Il film, ambientato a Kumano, trae spunto da un reale fatto di cronaca avvenuto pochi anni prima: un uomo si era tolto la vita dopo aver sterminato la sua famiglia. Ciò che aveva colpito Yanagimachi leggendo del gesto folle in un articoletto di giornale, era il fatto che il duplice omicidio fosse stato effettuato apparentemente senza movente. Riflettendo sul motivo di tale tragedia, il regista era giunto alla conclusione che la follia dell’uomo fosse stata causata da una sua particolare relazione con la Natura, pregna dall’antichità di elementi animistici, e che andasse quindi esplorata in termini religiosi, non psicologici. Era del resto sicuro che la modernizzazione, con città e industrie che fagocitano spazio, insieme all’omologazione culturale contemporanea, portassero ineluttabilmente alla creazione di queste aberrazioni. Il regista quindi discusse con Nakagami sulle possibilità di rendere con il respiro di un lungometraggio quel breve resoconto di poche righe, così da offrire un affresco sulla condizione umana.
"Quando ho chiesto a Nakagami Kenji di scrivere una sceneggiatura per il mio film, sapevo che la storia si sarebbe svolta in questa regione. L’attaccamento che ha per questi luoghi è evidente anche nella sua opera letteraria. “Terra degli dei” è un’espressione che conviene bene alla provincia di Kumano, dove si trovano luoghi di culto tra i più antichi." [1]
Nell’idea condivisa dai due autori, la “Terra degli dei” è dotata di uno "spirito della terra", testimone fondamentale della ciclicità dell’esistenza, di questa incessante riproposizione della storia dell’umanità. I personaggi attraversano un percorso comune per poi scomparire, talvolta lasciando un segno (spesso negativo) del loro passaggio. Secondo lo Shintoismo, gli dei risiedono nelle pietre, negli alberi, nelle cascate, nelle varie manifestazioni della Natura: se la modernizzazione spazza via questi luoghi, allora il gesto dell’omicida non può essere considerato che un eroico tentativo di conservare nella memoria gli ideali del passato.
La scelta del titolo, tuttavia, comporta un primo momento di contrasto tra i due:
"Nakagami aveva deciso per La festa della foresta e del mare (Mori to umi no shukusai), ma questo titolo era troppo simile a quello di un romanzo di Takeda Taijun (Mori to mizuumi no matsuri), e del resto non mi sembrava sufficientemente orecchiabile come titolo di un film. Io avevo pensato a qualcosa tipo La festa delle luci (Otomatsuri), un festival che ancora oggi si tiene in prossimità della “Grotta del cielo” (Ama no iwato), la grotta più nota ai giapponesi perché, secondo l’antica mitologia, è quella dove la dea Amaterasu, sconvolta dalle brutture del mondo, si era rifugiata. Poi, però, visto che nel finale c’era la festa dei fuochi, abbiamo deciso di optare per Himatsuri." [2]
I due autori scelgono come personaggio principale un burakumin, Tatsuo, che lavora come taglialegna e vive in un piccolo villaggio marittimo circondato da monti. La scelta di destinarlo a questa professione serve per rappresentare il rapporto che l’uomo intesse con le divinità degli alberi e della montagna, oltre che a rendere l’idea che i tronchi tagliati rappresentino l’evirazione di Tatsuo, grazie alla quale potrà diventare egli stesso un dio[3]. Tatsuo lavora con un gruppo di uomini, ma è in particolare con il più giovane tra questi, Ryota, che instaura una relazione complice, quasi ne fosse il maestro in vista della sua “successione”.
Deuteragonista è comunque la natura. Il setting è quanto mai fondamentale: mare e monti rappresentano la peculiarità geografica dell’arcipelago e rendono allo stesso tempo l’idea di una complementarietà e di un contrasto. Nel film, la natura della zona montana è pressocché incontaminata, mentre il villaggio è in corso di trasformazione, soprattutto in funzione della costruzione di un parco marino che si suppone contribuirà al benessere economico dei suoi abitanti.
Yanagimachi assegna la fotografia a Tamura Masaki, l’operatore che meglio di altri è in grado di rendere fondamentale la presenza della natura. La sua lunga esperienza nell’ambito del documentario gli permette di coglierne le manifestazioni vitali e il tempo dell’esistenza delle sue singole componenti. A Tamura Yanagimachi chiede di accentuare la presenza del verde, considerato come l’essenza dei giapponesi immersi nell’ambiente, e di riprendere il mare e i monti come se si trattasse di spiriti femminili intorno al protagonista maschile[4]. Le riprese sono quindi articolate tra campi lunghi, in grado di cogliere l’imponenza e la possenza della natura, e rapide e inaspettate incursioni nei suoi luoghi più nascosti, esplorati dalla macchina da presa in modo quasi voyeuristico. Inoltre, le immagini della natura vengono esplorate verticalmente, a differenza delle riprese sugli esseri umani, effettuate con movimenti di macchina laterali.
Tatsuo si trasforma per gradi adattandosi alla componente divina dell’ambiente. Per riuscirci, incessantemente profana la natura così da domarla — per esempio quando si tuffa nelle sue acque sacre e uccide delle scimmie (animali eletti, in virtù anche del loro aspetto antropomorfo) —, ma allo stesso tempo le dedica dei rituali che ne sanciscono la sacralità: tra i tanti esempi, asperge le sue braccia con il sangue di un uccello, o abbraccia l’albero sacro in una sorta di lungo amplesso per placare una furiosa tempesta.
Come ulteriore elemento di matrice mitologica, Nakagami e Yanagimachi affidano a un personaggio femminile il ruolo di traghettare Tatsuo verso la catarsi, quindi in direzione della strage finale. Si tratta di una donna chiamata Kimiko (nome che foneticamente evoca quello della mitica principessa Himiko), che ritorna al villaggio a distanza di anni giungendo via mare a bordo di una barca. Kimiko è in grado di comunicare con la natura, poiché alle sue azioni, in particolare i reiterati rapporti sessuali che intrattiene con Tatsuo, con Ryota e con un vecchio uomo, corrispondono i movimenti improvvisi di una pianta, di un ramo, di un elemento intorno a lei. E’ lei, con Tatsuo, la protagonista dell’unica “incursione nel passato” del film, un flashback che li rivede giovani nel corso dell’inaugurazione della linea ferroviaria Kisei Honsen — il treno indica il passaggio verso la modernizzazione, oltre che traghetto ideale per i due personaggi verso l’età adulta[5]. Kimiko intraprederà nuovamente il suo viaggio via mare quando Tatsuo sarà ormai già del tutto trasformato, poco prima che stermini la sua famiglia. Il mare che la sua barca solca è quanto mai un segno dell’assenza di confini, un varco dischiuso tra il mondo terreno e profano e quello divino e sacro: Tatsuo è dunque pronto a diventare a sua volta una divinità.
Il rito finale consiste ovviamente nello sterminio, che avviene in piena luce[6] e segue quello della “festa dei fuochi” celebrato dall’interno villaggio (un matsuri realmente celebrato dall’antichità a Wakayama). Gli omicidi hanno luogo in un clima di calma struggente, senza alcuna violenza, al punto che i figli dell’uomo muoiono sorridendo, credendo che si tratti di un gioco. Con il loro sangue Tatsuo ripete l’abluzione che aveva effettuato con l’uccello, aspergendosi le braccia, quindi si prepara all’ultimo colpo che dirige verso se stesso. Quando tutto è finito, l’occhio della macchina da presa si addentra nell’abitazione muovendosi sinuosa tra i corpi, alla ricerca del cadavere di Tatsuo. Per rappresentare il suicidio dell’uomo, Yanagimachi ha sostenuto di essersi ispirato a Mishima, leggendo nel suo seppuku un modo non nostalgico ma “eroico” per sottrarsi all’inevitabile incedere del progresso e alle sue aberrazioni.
Il film si arricchisce di infiniti particolari, monadi di sensi più ampi, e di un vasto numero di personaggi che animano le scene urbane. Si riconosce in ogni descrizione lo stretto lavoro intellettuale dei due autori, oltre che la profonda conoscenza della cultura di cui segnalano il declino. Non sempre, tuttavia, Nakagami e Yanagimachi sono in accordo. In varie occasioni i due autori operano scelte differenti e si ritrovano in contrasto, come racconta lo stesso Yanagimachi spiegando il perché della scelta di un simbolo fallico nelle trappole che gli uomini disseminano nella foresta:
"Questo è stato uno dei motivi di dissidio con Nakagami alla fine del film. Lui voleva utilizzare dei semi rossi come simbolo di una vagina. Ma in termini cinematografici questa scelta non sarebbe stata di effetto, a meno che non avessi utilizzato dei primi piani. In un romanzo ci si può soffermare anche a lungo nelle descrizioni, ma in un film devi riuscire a rendere un senso in un istante, e per questo ho deciso di utilizzare dei simboli fallici. La trappola era il punto di confine e di collisione tra l’essere umano e la divinità, oltre che tra l’uomo e la donna. Ma ho cambiato dai semi alla banana senza consultare Nakagami, e per questo lui si è arrabbiato e ha scritto in un articolo che io non avevo capito nulla. Del resto, per me era importante poter passare alternativamente dall’uomo alla donna, mentre per Nakagami l’immagine femminile doveva prevalere. (…) Prendiamo per esempio gli alberi: per Nakagami, che era nuovo nel cinema, visto che questa era la sua prima sceneggiatura, non avevano figurativamente lo stesso valore che gli conferivo io, cioè come immagini falliche. Le differenze tra la letteratura e il cinema affiorano inevitabilmente nell’immaginario offerto da un film." [7]
[1] Josiane Pinon, Entretien avec Mitsuo Yanagimachi, “Positif”, n. 300, feb. 1986, citato in Novielli, Girola, Fornara, Yanagimachi Mitsuo, cit., pp. 89-90
[2] Novielli, Girola, Fornara, Yanagimachi Mitsuo, cit., p. 37
[3] A quest’idea si lega anche la scelta del nome Tatsuo, poiché evoca il verbo tatsu, cioè avere un’erezione.
[4] Del resto, la “Dea della Natura” (Shizenshin) è considerata una presenza femminile e passionale, in grado di scagliarsi con violenza sugli uomini, ma anche di rivelarsi protettiva e materna.
[5] “E’ una cultura antica, quella del viaggio, come ci ricorda il poeta BashØ, ma non sempre la sorte è positiva come nel suo caso. A me interessano quegli individui che, per quanto ci provino, proprio non ci riescono a entrare nella società, non hanno mai successo, non riescono a imporre una propria posizione radicale. A vederla in termini buddisti, a questa gente non resta che percorrere in tondo i confini della società senza mai entrarvi, eseguire un viaggio forzato nella continua speranza di trovare un varco attraverso cui inserirvisi.” Intervista a Yanagimachi in Novielli, Girola, Fornara, Yanagimachi Mitsuo, cit., pp. 31-32
[6] Yanagimachi si è ispirato a Le déjeuner sur l’herbe di Jean Renoir, utilizzando per la prima volta lampade HMI ed evitando di girare in giorni realmente assolati, così da rendere i contorni e i colori dei corpi particolarmente nitidi e innaturali.
[7] Novielli, Girola, Fornara, Yanagimachi Mitsuo, cit., pp. 39-40
Fonte
Estratto da "IL CINEMA INCONTRA LA LETTERATURA: IL CASO HIMATSURI" in I dieci colori dell'eleganza, Roma, Aracne, 2013
Articolo tratto da Maria Roberta Novielli, “Himatsuri - La festa dei fuochi”, EIGA Concept, 22/11/2014. <link novielli.wixsite.com/eiga-concept/single-post/2014/11/22/himatsuri-la-festa-dei-fuochi-yanagimachi-mitsuo-1985>https://novielli.wixsite.com/eiga-concept/single-post/2014/11/22/himatsuri-la-festa-dei-fuochi-yanagimachi-mitsuo-1985</link>,