la figura della nonna in Le passate cose dell'infanzia (1985): tenacemente pervasa dagli spiriti della Madrepatria, la donna è convinta che la sua terra natìa sia a breve distanza e vuole condurvi il nipote, se non ché il loro viaggio si rivela essere un lungo détour sconclusionato.

Le coordinate di un cambiamento

 La storia collettiva nei film di Hou si presenta solo per rifrazione: le grandi vicende vengono evocate nei loro effetti su realtà "micro" (l'individuo, la famiglia, il paese, ecc.). Proprio questa logica sta alla base dell'ambiziosa trilogia sulla storia taiwanese del Novecento: Città dolente (1989), Maestro di marionette (1993) e Good Men, Good Women (1995). I primi due film, corali e polifonici, ripercorrono le vicende di due famiglie; il terzo, invece, segue le scelte e i drammi di un'attrice, Liang Ching. Se Città dolente e Maestro di marionette segnano il culmine dello stile di Hou Hsiao-hsien così com'era maturato negli anni Ottanta – uso di inquadrature fisse e di lunghi piani-sequenza, naturalismo dell'ambientazione e della resa dei colori, forte senso della composizione spaziale e del quadro, narrazione scarna, ellittica e spoglia di qualsiasi enfasi drammatica  –, Good Men, Good Women indica le coordinate di un'evoluzione nella mise en scène; o meglio, esso costituisce una cerniera tra due stili e due tempi, strutturandosi secondo una fondamentale anfibologia che fa scorrere parallelamente queste dimensioni divergenti. Infatti, il film ospita al suo interno un film semi-immaginario, intitolato appunto Good Men,Good Women: se quest'ultimo racconta le vicende del periodo del "terrore bianco" ed è filmato con inquadrature per lo più fisse in bianco e nero, il primo, ambientato a cavallo tra anni Ottanta e Novanta, si avvale di un soggetto tipicamente moderno e fa uso di soluzioni stilistiche inedite: movimenti di macchina, scenari metropolitani, luci e colori "al neon", una maggiore complessità narrativa e visiva che è quanto di più vicino ad una ricezione intima del realismo baziniano.

In realtà Hou aveva già attuato un siffatto tentativo, realizzando quel film di transizione che è Figlia del Nilo (1987). Film già pervaso di iconografia urbana, quest'ultimo si rivela un'opera irrisolta, poiché mostra un nuovo contesto senza realmente introiettarlo. Il movimento centrifugo e l'esperienza cittadina dello choc e della frammentazione vengono eluse dalla riproposizione della precedente impaginazione cinematografica, nel contesto della quale gli elementi innovativi (linguistici: la camera-car; scenografici: i luoghi della metropoli; oggettuali: la presenza di telefonini e tavoli da gioco) risultano abbastanza scontati e stereotipati. Lungo la strada di Good Men, Good Women (e oltre) procede Goodbye South, Goodbye (1996), le cui scelte di messa in scena si fanno vieppiù audaci: a fianco dell'accentuarsi dei caratteri ravvisati in precedenza, vengono introdotte delle soggettive che, attraverso l'uso di filtri particolari (verdi, arancioni, ecc.), emulano lo sguardo dei personaggi (i cui occhiali da sole hanno lenti colorate) e costruiscono una partitura cromatica antinaturalistica e "pop" nelle sue alterazioni. Il versante contenutistico è esemplare. Sia Good Men, Good Women che Goodbye South, Goodbye (come poi Millennium Mambo, 2001) narrano vicende metropolitane di smarrimento, di egoismo,di denaro e di delinquenza. A differenza delle bande naïf e inoffensive de I ragazzi di Feng Kuei e Le passate cose dell'infanzia – esse stesse, comunque, testimonianza di un disagio –,qui la criminalità si fa più venale, lesiva e pervasiva: i luoghi topici dei nuovi riti sono i tavoli (di bar, ristoranti, ecc.) intorno a cui si riuniscono i malavitosi per parlare di piani, di affari,di denaro. V'è una sorta di mercificazione diffusa:il valore è solo economico e tutto è soggetto a contrattazione. In Good Men, Good Women Liang Ching accetta come compensazione per l'uccisione dell'amante tre milioni di dollari taiwanesi dalla banda rivale e poi se ne pente; in Goodbye South,Goodbye viene venduta la casa avita e non si sa dove spostare il sepolcro del nonno. Lo sradicamento si fa generalizzato e irrimediabile: la memoria e la tradizione si sciolgono senza residuo nella fluidità e mobilità del denaro, forma vuota che asserve (quantificandolo) ogni contenuto.

Percorsa quest'evoluzione si può tornare con uno sguardo retrospettivo ai primi film: una loro riconsiderazione ex post non fa altro che confermare la radicale modernità che li informava di sé,per lo meno in nuce.

La messa in scena del passato

 Il passo successivo di Hou Hsiao-hsien è spiazzante: Flowers of Shanghai (1998), tratto dall'omonimo romanzo del 1894 di Han Ziyun (adattato da Eileen Chang), è un film integralmente ambientato all'interno degli eleganti bordelli di quella parte della Shanghai di fine Ottocento (tarda dinastia Qing) concessa agli inglesi. Se dunque continua ad essere chiamata in causa la storia, per una volta non si tratta più di quella taiwanese. Ma il film, considerato sotto altri punti di vista, non è affatto un corpo estraneo, avulso dalla cinematografia di Hou.

Tematicamente, esso si presenta come una riflessione portata agli estremi termini sulla mercificazione dei rapporti umani: se già all'interno del bordello il corpo della donna viene ridotto a oggetto da sfruttare e su cui lucrare, il film esacerba la logica della reificazione sviluppando tutte le relazioni nei termini di contrattazioni, compravendite e scambi che si svolgono intorno a tavoli affollati e imbanditi, quasi a ribadire lo status di sommo topos che essi hanno acquisito nel cinema di Hou Hsiao-hsien. Questa reificazione totalizzante quanto irreparabile si insinua in ogni atteggiamento, in ogni sentimento (passione, gelosia, invidia, ecc.), rendendo veneficamente artificiale e calcolato tutto quanto ha luogo : non è un caso che un film su dei bordelli non mostri neppure un lembo di carne femminile (occultata sotto la coltre di ricco vestiario), per non parlare dell'atto sessuale (troppo animalesco, troppo impulsivo per caratteri così affettati e controllati). La seduzione esercitata dalle "donne fiore" è più una macchinazione che un'arte, preoccupata com'è ad accaparrarsi i favori (e i denari) dei ricchi frequentatori.

La messa in scena presenta una radicalità e una coerenza affatto distanti dalla composizione plurale ed eterogenea di un film come Goodbye South, Goodbye: v'è una depurazione sintattica radicale (pur con alcune rilevanti eccezioni, si susseguono piani-sequenza omologhi nella loro struttura e scanditi da dissolvenze in nero) a cui fa da contraltare uno sfrangiamento morfologico pervasivo. In tal modo, lungi dall'essere un ritorno al passato, questa opzione di messa in scena radicalizza tutte le istanze estetiche e stilistiche dei film immediatamente precedenti: infatti la macchina da presa, invece di far prevalere la fissità, si muove sinuosamente, è in perenne stato di oscillazione e di fluttuazione, rafforzato dalla mancanza di stacchi. Ciascun piano-sequenza, a sua volta, dà l'idea di un microcosmo indipendente, autonomo, i cui nessi con le altre tessere del film sono sospesi e sottratti all'interno delle elegantissime dissolvenze sul nero in entrata e in uscita. Il rigore del piano-sequenza produce uno spazio tutt'altro che compatto:l'unitarietà del punto di vista che viene di volta in volta applicato sottolinea la parzialità della visione; i movimenti di macchina fluidificano le scansioni interne; le dissolvenze sul nero producono un senso di sfrangiamento, uno spezzettamento dello spazio, e insieme del tempo e della narrazione – quest'ultima mai così precisa e insieme mai così entropica, composta anch'essa di atomi compiuti e insieme impalpabilmente svincolati, indipendenti.

Flowers of Shanghai convoglia così una più ampia riflessione sulla messa in scena della storia che chiama in causa l'intero corpus cinematografico di Hou Hsiao-hsien. Se il regista aveva manifestato precocemente una notevole consapevolezza della messa in quadro dell'immagine (evidenziandovi cornici e ripartizioni interne, anche senza l'intenzione trasparente di una mise en abîme del testo) fino a raggiungere una partitura teatrale consapevole del processo di ricostruzione della memoria messo in atto (Il maestro di marionette), in seguito egli ha presentato il passato come film nel film (Good Men, Good Women) oppure spingendo il realismo a un limite tale da rovesciarlo nel suo opposto: questo è l'espediente adottato in Flowers of Shanghai, ove ogni blocco di testo ha la maniacale accuratezza e insieme l'artefazione di una miniatura, ove l'antinaturalismo è spinto all'estremo (l'ambientazione è sempre in interni; non c'è mai luce naturale) e ove, infine, la visione (e la narrazione) è risucchiata nel nero impenetrabile dei raccordi. Nero da cui scaturiscono e in cui tornano a confluire tutti gli squarci di visibile.

L'immagine (mai) presente

 Ultimo film realizzato finora da Hou, Millennium Mambo, è costruito su un pretesto quanto mai significativo: infatti il regista racconta le vicende del suo film come se una donna del 2011 ricordasse i suoi trascorsi di dieci anni prima (2001, appunto). Questo singolare escamotage consente di impostare il film su un timbro nostalgico, di dargli un'impronta che si effonde poi per tutta l'opera. Millennium Mambo è una storia di amori falliti e smarriti che culmina in un Giappone innevato: luogo di una cristallizzazione della memoria e insieme dell'utopia di un impossibile "già stato" che ipoteca il futuro. In questo modo Hou, dopo essersi confrontato con il presente, si confronta anche con l'altrove, sostituendo la dialettica tra città e campagna con quella più ampia tra Taipei e il mondo esterno.

Lo sguardo di Hou recupera e sublima la sua perenne tensione verso l'assenza, che incrina la compattezza insieme del presente e del passato. Se il primo non può essere "ricostruito" perché disciolto nella sua multiforme (e anche negata) eredità, il secondo è preso da una fuga evergente che lo porta sempre di qua e di là dalla presenza. In questo non-luogo sta l'immagine senza tempo – sospesa nel tempo – di Hou Hsiao-hsien.

Francesco Cattaneo