Air Doll è una parabola surreale, una fiaba moderna senza lieto fine, la cui morale, come in tutte le fiabe, è tanto banale quanto necessaria e universale: nessuno uomo è fatto per vivere da solo.
Koreeda è regista intenso che sa materializzare con levità malinconica temi universali e particolari allo stesso tempo. Come è stato più volte detto, è il regista del lutto e della memoria, dell'assenza e della sospensione. Accanto a queste tematiche si aggiunge con forza in Kuki Ningyo anche quella della solitudine e dell'alienazione metropolitana, molto presente nell'ultimo ventennio di cinema nipponico.
In una non meglio precisata metropoli un uomo medio torna ogni sera dal suo lavoro e si trastulla in casa con una bambola gonfiabile; troppo ferito per cercare una donna vera, troppo pigro per instaurare una relazione. Un giorno, mentre il padrone è via, la bambola “trova un cuore” e, novella Pinocchio, si fa carne al contatto con quell'elemento che dona la vita quale è l'acqua (una goccia di rugiada in questo caso). La bambola, chiamata Nozomi, inizierà quindi a esplorare il mondo degli umani, arrivando a trovare lavoro in un videonoleggio (e il regista ne approfitta simpaticamente per costellare la pellicola di rimandi cinefili) e innamorarsi, per poi tornare di sera a soddisfare passivamente il suo padrone, costretta a fingere quella fissità che le sarebbe naturale.
Attraverso l'espediente dello sguardo “vergine” della protagonista (ironico se la si pensa come oggetto sessuale) Koreeda ci mostra le piccole meraviglie del mondo con la sua consueta leggerezza e riesce a creare una serie di immagini, simboliche e non, di una bellezza raffinata e struggente, confermando di essere il regista che più di tutti, probabilmente insieme a Kawase Naomi, riesce a cogliere quel lirismo del quotidiano tanto caro ai giapponesi (esempi lampanti ne sono Taniguchi Jiro nei manga e Nagai Kafu in letteratura). Qui il punto di vista è sicuramente reso più accessibile allo speattatore poiché corrisponde a quello ingenuo e curioso di un essere per il quale tutto è una “prima volta”. Riesce difficile pensare a un'attrice asiatica migliore per interpretare questo ruolo della bravissima coreana Bae Doona, che con quegli occhi ipertiroidei che strabuzza in continuazione e le espressioni di intenso stupore rende decisamente realistico l'“approccio alla vita” del suo personaggio. Azzeccata la scelta di un'attrice non giapponese per il ruolo, così da rendere più credibile la difficoltà nell'apprendimento del linguaggio, anche se Bae non è nuova a pellicole giapponesi, essendo stata la splendida protagonista di quel piccolo grande gioiello che è Linda Linda Linda (e in patria ha selezionato attentamente i suoi ruoli, apparendo tra i personaggi principali in ottime pellicole come The Host e Mr.Vendetta).
La bellezza che lo sguardo di Bae/Nozomi scopre nelle piccole cose è, come sempre nel cinema di Koreeda, contrappuntata dalla sua stessa caducità. Senza voler ricorrere al sempiterno concetto di mono no aware, fin troppo abusato per leggere le opere nipponiche, è indubbio che si percepisca costantemente un senso di perdita accompagnato da una soffusa malinconia. Si pensi alla prima frase imparata da Nozomi; le sue prime parole sono già un atto di separazione (dal mondo a cui non appartiene, dagli uomini che non può comprendere) poiché quell'itterasshai è la formula che i giapponesi usano per accomiatarsi da qualcuno che sta uscendo di casa. Ma Air Doll è anche un'opera complessa con più chiavi di lettura. Una di queste può essere sicuramente il parallelismo tra la bambola gonfiabile e lo stereotipo della moglie giapponese, ridotta a mero oggetto utile solo a espletare le proprie pulsioni sessuali. Così come il rapporto schiavo-padrone che vige tra Nozomi e il suo proprietario si può leggere come riflesso di quel maschilismo che vuole la donna sottomessa e indulgente, pronta a subire tutto senza lamentarsi mai, una figura che si trova tutt'ora in tanta letteratura nipponica (e film, e manga,...).
La riuscita della pellicola è debitrice anche di un comparto tecnico molto curato e organico: la regia di Koreeda si muove tra morbidissimi movimenti di macchina, contemplativi piani-sequenza e attenzione ai dettagli, la fotografia di Mark Lee Ping-bin, collaboratore, tra l'altro, di Wong Kar-wai per In the mood for love, fa risaltare con i suoi toni tenui l'impalpabilità dell'ambiente urbano e della vita della protagonista stessa (anche letteralmente: essendo “vuota” quando si guarda in controluce traspare). Infine il sonoro, curato dai World's End Girlfriend, i quali, con un azzeccatissimo misto di classica, elettronica e post-rock, contribuiscono a rendere ancora più sognante l'atmosfera del racconto.
Air Doll è una parabola surreale (un tono caro a Koreeda, basti pensare a After Life [1998], interamente ambientato in una sorta di “limbo” ultraterreno), una fiaba moderna senza lieto fine, la cui morale, come in tutte le fiabe, è tanto banale quanto necessaria e universale: nessuno uomo è fatto per vivere da solo. La grandezza di un regista però sta nell'enunciare questi concetti sempre validi in una forma personale e originale, e non si può dire che Koreeda non lo faccia, con la felicissima intuizione della bambola che ha bisogno di essere riempita d'aria per vivere. Il regista tratteggia così l'ennesima riflessione sull'assenza, l'assenza di qualcuno che ci riempia, proprio come l'aria fa con la protagonista, altrimenti ci si affloscerà inesorabilmente fino a scomparire. Questo bisogno assume connotati tragici nel finale, nella straordinaria scena di “sesso” tra Nozomi e il ragazzo di cui è innamorata; un evento che la porta a capire la sua diversità (mestamente riassumibile nel fatto che gli uomini sono rifiuti combustibili [moeru gomi], le bambole non combustibili [moenai gomi]), sperimentare il senso di perdita e affrontarne le conseguenze. Koreeda, però, non è un regista così cinico da avere nella sua tavolozza solo il nero - pur spingendo anche nel finale, visivamente potente, su toni cupi - e riesce a usare colori vivaci anche sulle tele più buie (basti pensare a quella tragica storia “di formazione” che è Daremo shiranai [Nessuno lo sa, 2004]), regalando allo spettatore la speranza, o almeno quel barlume necessario per andare avanti. Se infatti Nozomi dispera della sua condizione di “(pro/)sostituta”, il regista, con il suo tratto lieve, riesce invece a far emergere l'unicità insita in ciascuno di noi: siamo tutti “pezzi unici” pur essendo nati uguali allo stesso modo. Un concetto palesato, in maniera forse anche troppo evidente, nell'incontro di Nozomi con il suo “dio”, il suo creatore. E dunque la parabola triste di una bambola gonfiabile diventa inno alla vita, degna di essere vissuta in ogni sua forma.
Il sacrificio quasi “religioso” della protagonista diventa simbolicamente (i semi che fluttuano in aria nel finale) monito per tutti quei personaggi di contorno sui quali Koreeda si sofferma brevemente, quando questi sfiorano la vita di Nozomi, come a creare delle piccole istantanee della solitudine metropolitana. Come si diceva inizialmente, infatti, il regista usa lo sguardo candido della protagonista per far risaltare il profondo isolamento nel quale vivono molti giapponesi, un tema predominante nella cinematografia nipponica degli ultimi anni (si pensi a tutta l'opera di Tsukamoto Shin'ya, che eppure è regista dallo stile diametralmente opposto), evidentemente molto sentito nel paese delle megalopoli e dei conglomerati urbani (un quarto dei giapponesi vive nell'area di Tokyo!). Una solitudine esemplificata intelligentemente da Koreeda nell'uso sempre più massiccio dei DVD (e supporti simili) a sfavore dei cinema. Le persone sono sempre più portate ad una fruizione domestica e solitaria dei film, rifuggendo i cinema in quanto luoghi d'aggregazione. Il videonoleggio diviene quindi epicentro di tante solitudini che si sfiorano senza mai incontrarsi, andando a formare progressivamente un mosaico di figure di contorno emarginate e sole (il vecchio abbandonato, lo hikikomori, la donna che non accetta il passare del tempo, ecc...). Il regista le riunisce collettivamente in un vibrante e significativo montaggio finale; non per mostrare quello che sarebbe un poco realistico cambiamento, ma per donare uno squarcio di luce a queste esistenze che si credevano abbandonate e non sapevano, o non volevano sapere, di avere solo bisogno di un po' d'aria per riempirsi di Vita.