Asiamedia

2002 Il cinema asiatico in scena al Far East Film Festival

Cina Corea del Sud Giappone Hong Kong Taiwan

Nel corso della scorsa edizione del Far East Film Festival di Udine, svoltosi dal 19 al 27 Aprile 2002, l'ampia selezione di film si è concentrata sul cinema popolare: sono stati presentati i maggiori successi al botteghino dei rispettivi paesi, nonché pellicole vincitrici di premi in manifestazioni e festival asiatici

L'IRRIDUCIBILE DIFFERENZA Tendenze del cinema popolare estremo-orientale contemporaneo.

Questo scritto si propone di fornire una breve panoramica generale delle cinematografie contemporanee cinese, giapponese, hongkonghese e sud-coreana. Fonte d'osservazione privilegiata è stato il Far East Film Festival di Udine, svoltosi dal 19 al 27 Aprile 2002. L'ampia selezione di film si è concentrata sul cinema popolare: sono stati presentati i maggiori successi al botteghino dei rispettivi paesi, nonché pellicole vincitrici di premi in manifestazioni e festival asiatici. Non erano presenti le opere dei registi più amati dai festival e più conosciuti dal pubblico occidentale. Hou Hsiao-hsien, Imamura Shōhei e Zhang Yimou sono invitati a Cannes o Venezia, e le loro opere d'altronde sono spesso dedicate ad una ristretta cerchia di cinefili.
 

Il distinguo tra le opere per il pubblico locale e quelle pensate per la distribuzione in Occidente è un complesso problema che investe tanto questioni di politica, economia e censura, quanto di ricezione culturale, antropologia e sociologia delle arti. Rey Chow già stigmatizzava in un'acuta analisi come i registi della quinta generazione fornissero non tanto un'immagine fedele della cultura cinese, quanto piuttosto una visione già passata attraverso i filtri dell'etnologia, in altre parole un'immagine estetizzante, manipolata per rappresentare una immaginaria specificità culturale tradizionale. La tendenza di questi registi corrisponderebbe all'orientalismo occidentale, prodotto del mondo post-coloniale. Il film sarebbe dunque veicolo di valori estetici e morali preconfezionati che non necessariamente corrispondono alle reali specificità culturali di un paese, ma che è comodo esportare. L'occidente è in questo modo rassicurato nel riconfermare delle immagini pregiudiziali, mentre i registi orientali trovano mercati affamati di prodotti esotici.

Le stesse critiche mosse ai cineasti cinesi vennero avanzate negli anni Cinquanta dai critici giapponesi alle opere di Kurosawa che riscuotevano ampi consensi in occidente. Esula dall'interesse del presente articolo prendere posizione intorno ad un complesso problema su cui esiste ampia letteratura; basti però ricordare come spesso, e non solo in oriente, i film d'essai godano di scarso prestigio in patria, perché accusati di dare di quest'ultima una visione cupa e disonesta. È interessante infatti proprio a questo proposito il Giappone, la cui rinascita cinematografica degli ultimi anni è legata al cinema di genere, per natura stessa fortemente popolare. Da qui si constata una irriducibile, feconda e vivace alterità tra le cinematografie orientali e quelle occidentali. A Udine molti registi, spesso quelli più acclamati, introducevano il proprio film dicendo che non era stato fatto per un mercato internazionale, e dunque non sapevano se avrebbe incontrato i gusti del pubblico italiano.

I film d'essai soffrono sovente della contraddizione d'essere in qualche modo distillati della propria cultura, ma di venire prodotti da capitali esteri, e di essere dunque intesi come merci da esportare. I film popolari (commedie, gangster-movie, film fantastici), invece, svincolati dalla preoccupazione di elaborare una lingua accessibile a tutto il mondo, tendono dei fili di un testo la cui superficie è la fabula, la cui trama è una mescolanza vertiginosa di parodie formali dal cinema mondiale e di riferimenti alla propria cultura specifica che solo lo spettatore locale può cogliere. Possono dunque essere studiati, oltre la prima, necessaria fruizione come opere di entertainment, alla stregua di validi oggetti culturali suscettibili di rappresentare una sfumatura dell'anima dei loro autori e del loro paese natale. Il presente testo si legga soprattutto come inteso a dare linee indicative delle tendenze del cinema in Asia, ma anche come atto d'amore (reminiscenza di lezioni tenute da Jean Duchet) per un cinema che sa emozionare proprio per la sua diversità, che dà la giustificata sensazione di trovarsi in un'altra longitudine, governati da un differente fuso orario.

Hong Kong
Mi sembra opportuno iniziare con Hong Kong perché da qui proviene buona parte dei film scelti per il Festival (ben diciotto), ed anche per il carattere meticcio che da sempre ha avuto la cinematografia dell'ex-colonia britannica, luogo di confine e di transito per eccellenza, crocevia di culture ed influenze. Il genere più popolare è la commedia, in tutte le sue variazioni; essa è luogo di parodia (nell'accezione di Bachtin), e chiaro esempio della specificità del cinema hongkonghese, della sua ipervelocità, dell'incessante rimescolamento dei generi, della sua confusa vitalità onnivora, al contempo predatrice e creatrice di forme. Due i registi più importanti: Joe Ma e Johnnie To. Il primo firma (con Mak Kai-kwong) Dummy Mummy, Without a Boy nel 2000, e da solo, l'anno seguente, Love Undercover, divertentissime commedie che vedono nel ruolo principale la star comica Miriam Yeung. Dummy narra la storia di una donna che, per non farsi licenziare, si inventa una gravidanza, da qui raffiche di gag. Love Undercover, ispirato alla saga de Una pallottola spuntata, è ancora più scatenato e folle, ha un ottimo senso del ritmo e dell'equilibrio, e perfino le trovate più grossolane finiscono per coinvolgere in una risata liberatoria. In continua ascesa, il team formato da attori e regista potrebbe diventare nel giro di pochi anni punto di riferimento del cinema di Hong Kong.

Già importanti e riconosciuti da pubblico e critica sono i registi Johnnie To e Wa Ka-fai; produttori e registi, essi sanno utilizzare i registri più disparati, e girare nell'arco di un anno, con gli stessi attori, un thriller cupo e una commedia farsesca. A quest'ultima categoria appartiene per esempio Love on a Diet, in cui le mega star Andy Lau e Sammi Cheung recitano per tutto il tempo rivestiti da un costume che li fa apparire enormemente grassi (ancora un prestito, dall'americano Amore a prima svista con Gwynet Paltrow). I due si innamorano l'uno dell'altra quando ancora debordano, per poi rincontrarsi alla fine dimagriti (dimezzati) e scoprirsi bellissimi. Il film, che parla dell'affetto che oltrepassa le (spesse) barriere della carne ed esalta l'automiglioramento grazie alla disciplina, è interessante anche perché vede due grandi divi abbandonare ogni preoccupazione relativa all'immagine per divertirsi e divertire senza tregua.

Ancor più interessante è Fat Choi Spirit, sempre per la firma dei medesimi registi. Il film narra le vicende dell'onnipresente Andy Lau, qui nei panni del "Guerriero del Mahjong", che, attorniato da una fidanzata pazza, una madre affetta da un morbo di Alzhaimer estremamente selettivo (una delle poche occasioni in cui ci si prende gioco della madre) e una corte di accoliti più o meno sgangherati, dà battaglia ad un gruppo di loschi individui a colpi di arguzia e fortuna. Dal punto di vista della regia il film è un distillato parodico, mostro di Frankenstein perfettamente funzionante. I "duelli" sulla spiaggia rimandano alla saga di Once Upon a Time in China (Tsui Hark, 1991) ma, al posto dei guerrieri che esercitano le arti marziali, ora ci sono innumerevoli tavolini; gli sfidanti estraggono le loro carte vincenti con il commento sonoro di Morricone, richiamo esplicito ai film di Sergio Leone; la mdp coreografa dei balletti un tempo riservati agli eroi solitari di John Woo, mentre ora a battersi sono casalinghe in bigodini.

A proposito delle stratificazioni di senso ottenute tramite una vorticosa alternanza di tecniche e rimandi cinefili, tanto locali quanto internazionali, ricordo il divertentissimo Shaolin Soccer (non presente a Udine) in cui il pluripremiato regista Stephen Chiau racconta la vicenda di una scalcinata squadra di calcio formata da ex studenti, ora falliti, del celebre tempio Shaolin. Sapranno usare la loro maestria nelle arti marziali per vincere a calcio. Il film è un mosaico di citazioni, tecniche e stili: il riferimento più evidente sono gli anime sportivi, primo tra tutti Holly e Benji, ma è grazie a tecniche digitali di recente importazione dagli Stati Uniti (Matrix in primis) che queste battaglie avvengono con insospettabile spettacolarità. Ancora una volta le scene comiche sono girate come dei moderni wuxiapian, quasi a prendersi gioco in maniera irriverente di film come Tigre e dragone (Ang Lee, 2000) che tentavano, su un registro più serio, di fondere tematiche cinesi a tecniche americane. Altro pastiche parodico piuttosto ben riuscito è You Shoot, I Shoot in cui un killer (il cui modello è Alain Delon in Le samouraï di Melville, 1967) assolda un aspirante regista (appassionato di Scorsese) affinché riprenda le sue gesta assassine.

Se la rielaborazione parodica impera nelle commedie, non sono da meno i gangster movie. Per sopravvivere alla recente crisi, anche il genere più popolare di Hong Kong deve svecchiarsi riformulando a suo modo le teorie postmoderne (o transnazionali). Il serissimo Fulltime Killer (Johnnie To e Wai Ka-fai, 2001) affianca ad una trama tradizionale (due killer fascinosi –Andy Lau e Sorimachi Takashi- lottano per la supremazia) una ridda di citazioni cinematografiche. Gli eroi rischiano la vita in una serie di azioni mozzafiato e gunfight anfetaminici, sempre però interpretando consapevolmente una parte, da Leon al Samouraï (ancora Delon!), oppure i locali Chow Yun-fat e Jackie Chan, compiendo un'operazione di auto-mitologizzazione. Le citazioni esplicite ne fanno un luogo significativo per esegesi e fenomenologie del global cinema, ma al contempo non viene trascurato il potere affabulatorio del cinema, e Johnnie To costruisce un'opera di forte impatto. Inoltre, questo film dimostra l'estrema flessibilità di un'equipe capace di confezionare ottimi film violenti e drammatici accanto a spassose commedie, dimostrandosi refrattaria ad ogni gabbia creativa e capace di usare con immaginazione i limiti imposti dalla codificazione dei generi.

Un altro regista interessante, ma più classico, è Patrick Leung, cui il Festival dedica una completa retrospettiva. Allevato alla scuola di John Woo, i temi ricorrenti della sua produzione drammatica sono il pugilato, la violenza, l'attrazione omoerotica tra i lottatori, le donne che provano gusto segreto nel mandare a morte i propri uomini, spesso fratelli o comunque imparentati. Le sue commedie si incentrano invece sul feticismo per i reggiseni ed il tema del travestitismo. Hong Kong continua infine a produrre commedie per i più giovani, storie agrodolci sorrette da un invadente commento musicale, che spesso è l'ultima hit della star di turno. Un discorso interessante si può fare sull'horror, genere da sempre molto apprezzato ad Hong Kong. Al Festival sono stati presentati i due grandi successi della passata stagione, diversissimi tra loro. Visible Secret di Ann Hui è un polpettone che sembra raccogliere tutte le idiosincrasie dell'autrice in un colpo solo, confondendo lo spettatore. Tutto ruota attorno ad una testa tagliata ed al fantasma relativo, che solo la bella Shu Qi (star taiwanese emergente, già protagonista di Millenium Mambo di Hou Hsiao-hsien) può vedere. La ragazza, proveniente dalla Cina comunista, è stata venduta ad Hong Kong, il che ricorda alcune ossessioni tematiche dell'autrice. Vano però sarebbe ogni tentativo di profonda esegesi, poiché tutto il film, e l'attenzione dello spettatore, sono immersi in una anestetizzante luce verdognola che intorbida una storia già farraginosa. L'incoerenza quasi astratta rispecchia, anche se in modo artritico, una certa tendenza del cinema di Hong Kong alla mescolanza dei generi, ad una talvolta apparente ingenuità e alla fusione di più registri in uno stesso testo.

Horror Hotline (Soi Cheung, 2001) è invece una gradita sorpresa. In seguito ad una telefonata in diretta durante un programma radiofonico, un gruppo di giornalisti indaga su una vicenda misteriosa accaduta anni prima; i morti cominciano ad accumularsi. Si tratta anche qui di un gioco di citazioni da Blair Wich Project (l'estetica del buio, l'ansimare alla luce d'una torcia elettrica) a David Lynch (la telefonata "impossibile" ricevuta da un morto), fino alla saga di X-Files (misteri insoluti, torce elettriche, un uomo ed una donna attraenti che indagano insieme). Soprattutto, sembra scaturito dal progetto di alcuni registi giapponesi capitanati da Kurosawa Kiyoshi e Nakata Hideo di rivoluzionare il cinema dell'orrore con un'estetica del non visibile, dell'unheimlich, degli oggetti casalinghi che diventano micidiali macchine per uccidere (Hitchcock) in luogo dell'abuso di effetti speciali e cascate di sangue. Certamente molto pensato, resta il fatto che Horror Hotline ha fatto gridare di gusto tanto il pubblico orientale quanto quello italiano.

Cina 
Dopo questa nota felice ci tocca affrontare un triste impegno. Mentre la produzione di Hong Kong appare vivace e inventiva nonostante la crisi, per trovare un film interessante proveniente dalla Cina popolare si deve attendere il festival di Cannes, cioè i film indipendenti proibiti (o comunque fortemente osteggiati) dal partito. La vetrina udinese, che ospita invece film di ampio successo e opere ufficialmente promosse dai singoli paesi, conferma la tendenza della Cina a produrre film pedagogici, dimostrativi, con un messaggio propagandistico appena celato dietro una leggerissima patina estetizzante, il che risulta a maggior ragione irritante. Basta fare un paragone tra due sanguinose epiche belliche proposte di recente in occidente. La prima è Devil at the Doorstep (Jiang Wen, 2000), presentato al Festival di Cannes e immediatamente bandito in Cina. Il film, che pur presenta un forte messaggio pacifista, è violentissimo, rumoroso; la regia virtuosistica, che ricorda a tratti Kusturica per la continua presenza di animali sulla scena, il grandangolo esasperato, e tutto l'armamentario popolare e carnevalesco, ben veicola il caos della guerra così come l'ignoranza dei contadini che vi si trovano in mezzo e sono costretti a seguirne le regole. La conclusione del film è ambientata alla fine della guerra: il protagonista, interpretato dallo stesso Jiang Wen, furioso per la distruzione del suo villaggio, massacra senza pietà dei giapponesi oramai imbelli.

La stessa conclusione di Purple Sunset (Feng Xiaoning, 2001), diffuso orgogliosamente da Pechino nel suo rutilante cinemascope. Mentre Devil non sembra prendere posizione, e si schiera decisamente contro la follia universale della guerra, il secondo si propone di essere un'analisi del rapporto tra i popoli, e fornisce in particolare dei cinesi un'immagine edulcorata e fastidiosamente innocente. Nella Cina del nord, alla fine del conflitto, si aggira un improbabile terzetto: un contadino cinese (silenzioso, la pelle brunita, forte e leale), una soldatessa russa (in minigonna e stivali, bionda e maggiorata) nonché una studentessa giapponese (in uniforme scolastica, e spesso legata da robuste corde). I tre finiscono per comprendersi a vicenda e stringere una solida amicizia tra massacri cruenti e splendidi paesaggi. Ciò non toglie che la piccola venga uccisa (dai suoi connazionali) alla fine del film e che il contadino, che ha imparato a sparare, si lanci sul campo di nemici e compia una strage. La retorica del film è palese, i violini accompagnano l'ondeggiare delle foglie degli alberi che lo spettatore dovrebbe identificare con il concetto dell'impermanenza, così come le reiterate immagini dei minuscoli corpi nell'immensità della natura dovrebbero alludere alla piccolezza dell'uomo, e forse suggerire la natura come pacificatrice, indifferente alle vicende umane.

Il senso di sdegno che suscita Purple Sunset (che inoltre calca la mano con la violenza e la spettacolarità delle scene d'azione) resta insuperato, ma alcuni tratti di questo film si possono ritrovare in Escort (Qi Xing, 2000). Il film narra le vicende di due poliziotti e del loro prigioniero errabondi nelle aride regioni del nord est, diretti a Pechino. Anche qui si scopre che pure i delinquenti hanno un'anima, che la natura è possente e talmente indifferente ai personaggi buffi che vi si agitano da rendere indifferente pure lo spettatore. Non bisogna spingersi sempre nel deserto però per riscoprire i valori, tanto confuciani quanto del partito, di pacificazione sociale e di sacrificio personale. La linea guida dello stato è evidentemente di rifuggire la propaganda esplicita, ma di proporre comunque caratteri esemplari e storie e lieto fine nella cornice sorridente della moderna città cinese che si appresta ad accogliere i giochi olimpici. What a Snowy Day (Meng Qi, 2001, opera prima, annunciata senza sorprese come il primo film indipendente a passare le maglie della censura) descrive le vicende di una famiglia moderna, le difficoltà economiche e le speranze riposte nell'educazione del figlio. Tra liti di condominio, minacce di licenziamento ed una causa intentata contro la compagnia edilizia che costruisce un elefantiaco palazzone davanti alle umili dimore dei teneri protagonisti, il vincitore morale del film è il padre che si autodenuncia per un irrisorio tentativo di corruzione. La scena finale vede la famiglia giocare felice a palle di neve.

Molto più delicato, ma sempre chiaramente allineato, è One Hundred (2001), esordio alla regia di Teng Huatao: i due giovani protagonisti sognano di diventare poliziotti. Il film contiene alcune scene quasi oniriche, e descrive con delicatezza la quotidianità dei due ragazzi, non mancando di rilevare come il fascino che le uniformi esercitano su di loro provenga da modelli estetici più che etici. Da notare in particolar modo l'ultimo, lunghissimo piano sequenza, della durata di quasi cinque minuti: i due inseguono un ladro, e la mdp segue la loro corsa a perdifiato fin dentro le rosse mura della città proibita. Il ladro esce presto dal quadro, e restano solo i ragazzi, nella loro corsa ostinata; il loro obiettivo è volutamente dimenticato dal regista, che evidenzia così solo la forza, la determinazione, la giovinezza incorrotta dei protagonisti che non smettono di correre. Metafora semplice (inseguire i propri sogni/ideali), questa sequenza virtuosa resta uno dei pochi momenti memorabili del panorama cinese. Quest'ultimo è prodigo di storie d'amore nelle loro diverse accezioni.

La più grande delusione viene da Huo Jianqi, già regista del noto Postmen in the Mountains (1998) e collaboratore di Tian Zhuangzhuang. Love of Blueness (2000; tratto da un romanzo di Fang Fang) racconta la storia d'amore tra un poliziotto e un'attrice di teatro. Quello che doveva essere un noir diventa a poco a poco un melò inconcludente e farraginoso. Inutile riferire la trama, che stravolge per altro il romanzo. Basti fare presente alcuni punti ricorrenti nella cinematografia cinese popolare degli ultimi anni: innanzi tutto il personaggio del poliziotto che, al contrario dei suoi colleghi hongkonghesi e coreani, è onesto e buono, ha ereditato a malincuore il lavoro dal padre ma vi si adegua per pietà filiale diventando un modello della società. Parimenti il colpevole è esemplare e trova modo di redimersi, costituendosi spontaneamente alla polizia, riconfermando in tal modo l'ordine sociale. Infine, il paesaggio fa le veci di un personaggio. La descrizione minuziosa di una città, della natura che la circonda e degli uomini in essa è diventato carattere distintivo di alcuni registi capaci (in primis i veterani Zhang Yimou e Chen Kaige) ed ha provocato a metà degli anni ottanta una rivoluzione interna al cinema cinese (nonché la rivalutazione della terra come radice e appartenenza, categoria irriducibile agli schemi del partito), mentre la sua variante commerciale è una patina di lusso che vende bene, ma resta pura retorica.

Di pura retorica è avvolto il preoccupante Spring Subway (2001); questa storia d'una coppia in crisi ben rappresenta un trend che prende inesorabilmente piede in Cina, ovvero l'introduzione nel cinema dell'estetica pubblicitaria. Il regista Zhang Yibai viene infatti dai videoclip e dalla pubblicità ed è autore di fortunatissime serie televisive (Carry Love Through; Be Happy). Il film, peraltro impreziosito dalla presenza di star (Geng Le, Xu Jinglei), ottiene grande successo in Cina, rappresentando una Pechino edulcorata, in cui i personaggi si muovono tra caffè occidentali e moderne architetture. Queste realtà esistono, ma sono appannaggio di una piccola parte della popolazione. Il tono enfatico e compiaciuto con cui sono descritte rende inquieti sul destino delle immagini che appaiono, mai così chiaramente come in questo film, destinate ad uniformarsi a livello globale in un tripudio di colori e di forme dal ritmo musicale ma che soprattutto risultano fredde ed anonime.

Giappone
Il Giappone conferma invece la rinnovata vitalità del suo cinema con una produzione eterogenea e sfaccettata. È oramai consolidato il ruolo nipponico tra i grandi produttori di cinema, a livello qualitativo e quantitativo. Negli ultimi anni, oltre alle opere di grandi maestri come Ōshima e Imamura, il Giappone ha visto una nuova onda di registi che hanno saputo raccogliere vasti consensi di pubblico in patria, nonché la consacrazione internazionale nel circuito dei festival (in primis Kitano). Questa rinascita non rimane (come in Cina, sinora) evidente solo a uno sparuto gruppo di cinefili, ma coinvolge un vasto pubblico. L'arbitraria linea che separa il cinema d'essai dal cinema popolare è valicata quotidianamente dai registi nipponici; il fatto più evidente è che questo periodo di estrema vitalità creativa vede il rifiorire massiccio del cinema di genere, luogo di restrizioni da eludere, colmo di potenzialità. Soprattutto colpisce come il cinema giapponese, a differenza di quello cinese, abbia smesso di preoccuparsi della ricerca di un'identità nazionale e culturale in cui sprofondava nell'immediato dopoguerra; la sua unicità è ormai data consapevolmente, anche se non direttamente.

Non mancano, naturalmente, triviali copie di modelli hollywoodiani: a Udine si è visto per esempio Transparent (del campione d'incassi Motohiro Katsuyuki, 2001), impareggiabile frullato di Truman Show (Peter Weir, 1998) e What women want (Nancy Meyers, 2000) che, anche a livello formale (mdp sempre mobile, invadente colonna sonora, montaggio dinamico, dolly e carrelli a volontà) rivela un'imbarazzante camaleontismo. Ma la maggior parte dei film è intrisa di spirito nazionale e peculiarità di rappresentazione affatto particolari. Perfetto esempio è Yin Yang Master (Takita Yojirō, 2001), tratto dal bestseller di Yumemakura Baku, il film giapponese non d'animazione di maggior successo della passata stagione. Yin Yang è inaspettatamente low tech, con un'estetica che ricorda ad un occhio occidentale Méliès per la fantasia trasognata delle ricercate scenografie e degli effetti speciali, estremamente teatrali e all'apparenza artigianali, eppure serissimi. Gli eroi non sudano mai, si combattono a colpi di sensualissime formule magiche, costruiscono trappole metafisiche per il nemico e rispettano il codice d'onore con grazia; è infine suggerito, con eleganza e decisione, il tema omoerotico, peraltro ricorrente nei film e nei manga giapponesi, che si fonde con il tema dell'amicizia virile, dell'alleanza e dell'onore.

La tradizionale dicotomia tra tradizione e modernità è naturalmente presente, ma in uno strato intimo della narrazione. All About Our House (Mitani Koki, 2001) è un'intelligente commedia (ispirata, dice il regista, da un'esperienza personale e da Billy Wilder) che tratta delle rivalità tra il padre della sposa, ingegnere incaricato di costruire la nuova casa, e un amico di lei, interior designer che per l'occasione ha disegnato il suo primo, ambizioso progetto architettonico. Le prospettive si ribaltano: si scoprirà infatti che paradossalmente il più anziano, pragmatico, è in fondo quello più incline ai compromessi con la modernità (materiali semplici, funzionali, anonimi), mentre il giovane ricerca con puntiglio di ricreare ambienti conformi alla tradizione estetica del suo paese, anche a costo di ricercare materiali e colori ormai desueti.

A Woman’s Work (opera seconda del giovane Ōtani Kentarō, 2001) mette in scena una coppia di sorelle entrambe professioniste di shōgi, gli scacchi giapponesi. Le loro vite sentimentali sono acutamente analizzate dal regista, che fonde uno stile alla Eric Rohmer (interni di famiglia, dialoghi fiume, mdp guizzante da un volto all'altro) a un genere amatissimo dai giapponesi, quello della commedia realistica (chiacchiere e nevrosi in famiglia), che parte da alcune opere di Naruse ed Ozu per arrivare alle telenovelas esportate oggi in tutto il sud-est asiatico.

Alle commedie di costume, ai film fantastici, agli anime raffinatissimi, ai film d'orrore, bisogna aggiungere i sempiterni film di yakuza. Il più rivoluzionario, prolifico ed irriverente regista giapponese, Miike Takashi, era presente ad Udine con la sua ultima opera, Ichi the Killer (del 2001; si tratta una coproduzione hongkonghese, sudcoreana e giapponese). Film violentissimo, grottesco e a tratti insostenibile, è un'orgia di torture ed invenzioni macabre, il tutto diretto con gusto barocco dell'eccesso e dell'invenzione coniugato alle tematiche dell'onore e dello spirito cavalleresco che anima le lotte tra gangster.

Era infine presente una selezione di pink eiga, film erotici. Questa categoria ricopre le opere più varie, spesso ripetitive ma talvolta sorprendenti per le innovazioni formali e tematiche. Ricordo soprattutto: l'inquietante Tokyo Erotica (Zeze Takahisa, 2001) ed il tenero Rustling in Bed (Taijiri Yūji, 1999). Si tratta di un genere in auge sin dagli anni ’60 che, a lungo sottovalutato dalla critica, è stato palestra di numerosi autori. Il budget irrisorio, il limite di 60 minuti per pellicola (per poterne proiettare due di seguito nelle sale), e la massima libertà all'interno di questi limiti (le scene di sesso sono ovviamente di consegna, ma non necessariamente preponderanti), hanno dato modo a molti registi di rivelare il proprio talento analizzando aspetti della società come il cambiamento del rapporto tra i sessi e l'incomunicabilità tra le giovani generazioni, ma anche di scatenarsi in rielaborazioni sexy di tematiche horror, fantascientifiche, psicanalitiche, surreali.

Corea
Grande sorpresa di quest'edizione del festival è il cinema sud-coreano. La Corea sta investendo enormemente nel suo cinema, tanto in prodotti locali quanto in coproduzioni con altri stati asiatici, soprattutto il Giappone. La straordinaria rinascita del cinema coreano è evidente non solo nella diffusione dei film all'estero, ma soprattutto nel gradimento del pubblico locale. Friend (Kwak Kyung-taek, 2001) ha battuto tutti i record d'incassi suscitando enorme scalpore. Il regista, diplomato a New York, tesse un intreccio semiautobiografico ricostruendo i suoi giorni d'infanzia a Pusan. Le strade dei compagni di giochi divergono quando alcuni di loro entrano nella mafia; amicizia virile, scelte esistenziali contrastate, la legge del più forte nei circoli mafiosi, l'amore. Questi temi vengono orchestrati magistralmente in un'opera estetizzante ma molto dura, valorizzata dai giochi di luce e colore nella fotografia che rivelano una grande perizia tecnica. Il film di gangster è declinato nella sua variante intimista e sofferente. Il pubblico locale si è immedesimato nella vicenda anche grazie alla nostalgica e accurata ricostruzione degli ambienti d'epoca ed alla rievocazione dei fatti storici che fanno da cornice alle vicende personali.

Pare dunque che la cinematografia coreana abbia in questi ultimi anni subito un rapidissimo processo di maturazione e i suoi prodotti abbiano digerito la lezione delle cinematografie dominanti negli ultimi decenni (hongkonghese, giapponese ed americana), per potere offrire ora dei risultati nuovi, personali, non rivoluzionari ma profondamente meditati. Si assiste già ad un ripensamento dei generi postmoderno e metafilmico. È soprattutto il genere dei gangster movie ad essere rielaborato con successo in nuove forme; si è detto sopra di una chiave di lettura intimista ed estetitzzante, categoria a larghe maglie in cui si può far entrare anche lo sconcertante Bad Guy, nuovo opus di Kim Ki-duk che si interroga sui rapporti di potere tra i due sessi con una ballata di inaudita violenza ambientata nel mondo della prostituzione (con accenni poetici).

Anche il filtro della commedia si è dimostrato fecondo: Guns and Talks (Jang Jin, 2001), enorme successo in patria, mette in scena quattro killer dal cuore tenero che discutono alla Tarantino, mentre in Hi! Dharma (esordio alla regia di Park Chul-kwan, 2001) una banda di gangster costretta alla fuga si rifugia in un monastero buddista; tra i monaci ed i mafiosi nasce prima una forte rivalità e pian piano il rispetto reciproco. La commedia gangsteristica raggiunge poi il suo culmine con l'inaspettato successo estivo di Kick the Moon (Kim Sang-jin, 2001). Sono pienamente sfruttate le tradizioni locali in termini di location, personaggi e ritmi (compresi molti riferimenti storici, soprattutto relativi alla divisione tra le due Coree). A livello formale è pur vero che ci si può imbattere in film come Last Witness, (epica poliziesca-storica-melodrammatica di Bae Chang-ho, 2001) che sembra diretta da un assistente alla regia di Ron Howard (perizia tecnica, spettacolarità, anonimato assoluto). La commedia tout court è altrettanto vivace: si veda il divertente e tenero My Sassy Girl, Kwak Jae-yong, 2001, che, interpretato da due stelle della canzone locale, ha riscosso enorme successo.

Ci sono infine opere inclassificabili come Public Enemy (Kang Woo-suk, 2002), lotta all'ultimo sangue tra un poliziotto disgustosamente cattivo ed un assassino seriale che comincia la sua carriera massacrando i suoi stessi genitori per soldi. È un film sempre in bilico tra la farsa pulp e la serietà drammatica (con accenni anche alle classi sociali in lotta), che lascia un senso di malessere appropriato alle circostanze. Non mancano poi opere che riecheggiano tematiche finora viste nelle produzioni giapponesi quali l'immigrazione (Failan, Song Hae-sung, 2001) che evidenziano una rinascita ideologica del cinema come rivelatore di piaghe sociali.

La nuova ondata di film horror asiatici, di ispirazione giapponese (che a sua volta riprende tematiche care a Cronenberg e Lynch), ha lasciato il segno anche in Corea dove vengono prodotti film di alto livello tecnico come Sorum dell'esordiente Yoom Jong-chan (2001), o il celebre Memento mori di Kim Tae-yong (2001). Un'ultima nota riguarda le coproduzioni (o più in generale le collaborazioni internazionali), cui il mercato coreano è sempre stato sensibile; e che rivestono un ruolo sempre più importante. Musa (Kim Sung-su, 2001) è un kolossal enormemente costoso (coproduzione coreana-cinese) che vede in azione un gruppo di guerrieri coreani nei deserti della Cina al tempo dei Ming che lottano per tornare a casa nonché per salvare la star cinese Zhang Ziyi. Grande spettacolo visivamente maestoso e dal ritmo frenetico, ben confezionato con splendida fotografia e musiche avvolgenti (del compositore giapponese Sagisu Shiro), questo film simboleggia una tendenza del cinema asiatico a radunare talenti di vari paesi per orchestrare una propria, interna mitologia lontana dall'influenza hollywoodiana, pur mimandone alcuni gigantismi.

Se allora talvolta i "distanti osservatori" occidentali si scoprono osservati, non è però raro accorgersi che le opere nate dal reciproco confronto sono ricche di suggestioni e innovazioni formali. Resta poi, nei casi più felici, la scoperta dell'originalità, la conferma della lontananza culturale, la rivelazione di uno sguardo inedito, la promessa di un punto di vista inaspettato che incarna, dei differenti paesi, l'irriducibile, feconda alterità.

Note
La selezione di Udine è stata scelta come fonte primaria per il suo carattere di sistematicità e sintesi. Punto d'osservazione integrativo sono state le sale cinematografiche di Taipei nel corso del 2001. Esse, spesso multisale, ipertrofici non-luogo (seguendo Marc Augé), ospitano fondamentalmente, oltre agli onnipresenti blockbuster hollywoodiani, un ventaglio dei film più popolari di tutta l'Asia (perfino qualche rara opera dalla Cina popolare). 

È altrettanto vero che le barriere che dividono arbitrariamente il cinema popolare dal cinema d'arte vanno scomparendo; costituisce un importante precedente l'Orso d'Oro a Miyazaki per il film d'animazione Il viaggio di Chihiro (campione d'incassi in Giappone della stagione 2001). 

Rey Chow, Primitive Passions: Visuality, Sexuality, Ethnography, and Contemporary Chinese Cinema, New York, Columbia University Press, 1994.

Si veda Edward Saïd, Orientalismo, Bollati e Boringhieri, Torino, 1991.

Si veda Maria Roberta Novielli, Storia del cinema giapponese, Marsilio, Venezia, 2001. A proposito della critica "orientalista" (vista in un'accezione fortemente negativa): Shiguehiko Hasumi, Ozu Yasujiro, Ed., Cahiers di cinéma, Paris, 1998.

Molte correnti di pensiero vedono la tradizione (confuciana soprattutto, poi buddista, taoista o shintoista) come l'eredità retrograda e conservatrice del passato di cui è necessario sbarazzarsi in favore dell'occidentalizzazione. Sono proprio queste implicazioni della modernità che spingono registi come Hou Hsiao-hsien a dirigere film nostalgici che recuperano e valorizzano i ritmi e le forme della cultura tradizionale.

Lo scrittore giapponese Tanizaki Junichirō, in Elogio dell'ombra (del 1933), scrive che il cinema giapponese differisce dal cinema americano per i giochi d'ombra, il valore dei contrasti. La fotografia, invenzione occidentale, si deve adeguare alla diversa bianchezza dell'epidermide giapponese; la mdp, ugualmente invenzione occidentale, deve adeguarsi all'ombra delle case tradizionali e alle fessure più strette e nere degli occhi di chi le abita. Il regista indiano Satyajit Ray (in Our Films, their Films, Londra, 1985) parla dell'inadeguatezza degli oggetti occidentali (automobili, pianoforti a coda...) nei film indiani. È colta del cinema la grande possibilità espressiva, ma anche una sorta d'incompatibilità tra i modelli di rappresentazione occidentale e l'oriente (la sua carne, i suoi oggetti, i suoi paesaggi). La ricerca dei registi asiatici, anche se non sempre esplicita e consapevole, è di adeguare il mezzo di per sé neutro della mdp alle specificità estetiche e spirituali del proprio popolo.

Quest'ultimo è stato il vincitore del premio del pubblico ad Udine.

Il film parla anche dell'inadeguatezza di un amore interrazziale, svelando un animo tradizionale: l'azione è ambientata in Giappone (visto come ipertecnologico regno di mezzo tra paradiso ed inferno); la ragazza è dapprima infatuata di un giapponese, ma alla fine trova l'amore vero nel compatriota hongkonghese.

"Fat Choi" è un augurio tradizionale cantonese per il capodanno. Si tratta di un film natalizio.

Popolarissimo gioco cinese vagamente rassomigliante agli scacchi. A Ravenna si svolgono annualmente dei tornei di appassionati italiani.

Linda Chiu-han Lai parla di "enigmatization", che viene così definita: "the selection and reorganisation of existing images from popular culture in order to distinctly select the local audience as a privileged hermeneutic community". "Film and Enigmatization", in Esther Yau (ed.), At Full Speed. Hong Kong Cinema in a Bordless Word, University of Minnesota Press, 2001, pag. 232.

Filmografia selezionata: Sixty Million Dollar Man (1995), Forbidden City Cop (1996), The God of Cookery (1997).

A proposito delle reciproche influenze tra Asia e Hollywood si veda: Charles Tesson et alii (ed.), L'Asie à Hollywood, Ed. Cahiers du cinéma, Paris, 2001.

In Shaolin Soccer la storia d'amore è pregnante: la povera ragazza è emigrata dal continente (si veda anche Visible Secret, Ann Hui, 2001) e dunque povera ed ingenua. Essa è sbeffeggiata senza ritegno: una risata liberatoria sul tema del difficile equilibrio tra Hong Kong e la Cina comunista.

The Mission, il precedente film di Johnnie To, è stato premiato in numerosi festival asiatici. To e Lau avevano già collaborano in un gangster movie, Running out of Time. Fulltime è tratto da un best seller di Edmund Pang.

Andy Lau porta la ragazza al cinema e dice che gli piacciono molto i trailer, che anche un film brutto può però avere un trailer bellissimo. Discetta anche sulla vita: "la vita dovrebbe essere eccitante come un trailer cinematografico".

Joe Ma, autore della commedia Love Undercover, è presente al festival anche con Funeral March (2001) dramma senza pietà in cui due amanti scoprono, prima uno poi l'altra, di essere affetti da tumore. Lui, impresario di pompe funebri, ne muore.

Soprattutto degno di nota è il violentissimo Born Wild, 2001; nonché la sgangherata commedia La brassiere, 2001.

Ann Hui, figura cardine dell'effimera Nouvelle Vague hongkonghese degli anni ottanta si era già cimentata con un horror "serio" (The Secret, 1979), poi uno demenziale che riscosse grande successo (The Spooky Bunch, 1980), per poi darsi al wuxiapian con risultati catastrofici (The Romance of Book and Sword, 1987) ed infine dedicarsi a film d'essai sul tema dell'immigrazione, della patria, della lontananza e della memoria (Song of Exile, 1990).

Presente anche con il meno convincente Diamond Hill (2000).

Titoli di riferimento sono, rispettivamente, Cure (1997) e la serie di Ring (1998).

Non mancano, ben inteso, registi di valore in Cina, ma non fanno un cinema popolare (di genere) che riscuote consensi in patria; essi sono al contrario prodotti e distribuiti all'estero, e si concentrano su opere intensamente connotate come "artistiche", impegnative. Si sono visti nell'ultima edizione di Cannes l'elegante, anche se al limite dell'astrattismo manierato, Unknown Pleasures di Jia Zhangke; l'intenso e fresco Cry Woman di Liu Bingjian; infine due progetti per metà francesi: Blue Gate Crossing di Chih-yen Yee fa parte della serie di film sulla Cina che cambia, in bilico tra tradizione e modernità (qui la delicata descrizione del passaggio di tre ragazzi all'età adulta attraverso i loro primi desideri sessuali) ed infine The Little Chinese Seamstress (il regista Dai Sijie è anche l'autore del fortunato romanzo originale, scritto nella sua lingua adottiva, il francese), rievocazione del periodo vissuto dall'autore nelle campagne durante la rivoluzione culturale.

Il regista, famoso attore e regista di In the Heat of the Sun (1994), è stato interdetto dal girare altri film per sette anni.

Il regista è considerato uno dei principali autori di epiche belliche nel suo paese, e dice di far parte di quella generazione che, come Zhang Yimou e Chen Kaige, non si sente pronta a palare del presente ma preferisce raccontare il passato del proprio paese. È autore, tra gli altri, di Red River Valley (1996), The Tale of the Sacred Mountain (1997).

L'eroe incapace di armare una pistola (in quanto prodotto occidentale) è un topos tanto della letteratura quanto del cinema. Ricordo qui solo Huang Feihong nel già citato Once Upon a Time in China.

A Udine si vede anche Marriage Certificate di Huang Jianxin (autore dello storico The Black Cannon Incident, 1985). Una coppia in crisi si rimette insieme in seguito al ricatto della figlia, tornando così a formare una famiglia modello. Si tratta di un lieto fine?

Se infatti molti film giapponesi continuano ad essere prodotti da investitori stranieri, in primis la Francia, negli ultimi anni il Giappone sta moltiplicando i progetti di coproduzioni con altri paesi asiatici, incoraggiato dai buoni risultati al botteghino.

Celebre regista di commedie, proviene dai pink eiga (di cui si dirà più oltre).

"Dopo che negli anni '70 e '80 si era assistito alla comparsa delle apparecchiature elettroniche e alle immagini realizzate al computer che avevano creato grandi aspettative per il futuro, la generazione cresciuta nell'era della tecnologia ricorda con nostalgia il low tech". Nakajima Takashi, "Il cinema sperimentale", in Giovanni Spagnoletti et al. (a cura di), Il cinema giapponese oggi, Torino, 2001, p. 61.

"Quel che spesso nell'arte occidentale viene prodotto attraverso l'ironia, cioè il distacco, viene raggiunto nell'arte giapponese quasi sempre mediante un'artificiosità (auto-) consapevole, che a sua volta prepara la strada ad una sorta di 'chiarezza sentimentale' e, quindi, di 'purezza' " Olaf Möller, "Dietro. ‘Shōjo manga’ e identità sessuale", in Il cinema giapponese oggi, (op. cit.), p. 108.

Il protagonista Nomura Mansai è un celebre attore del teatro nō.

È il regista stesso che ammette il suo debito verso il cinema francese. Il titolo che compare, accanto alla versione giapponese (sul manifesto e all'inizio del film) è Travail.

Autore proteiforme, ha al suo attivo una ventina di lungometraggi e innumerevoli progetti per il mercato dell'home video e della televisione. È stato distribuito in Francia il terrificante Audition (1999) tratto da un romanzo di Murakami Ryū.

Due ruoli sono interpretati dai registi indipendenti Tsukamoto Shin'ya e Sabu. Il primo appare anche in A Woman’s Work.

Annunciata da un paio d'anni, preparata dai festival di Cannes e Venezia e dalla retrospettiva che la Cinémathèque ha dedicato nel 2001 a Im Kwon Taek (presente anche a Cannes con Chihwaseon). Si veda C. Tesson, “Cinéma coréen”, in L’état du monde du cinéma, ed. Cahiers du cinéma, Paris, 2001, pp.238-244.

L'autore de L'isola (2000) aveva suscitato tanto fischi e risate (del pubblico a Venezia) quanto recensioni entusiastiche (su alcune riviste specializzate).

A Udine si è visto per esempio Beyond Hypothermia (Patrick Leung, 1996) coproduzione hongkonghese e coreana.

Riprendo il titolo del pionieristico lavoro di Nöel Burch: To the Distant Observer: Form and meaning in the Japanese Cinema, Scholar Press, London, 1979. 

Corrado Neri