Una carrellata sul cinema nero giapponese degli ultimi trent'anni, fra noir, mistery, poliziesco, action e horror. Il numero fra parentesi che segue il titolo del film è il voto stilato dagli autori seguendo i criteri della rivista.
NERO JAPAN IN 42 TITOLI
Quella che segue è una panoramica tutt'altro che esaustiva sul cinema nero giapponese (...) degli ultimi anni. (....) Mancano all'appello centinaia di titoli: o perché non sono stato in grado di recuperarli (cercando comunque, tra il materiale a disposizione, di fare una certa cernita), o perché, all'opposto, me li sono trovati davanti senza alcun sottotitolo; e quindi, per evitare il più possibile la superficialità (ho tralasciato i film di Takeshi Kitano perché ne è già stato scritto molto, anche su Cineforum), li ho scartati, sperando, prima o poi, di trovarli con sottotitoli, perché la speranza è l'ultima a morire. ADRENALINE DRIVE (2) Satoru Suzuki (Ando) lavora in una compagnia di noleggio auto. Quando tampona l'auto del gangster Kuroiwa (Matsushige), viene portato nell'ufficio di smistamento denaro della yakuza per regolare l'accaduto. Ma un'esplosione di gas uccide tutti, tranne Satoru e Kuroiwa. Satoru e un'infermiera timida, Shizuka Sato (Ishida), accorsa sul luogo dell'incidente, decidono di scappare con i soldi della mafia. Ma Kuroiwa, dopo essere stato ricoverato, li rivuole. Trita avventurella senza alcun interesse, se non quello di vedere in azione come chinpira (giovani apprendisti nell'arte dei gangster) i membri del gruppo comico Jovi Jova. Per il resto, l'andirivieni dei personaggi e i loro tentativi di riappropriarsi del denaro o di mantenerlo risultano tediosi, perché non c'è alcun discorso registico, e perché tutti non sono altro che figurine senza spessore né forza. Anche come mero intrattenimento, Adrenaline Drive fallisce. ANGEL DUST Setsuko (Minami) è un'investigatrice psicologa incaricata delle indagini su un assassino che colpisce ogni lunedì alle 18 in punto, preferibilmente nella metropolitana. Film complessissimo, faticoso, ricchissimo. Ishii lavora sulle immagini con una lucidità di azzeramento emotivo da ipnotizzare. Freddissimo, è un occhio aperto sul potere accecante del fotogramma e della parola. E un incredibile vivisezione di una città e dei corpi che la abitano, fantasmi inafferrabili ma dolorosamente reali. Ci vuole predisposizione, ma è completamente ripagata. Trasmesso in Italia da Tele+ con un doppiaggio vergognoso, che annulla del tutto la ricchezza impressionante e cristallina del suono e dei rumori di fondo, ovattati, tintinnanti e acuminati come la punta di una spillo: da vedere rigorosamente in versione sottotitolata. ANOTHER LONELY HITMAN (2) Dopo essere stato in prigione per 10 anni, Takashi Tachibana detto Tachi (Ishibashi) ritorna nell'ambiente della yakuza. Solitario e schivo, si affeziona ad una prostituta drogata, tentando di disintossicarla. Stanco di riscuotere debiti con il socio Yoji Takayama (Kaneyama), vuole definitivamente uscirne. Ma, ovvio, non è così semplice. Scritto dallo sceneggiatore di Chinpira/Two Punks, è un racconto dalle atmosfere, anche musicali, molto hard boiled, eppure Mochizuki non affonda lo sguardo e non riesce a costruire un mondo nero, tragico e disperato che convinca. La narrazione è confusa, e i personaggi sono troppo banali e superficiali. Bella la prima sequenza, ma la dipendenza da droga, in correlazione con il dovere di uccidere, avrebbe meritato un approfondimento più complesso. Il tedio, in ogni caso, prevale spesso. AUDITION (5) Shigeharu Aoyama è il presidente di una produzione di video, vedovo da sette anni. Vive col figlio. Spronato a cercare una nuova compagna, inscena una finta audizione, durante la quale viene attratto in particolar modo da Asami, una ragazza dal passato oscuro. Si frequentano e si amano, ma la storia prenderà pieghe folli. Un film che entra sottopelle come un ago. Claustrofobico, senza concessioni, nemmeno visive, all'immedesimazione, quasi televisivo nel suo documentarismo cronachistico, è un racconto di passione e possessione egoistiche che toglie il fiato, perché i confini tra dedizione totale e carnale e pazzia sono alquanto sfilacciati. Eihi Shiina è una figura stilizzata, fantasmatica e irrefrenabile che perseguita il sonno. L'ultima mezz'ora è un test di resistenza spettatoriale da manuale: anche i più navigati non possono non sentire disagio. Il film più angosciante di Miike, che in alcuni momenti ricorda una strana pellicola di Nobuhiko Ōbayashi del 1989, The Discarnates. BAYSIDE SHAKEDOWN Quotidianità lavorativa di un gruppo di agenti della polizia di Tokyo, alle prese con cadaveri con orsachiotti di peluche nello stomaco, il sequestro di un alto funzionario del Corpo, un serial killer che naviga in Internet, furti dentro la stazione di polizia, rivalità interne. Oggetto stranissimo, il film di Motohiro centrifuga in due ore una varietà impressionante di storie. C'è l'impressione di superficialità, ma la narrazione, stranamente e in qualche modo sbilenco, funziona. L'ironia e la comicità facilona che pervadono un po' tutto rischiano di saturare e infastidire, però, alla lunga, ci si appassiona ai personaggi e ai loro legami. Qualche spunto è indovinato e inquietante (il volto dell'assassino con l'apparecchio dentale, gli autori del sequestro e il loro movente "giocoso"), ma è comunque annacquato. Moltissime citazioni (Il silenzio degli innocenti), anche esplicitamente dette (Akira Kurosawa e il suo Anatomia di un rapimento), e messinscena occidentalizzata. Gli ultimi venti minuti sono spiazzanti per totale inutilità: fanno venire il sospetto di un discorso teorico sul prolungamento infinito e la reale "inchiudibilità" delle vicende e dei personaggi del/nel cinema. Ma, a guardare bene, è soltanto un tentativo abbastanza maldestro di mantenere i protagonisti negli affetti del pubblico, esattamente come per un serial televisivo, da cui, appunto, Bayside Shakedown prende vita. Enorme successo in patria: ha guadagnato 40 milioni di dollari, battuto soltanto da Titanic. La Toho ha tirato un sospiro di sollievo. BLUES HARP (4) Chuji è un giapponese meticcio che lavora in un pub. Quasi casualmente, viene invitato sul palco a suonare l'armonica nel complesso che abitualmente si esibisce la sera. La sua bravura colpisce il pubblico e anche un manager discografico. Ma il successo come musicista sarà ostacolato dalla malavita e dai gangsters che lo coinvolgono. Tristissimo racconto di solitudine e spaesamento, per un personaggio ancora una volta geograficamente sbalestrato, che non riesce a venire a patti con l'ambiente che lo risucchia, nero, impenetrabile, cancerogeno, dai contorni e colori indefiniti e ingannevoli. Splendidi gli intrecci di innamoramenti, gelosie e innocenti incomprensioni, slabbrati da un tradimento che non può che portare alla tragedia, tra il boss Kenji (Koichi Sato, bravissimo, visto in un ruolo speculare in Gonin), il suo scagnozzo e Chuji: il dialogo-confessione alla discarica, timido, impacciato e trasfigurato, non si dimentica. Splendido il finale ellittico. BULLET BALLET (4) Il pubblicitario Goda (Tsukamoto), sconvolto dal suicidio della fidanzata, decide di procurarsi – e poi di costruirsi – una pistola, finendo nei bassifondi di Tokyo, dove viene regolarmente pestato e si innamora di una teppista, Chisato, dalla tendenze suicide. Tsukamoto torna al bianco e nero ma approfondisce i temi di solitudine urbana, di rituali di riappropriazione del corpo, di annullamento masochistico e di lotta tra i sessi di Tokyo Fist: seguendo un percorso che è al tempo stesso di riassorbimento realistico (anche se non mancano sequenze cronenberghiane in cui la pistola si fonde con la mano di Goda) e di estremizzazione stilistica. Tsukamoto costruisce topografie e cronologie mentali di limpida confusione, utilizzando il montaggio per dissociare più che per raccordare, ma all'interno di un orizzonte che resta sostanzialmente noir e nouvelle vague (in versione parodica, Tsukamoto dixit). Tutto il film scorre nell'attesa di qualcosa che non avviene, alla ricerca di una salvezza derisoria in una cultura che non conosce il concetto di "rendenzione", ma solo quello di "caduta". Immagini indimenticabili: Chisato che si lascia sfiorare, a braccia aperte, dalla metropolitana che sfreccia; la corsa conclusiva senza fine. CHINESE MAFIA IN JAPAN - LEY LINES Storia di giovani delinquenti sino-giapponesi che decidono di lasciare il loro villaggio natio per tentare la fortuna a Tokyo. Ma le cose andranno storte, tra rapine e mafia. Il pessimismo, come sempre nel cinema di Miike, dilaga senza confini geografici netti: cinesi e giapponesi fanno tutti parte di un destino comune, che è quello della morte. Materiale non nuovo, ma Miike tocca le corde giuste, fa appassionare ai personaggi e commuove. Non raggiunge il delirio di Chinese Mafia in Shinjuku, o la profondità malinconica di Blues Harp e Rainy Dog, eppure la sua coerenza di visione del mondo lascia ancora il segno. Divertentissimi gli "interventi psichedelico-luminosi" di Miike per coprire i genitali: uno scafato correre ai ripari con anticipo, tutt'altro che codardo. CHINESE MAFIA IN SHINJUKU A Shinjuku, un quartiere di Tokyo bagnato di violenza, si affrontano gang cinesi e giapponesi senza esclusione di colpi. Il poliziotto Tatsuhito scopre che il fratello Yoshihito è l'avvocato della triade. Sarà difficile scegliere tra il senso del dovere e l'amore fraterno. Miike anticipa l'esplosione visiva del successivo Fudo, costruendo un'allucinante ed isterica mappa di sangue e violenza in cui nessuno può trovare pace, condita di passioni gay, imprecisioni sessuali e umorismo surreale che raggiungono spesso gli eccessi visivi del manga. Un esordio fulminante e provocatorio, bassamente sensuale e inevitabilmente tragico. Taguchi, attore presente in molti film di Miike e di Sabu, è un killer inquietante, ossessionato e a suo modo passionale. CHINPIRA Vita sfigata di Yoichi (Osawa) e Michio (Dankan), due aspiranti gangsters (chinpira) in una Tokyo noiramente luccicante. Noiosissimo e completamente senza interesse. Aoyama fa gironzolare e cianciare i suoi personaggi per cento minuti, con una regia tutta piani sequenza a camera fissa e campi lunghi che non dice niente di nuovo. Il fatto è che non si riesce, neanche sforzandosi, ad appassionarsi ai due protagonisti. Una spruzzata di Kitano qui, una là, senza un millesimo della sua profondità: non basta certo la spiaggia a fare Sonatine. La lead electric guitar di Ayukawa e la voce fuori campo di Yoichi, di una retorica inaudita, sono insopportabili. Tutto fumo, pochissimo arrosto, anche se Aoyama è abbastanza quotato in patria. CURE (5) Un detective, Takabe (Yakusho), deve vedersela con alcune morti indecifrabili. Le tracce portano a un giovane (Hagiwara) che ipnotizza le vittime con la fiamma di un accendino, obbligandole poi a commettere omicidi. Le cose, però, non sono così semplici. Film imprescindibile e importantissimo: la parola definitiva sui serial killer movies. L'assassino è qui un impulso volatile, aria mefitica che si respira, proveniente da un ceppo genio del male da far accapponare la pelle. Apocalittico e impalpabile, con una regia tutta sospensioni e non-spiegazioni, che si ferma prima di mostrare, e che scarta prima di portare a termine. L'astrazione uccide. Koji Yakusho è superbo. Finale agghiacciante. DANGAN RUNNER (2) Yasuda (Taguchi) è un ladro scalcagnato inseguito da Aizawa (Yukai), il commesso del negozio nel quale Yasuda voleva rubare una maschera per rapinare una banca. Entrambi vengono inseguiti da Takeda (Tsutsumi), un giovane yakuza che vuole ucciderli. Il film è soltanto questo: un'interminabile, folle corsa per le strade di Tokyo, inframmezzata da parentesi che spiegano le ragioni di ognuno. Ci si stanca quasi subito. Tutto mosso e traballante, addosso ai personaggi, ma Sabu deve ancora comprendere che ci vuole qualcosa di più. THE 8-TOMBS VILLAGE (2) Il personaggio del detective Kosuke Kindaichi è stato portato sullo schermo più di quindici volte. Iniziata nel 1954 da Sadaji Matsuda, la serie tocca un incredibile successo nel 1976 proprio con il primo adattamento diretto da Ichikawa, The Inugami Family. Nel corso degli anni, Ichikawa firma altre avventure del detective (più o meno aderenti al romanzo di partenza di Yokomizo), e questa del 1996 è l'ultima in ordine di tempo. Kindaichi è una sorta di Colombo (lo scrive Thomas Weisser, ed è una delle poche cose più o meno condivisibili nel suo Japanese Cinema - The Essential Handbook) che si muove tra intrighi, superstizioni e omicidi coinvolgenti famiglie numerose, eredi bramosi e parentele taciute. È un personaggio un po' surreale, la cui semplicità di investigazione risulta impermeabile al marciume dentro cui si muove; è un uomo libero e puro, solitario e fanciullesco. Peccato, però, che il film di Ichikawa sia un mystery alla Agatha Christie privo di interesse, piatto e incolore, che si snoda lentamente tra le ragnatele della trama senza ispirazione. Al di là del whodunit, e di alcuni sprazzi di violenza gory (le uniche sequenze degne di essere ricordate, in particolar modo quella iniziale, in bianco e nero col sangue che stacca con un rosso accesissimo, e la strage incredibile portata a compimento dall'amante folle, che uccide selvaggiamente con la spada una ventina di persone nel giro di un paio di minuti), rimane ben poco. ENTRAILS OF AN ANGEL: RED FLASHBACK Mentre sta facendo le foto di scena di un video porno, Nami (Kawakami) ricorda un passato di stupro che vorrebbe dimenticare. Una notte, ubriaca, viene portata da un uomo in un hotel. Quando si sveglia, si ritrova accanto un cadavere. Terrorizzata, pensa di essere stata lei a pugnalarlo. Ma c'è un nastro che rivela il contrario. Ishii regista muove benissimo il suo occhio: è sinuoso, felpato, anche ricercato (si veda il piano sequenza a camera fissa nell'ufficio, dove le due donne si "pedinano" uscendo da un lato dell'inquadratura, ed entrando dall'altro). Ma avrebbe bisogno di uno script più decente. Così com'è, il film risulta trito, tedioso, meccanico, di una banalità immensa e pure un po' idiota. La buona tecnica non riesce a far dimenticare una storia che si trascina senza interesse, derivativa (il finale, per esempio, è preso pari pari da Basic Instinct e Omicidio a luci rosse) e incapace, nonostante l'impegno, di procurare tensione. Il passato di violenza che ritorna sotto forma di incubo-flashback è puro orpello didascalico. Entrails... è il sesto film nella serie Tenshi no Harawata, conosciuta anche come Angel Guts, e iniziata nel 1978 da uno script di Ishii stesso (che ne ha diretto in seguito tre capitoli): ogni pellicola vede come protagonista una donna di nome Nami. EVIL DEAD TRAP Nami (Ono) è la conduttrice del programma notturno "Late Late Night". Riceve in redazione una videocassetta che mostra nei dettagli l'omicidio di una donna. Con alcuni colleghi, si reca sul luogo del delitto (è la vhs stessa a "tracciare" una mappa per raggiungerlo), dove li aspetta l'assassino. Primo film di una serie di tre episodi molto conosciuta e apprezzata negli ambienti dei videocollezionisti, scritti da Takashi Ishii (regista alquanto interessante per il suo bizzarro altalenare tra opere autoriali come i due Gonin, e l'exploitation di differenti livelli qualitativi). Puro cinema derivativo, popolare ma nel suo significato più sano. Ikeda ha guardato tutta l'opera "hard" di Dario Argento fino all'87, e l'ha copiata spudoratamente. Tecnicamente non è certo così ricco, ma dimostra di aver imparato come si mette in scena l'orrore più superficiale e appariscente in modo compatto. Gli omicidi, sanguinosissimi, alcune immagini/idee e la musica – tra l'asciuttezza dei Goblin era-Tenebre e un qualsiasi Claudio Simonetti – sono sfacciatamente ma "tranquillamente" argentiani (la donna trapassata da aste di ferro come Daria Nicolodi dai tubi alla fine di Tenebre, i vermi sul soffitto come in Suspiria, l'uomo incatenato in una vasca come Patrick Bauchau in Phenomena, e poi Opera nei metodi di molti delitti), la suspense è grossolana, non c'è un filo di logica, non c'è discorso teorico, e i personaggi sono soltanto marionette da eliminare. La soluzione finale del parto è completamente delirante (mentre avrà un senso nel secondo capitolo), però il plagio è riuscito. La protagonista si chiama Nami, come le donne della serie Entrails of an Angel, sempre ideata da Ishii. EVIL DEAD TRAP 3: MUTILATION FOR A TENDER LOVE Yoko Mizukashi (Yokoyama) è un'agente della polizia che investiga sul suicidio di una studentessa e sulla scomparsa, anni prima, di un'altra. Entrambe sembrano aver avuto una relazione con un loro professore, Muraki (Sano), che nega. Le cose, poi, non sono così complicate come sembrano. Decisamente il più brutto della serie, tirato via, svogliatissimo, con uno script che fa acqua da tutte le parti e personaggi inetti. Ikeda ha smarrito per strada la forza delirante e la violenza visiva che ha mostrato nel primo capitolo. Ishii scrive pensando al De Palma doc, ma non ha un briciolo del tagliente acume di Vestito per uccidere, ed è tutto un po' idiota, anche perché il mistero, che non riesce a restare in piedi convincentemente, potrebbe benissimo venire chiarito in venti minuti senza molte difficoltà. Nel finale c'è ancora una lotta tra due donne come nel secondo episodio (una delle quali si chiama di nuovo Nami), ma risulta cheap e sbrigativa, e la luce rosso sangue che ammanta l'ambiente è palesemente un orpello di bella forma piazzato lì per affascinare l'occhio in un mare di anonima piattezza. FOCUS (4) Un regista televisivo (Shirai), con l'aiuto di un'assistente (Unno) e un cameraman (il direttore della fotografia Tetsuro Sano, che non si vede mai), decide di intervistare un timido giovane, Kanemura (Asano), con un hobby bizzarro: intercetta le conversazioni telefoniche attraverso una ricetrasmittente. Quando captano le parole di un killer, che ha depositato una pistola nella stazione di Shinjuku, il desiderio di scoop travolge gli eventi. Straordinario cine-veritè tutto girato in soggettiva con camera digitale a mano. Isaka non si preoccupa degli aspetti metalinguistici: li lascia correre, non li manovra. In questo modo, pur essendoci, non appesantiscono. Isaka, poi, non si tira indietro di fronte alla possibilità di intervenire sulla messinscena, con musica, sovrimpressioni, luci artificiali. Niente Dogma, poco falso documentario, ma un esempio lancinante di cinema piattamente sconvolgente, o, volendo, che divora il metodo televisivo con una grammatica cinematografica notevole: sceneggiatura e personaggi perfetti, interpreti convinti e bravissimi (Tadanobu Asano in particolare), un senso di minaccia e tragedia che a volte risulta altissimo. Settanta minuti che colpiscono come una stilettata: l'esempio che si può lavorare col falso facendolo passare per vero che è invece ancora fiction con un preciso disegno registico. Ovvero: cinema. Gli autori di The Blair Witch Project dovrebbero vederlo. FUDO - THE NEW GENERATION Fudo Riki assiste da bambino all'uccisione del fratello da parte del padre, potente boss della yakuza di Kobe. Adolescente, organizza una violenta e capillare vendetta, aiutato da una banda stravagante, composta da ragazzine e bambini. Una miniera divertentissima di invenzioni amorali: bambini con la cartella che sparano, fanciulle che lanciano freccette dalla vagina, addestramenti di bimbi a base di botte e tiri al bersaglio. In più, sesso bizzarro, ermafroditi, decapitazioni e sangue a non finire. Alla luce di tutta l'opera di Miike, Fudo si appanna un po', ma rimane comunque un vulcano la cui lava travolge tutto e tutti, senza fermarsi di fronte al "generalmente intoccabile", come il bambino, che viene ammazzato senza remore e gettato nella spazzatura dentro sacchi per l'immondizia. La lotta tra bande non fa distinzioni d'età. GEMINI Yukio (Motoki) è un dottore che vive e lavora isolato in una casa lontano dalle baracche dei derelitti, dai quali pensa si debba restare separati per pericoli di infezioni e violenze. Con lui, ci sono la moglie Rin (Ryo), i genitori di lui e le donne di servizio. Ma il padre e la madre muoiono in circostanze misteriose, e un altro Yukio si sostituisce al vero. Da tracce tipicamente noir come il doppio e la vendetta, Tsukamoto elabora un film di una ricchezza visiva e teorica strabiliante, tutto ostacolato da pannelli ed elementi divisori (le porte che scorrono nelle stanze, le finestre che riparano dal contagio, i rigonfiamenti di tela che separano i due letti), e rotto da improvvisi squarci di furore sonoro-visivo che entrano nel cervello come spine. Cinema invasivo-infettivo rigoglioso e apocalittico come pochi: il virus che si propaga dagli slums torna al mittente, in un circuito che in verità non ha mai avuto un punto di partenza, e non può averne uno di arrivo. Ricordi obbligati di Anatomia di un rapimento di Akira Kurosawa. Il pozzo fa venire in mente quello di The Ring. Velocissimo cameo iniziale di Tomoro Taguchi, attore (quasi) feticcio di Sabu e Miike. Musica indimenticabile. Finale da pelle d'oca. Il voto è doverosamente aumentato. GONIN (5) Bandai è il proprietario di una discoteca, ed è in debito con la yakuza. Con una banda rapina le casse dei suoi stessi creditori, ma le cose non vanno bene, perché sulle loro tracce ci sono due killers spietati. Ishii costruisce un film isterico, notturno e piovoso, sconvolgente. Luccicante come l'asfalto bagnato, sanguinoso e implacabile verso il suo destino tragico, il film lavora materiali comuni con l'incandescenza esasperata di amori omosessuali, che trovano la loro completezza e definitiva consacrazione soltanto con la morte. Koichi Sato (Bandai) e Masahiro Motoki, il giovane innamorato di lui, restano nella memoria. Kitano con l'ombrellino trasparente è indimenticabile. Le sequenze della toilette nella stazione e l'ultima, in cui i due "amanti lasciati" trovano la fine sul pullman, sono da groppo in gola. Trasmesso in Italia da Tele+, con un doppiaggio da condanna all'ergastolo: da vedere esclusivamente in versione sottotitolata. GONIN 2 (4) Quattro donne si trovano casualmente in una gioielleria al momento di una rapina. Nel caos generale, riescono a scappare col bottino. Con loro è anche una commessa del negozio, che era d'accordo con i rapinatori. Nella fuga incontrano un uomo che ha appena sterminato dei membri della yakuza per vendicare il suicidio della moglie violentata dai gangsters. Ancor più stilizzato del primo, del quale risulta per certi versi speculare, Gonin 2 possiede un ardore infuocato e una lucidità d'immagini che possono venir scambiati per patinatura becera (i piccioni...), ma Ishii si ferma sempre un attimo prima del fastidio caricaturale o dei meccanismi cinefumettistici. Il suo è un mondo dai contorni così spessi che non può non affascinare (e, perché no, stordire). Come sempre nerissimo, sanguinoso, ineluttabile, anche se nel finale è possibile intravedere uno spiraglio di sopravvivenza – comunque tetra. Trasmesso in Italia da Tele+ con un doppiaggio da inquisizione. HIDEKI - EVIL DEAD TRAP 2 Aki (Nakajima) è obesa e brutta, fa la proiezionista in un cinema ed è una spietata serial killer. Degli omicidi da lei commessi si occupa Eimi (Kondou), giornalista e amica di Aki. Ma anche Eimi non è esattamente sana di mente. Di gran lunga superiore rispetto al primo episodio, Hideki è un'allucinante lotta per la possessione in nome di un egoismo sfrenato, ultimo baluardo per sentirsi vivi e imporre la propria specificità: possessione di un bambino, di un uomo, della bellezza, e persino dell'impulso ad uccidere, che le due donne vogliono tutto per sè. Questo è maggiormente esplicitato nell'ultima mezz'ora, dove la follia, anche testuale, prende il sopravvento, in un marasma di sangue, ossa spezzate, interiora e parti mostruosi. Ma, a differenza del film di Ikeda, il delirio gory prende qui una forma consapevole e sconvolgente, in un universo materno-femminile che mette a dura prova per la disperazione e la violenza, e dove il sangue non può non scorrere a fiumi: la splendida battaglia finale tra le due guerriere (indimenticabile la lotta al ralenti tra i teli bianchi, sporcati dal sangue) è un test di resistenza davvero hard. Leggeri accenni di metacinema, che non disturbano affatto. Musica notevole, e Akiko Nakajima è una maschera scostante di grande impatto. Un horror con le palle, sempre scritto, come gli altri capitoli, da Ishii, con un coraggio però che non si limita agli orrori soltanto di supeficie (e non superficiali, si badi) o tecnicamente apprezzabili. HUNTER IN THE DARK Il film di Gosha, uno dei più grandi registi giapponesi di sempre, è un complicatissimo intrigo che si sviluppa nel XVIII secolo durante il regno di Iyeharu, il decimo Shogun Tokugawa, tra il governo corrotto e gli appartenenti ad organizzazioni segrete illegali attive nell'ombra, chiamati «cacciatori nell'oscurità». Pura storia noir: uno sguardo scurissimo sull'underworld, le cui leggi ferree vengono violate a costo della vita. Una sceneggiatura elaboratissima a puzzle, decine di personaggi che convergono, regia calibratissima e impietosa, un senso di morte costante e ineliminabile, nessuna salvezza per 138 minuti di quintessenza delle coordinate del nero che abbiamo imparato ad amare, sviluppate tra i samurai. Ombroso, tragico, disperato, come tutto il cinema di Gosha. HYPNOSIS (4) Un incredibile delirio. Alcune persone si suicidano in modi alquanto bizzarri. La polizia brancola nel buio, fino a scoprire che dietro a tutto ci sono meccanismi di ipnotismo. Non si devono cercare risposte: il film alla fine tira i nodi al pettine, ma sono nodi che non hanno capo né coda (infatti alcuni vengono tralasciati bellamente), ed è un pettine totalmente esente da una logicità che non sia quella, non proprio oggettiva, della confusione (dei sensi, delle conclusioni, della vita). Eppure Hypnosis prende al collo e al cuore, e non allenta. Le sequenze intrecciate di suicidio collettivo fanno venire i brividi, e tutta la parte finale, a cui non si riesce a dare un verso neppur sforzandosi, mette una paura del diavolo: la personalità mostruosa di Yuka che urla, si contorce e scende dal soffitto terrorizza non poco. Indimenticabili la ragazza che corre fino a spezzarsi le gambe e l'uomo che si dà fuoco col fornello della cucina credendo di lavarsi la faccia. Titoli di testa psichedelici, e qualche ricordo filmico (L'uomo che sapeva troppo, Ring 2, Arancia meccanica) che non ha nulla della cinefilia spicciola e facile: puro e libero gusto dell'ipertrofia spregiudicata, che funziona come non ci si aspetterebbe. KAMIKAZE TAXI (4) Tatsuo (K. Takahashi) è un chinpira (giovane apprendista gangster) di un potente clan della yakuza, il cui boss è un politico in vista, arrogante e sadico. Le ragazze che Tatsuo gli fornisce vengono picchiate, e la fidanzata uccisa. Tatsuo decide così di rapinare il boss con una banda di amici scalcagnati, ma subito dopo vengono rintracciati. Per Tatsuo inizia una fuga senza ritorno in compagnia di un tassista (Yakusho), col quale stringe una forte amicizia. Sentitissimo, Kamikaze Taxi ingloba molti spunti, anche di critica sociale a rischio di retorica (i giapponesi emigrati all'estero per cercar fortuna, e poi anni dopo tornati in patria, dove si trovano spaesati), ma ha una scrittura limpida e attenta. Harada riesce nel difficile compito di non sfilacciare le due ore e venti di racconto, o di renderlo eccessivamente terzomondista, grazie a dialoghi ispirati, ritmo sostenuto e un notevole pessimismo, che mai, nemmeno nei momenti lievi, si appanna in nome di false speranze. Il nero è ovunque, e non molla. La forza primaria sono i personaggi, delineati con notevole partecipazione: ci si appassiona a Tatsuo e al tassista, e i loro occhi commuovono. Yakusho (Cure) è, come al solito, immenso. LES LIAISONS EROTIQUES Kishin (Uchida) e Rie (Miyazawa) gestiscono un'agenzia di guida turistica per giapponesi e investigazione a Parigi. Gli affari non vanno molto bene, sino all'arrivo di Tamio Okuyama (Beat Takeshi), un uomo d'affari che chiede ai due di pedinare la sua amante: sospetta che abbia altri uomini. Liberamente tratto dal testo di Pierre Choderlos de Laclos, è un film in cui regista e interpreti, completamente imbambolati (povero Beat Takeshi...), non hanno nessuna voglia, e si vede sempre. Tutto è piatto, scialbo, monocorde, incolore, con alcuni elementi cheap decisamente imbarazzanti (la discoteca con la poca gente vestita come agli inizi degli anni Ottanta, con quella canzone che sembra una base per Bontempi; il finale di sparatorie in un'enorme cantina, dozzinale, abborracciato e senza un briciolo di senso). Wakamatsu e il giovane e rampante produttore Okuyama (Rampo) volevano fare un prodotto diverso e bizzarro, ma ne è saltato fuori un pasticcio inconcludente. L'umorismo che a volte serpeggia, il sesso e ogni leggero spunto social-culturale sono anch'essi soltanto cheap. LONE WOLF COP: THE SEX DOLL CASE Shimamura (Umeyami) è un poliziotto incaricato del progetto Lone Wolf: un'organizzazione sotterranea e al di sopra della legge, Kaishakunin, col compito di sbrogliare un intricato caso di omicidi di giovani donne. Per introdursi nel giro della malavita, Shimamura diventa il manager di un bar gay, aiutato da altri agenti in incognito. Di una piattezza disarmante, e senza un seppur minimo appiglio di interesse: così loffio e scialbo che nemmeno gli spruzzi di sangue "alla chambara", o qualche frustata, del tutto indolore, di sesso s/m, riescono a sollevare l'attenzione. Personaggi idioti che non hanno spessore. Si ricorda con simpatia soltanto Onihira, il poliziotto enorme e burbero che cerca sempre di mangiare a sbafo. Per il resto, è cinema che sembra fatto per quelle vecchie etichette video come la DB Video o Antoniana. Massacro finale delirante: incrocio tra la guerriglia alla Joseph Zito e un Hong Kong di serie Z alla Godfrey Ho. MARKS Tentare di rendere in tre righe la trama di questo film è impresa impossibile: omicidi, poliziotti, indagini, malati di mente, infermieri omofobi che pestano i pazienti, gruppi rivoluzionari, gruppi di appassionati di alpinismo, sequestri, ricatti, pestaggi, sesso, cadaveri coi denti spaccati, montagne, neve, satanismo. Boh. Sfido chiunque a capirci qualcosa. Sai butta tutto nel calderone, senza avere la più semplice capacità di tirare le fila di almeno una delle cento tracce. Non c'è discorso teorico: la confusione è soltanto di superficie, e riguarda lo script e il regista. Insopportabile nella sua presunzione a raggiera. Sai, in un'intervista, ha detto che voleva rivaleggiare con Akira Kurosawa e il suo Anatomia di un rapimento. Altri dicono che somiglia ad una sorta di Il fuggitivo. Non servono parole. MURDER IN THE DOLL HOUSE Puro trash. Il giovane Katsu (Matsuda) vorrebbe fare il detective (Philip Marlowe, come dice lui stesso), e viene prontamente assunto da un'agenzia per pedinare il nipote di un potente industriale. Cominciano gli omicidi. Sciatto come un film di Brunello Rondi, noioso come un giallo di Alfredo Rizzo, incompetente come un thriller di Emilio P. Miraglia, è un mystery di un'idiozia incredibile, dove i personaggi girano in tondo cercando di sbrogliare una matassa abbastanza elementare. La musica vorrebbe fare un po' italian beat anni Settanta, ma la fattura generale lo fa sembrare come se fosse diretto da Ferdinando Merighi, piuttosto che un pur mediocre Umberto Lenzi. Scena sublime: l'uomo che, bendato da testa a piedi perché ha il corpo completamente ustionato, tenta dal letto di ospedale di strangolare la moglie in piedi accanto a lui, con i due detective alle spalle che guardano; il dottore, poi, gli sente il cuore, e dice: «È morto». Finale incredibile. Yusaku Matsuda interpreta Sato, lo yakuza che Michael Douglas e Andy Garcia devono scortare a Osaka in Black Rain di Ridley Scott. PERFECT BLUE (4) La giovane cantante Mima Kirigoe fa parte di un trio idolatrato dai teenager. Quando decide di passare alla recitazione, la reazione del suo pubblico non è delle migliori. Il suo ingresso nel mondo della televisione stimola dubbi nei colleghi. C'è anche un maniaco che la perseguità via Internet. E la sanità mentale di Mima a poco a poco va a pezzi. Perfect Blue è un anime che inizia assai banalmente, secondo meccanismi retorici abbastanza facili e semplicistici. Ma più si srotola, più si inoltra in un complicatissimo gioco di immaginazione e realtà che fa dimenticare il didascalismo dell'assunto. I piani si intersecano con incredibile osmosi metamorfica, e il film diventa un appassionante imbuto di follia e apparenze in cui ogni distinzione di senso diventa pleonastica. Regista e sceneggiatore conoscono alla perfezione la grammatica della suspense e del thriller: si vedano, per esempio, le sequenze degli omicidi, che si aprono e mostrano nella loro compiutezza gradualmente, fino ad arrivare allo splatter più esplicito: dalla sottrazione dell'effetto, al suo totale mostrarsi. Presentato con enorme successo nei più importanti Festivals di genere mondiali, dove molti hanno notato quanto si avvicini, per scansione e meccanismi, ai gialli italiani. A ragione. POSTMAN BLUES - POSTA OMICIDA Sawaki (Tsutsumi) è un postino tranquillo e solitario. La sua routine viene messa sottosopra dall'incontro con un vecchio amico di scuola, Noguchi (Osugi), adesso uno spacciatore per la yakuza; Sayoko (Toyama), una ragazza malata di tumore e ricoverata in ospedale, di cui Sawaki si innamora; e Joe (Horibe), killer dall'animo onesto, anch'egli malato terminale. La polizia, poi, è ostinata nel credere Sawaki uno spacciatore. Sabu migliora, e di molto, la sua scrittura rispetto al precedente Dangan Runner: è più attento ed equilibrato, disegna bei personaggi, tira sapientemente le fila verso il destino, preparandosi al vortice di Unlucky Monkey. Le facili citazioni (Besson, Wong Kar-wai) rischiano di essere un giochino cinefiliaco fine a se stesso, eppure, in questo quadro nevrotico e surreale, risultano simpatiche. Notevole tutta la parte finale, con le corse incrociate per le vie cittadine e il blocco stradale. Distribuito in Italia, senza che nessuno se ne accorgesse, dall'Academy, con un doppiaggio da far venire la pelle d'oca. RAINY DOG Yuji (Aikawa) è un killer giapponese che opera a Taipei. Una sua vecchia amante gli lascia il figlio muto Cheng. A loro si unisce anche la prostituta Lily. Ma il fratello dell'ultimo "lavoro" di Yuji vuole vendetta. Miike bagna la sua disperazione fin nelle ossa: la Taiwan di Rainy Dog è inafferrabile, labirintica e fumosa per la pioggia costante. In questo scenario, si muove un "cane" che si rintana al chiuso quando piove, ed esce per vivere (cioè sopravvivere col mestiere). Non c'è pace per nessuno: tutti sono soli, sbalestrati, senza radici, come sempre nel cinema di Miike. Un film tristissimo, per niente conciliante come alcuni hanno sostenuto (la prostituta sarà anche buona, ma è lì solo per la valigia coi soldi, il bambino è trattato davvero come un cane), anzi nerissimo: la frase finale che l'uomo rivolge al bambino, "Cresci. Poi vieni a uccidermi. Io sarò qui ad aspettarti", è un colpo al cuore, pura ereditarietà maledetta, sangue che neanche la pioggia battente può lavare, destino già scritto e immodificabile; rimane in vita, certo, il bambino, ma la pistola è già pronta per lui. Non avergli sparato è più orribile che averlo fatto. Se qualcosa si deve rimproverare a Miike, è il fatto di non aver resistito al simbolo più trito del noir giapponese (e non solo), il mare. Eppure, la partecipazione prevale. Messinscena in qualche modo ibrida, con influenze del cinema di Hong Kong: non esiste più nemmeno una forma-cinema autoctona. Indimenticabile la resa dei conti finale nel grigiore nebbioso della pioggia, e Tomoro Taguchi che si sveglia la mattina sui tetti, urina nel vuoto e si "deterge" il collo e le guance con l'urina stessa, col membro cancellato da graffi psichedelici (già usati da Miike in Chinese Mafia in Japan - Ley Lines). RAMPO (5) Dopo che il suo racconto The Entrance of Osei è stato rifiutato dalla censura castrante degli anni Venti, lo scrittore Edogawa Rampo (Takenaka) si trova coinvolto in una storia che non conosce confini tra realtà e fantasia. Film travagliatissimo, Rampo è un'operazione commerciale che non può lasciare indifferenti. Commissionato nel 1992 dal giovane produttore Okuyama (Sonatine di Takeshi Kitano) al regista televisivo Mayuzumi, sotto contratto con la Shochiku, il prodotto finale è stato rifiutato da Okuyama stesso, che ne ha rigirato quasi il 70%, e aggiunto alcune parti. Okuyama voleva un film che spiazzasse e prendesse il pubblico agli occhi come mai era stato fatto. Dopo una lunga battaglia con Mayuzumi, si arrivò a un compromesso: la Shochiku avrebbe distribuito entrambe le versioni, lasciando decidere al pubblico quale fosse la migliore. Ma la prima versione di Mayuzumi fu distribuita in un minor numero di copie, e con un tempo di programmazione più breve. La versione di Okuyama, invece, fu il più grosso successo dell'estate del 1994, dopo un lancio in pompa magna nel giugno di quell'anno. Distribuito in Usa dalla Samuel Goldwin Co. nel 1995, fu salutato da recensioni assai positive (ma il film non si trova né in vhs né in dvd). Okuyama aggiunse alla prima versione di Mayuzumi un'introduzione in inglese del regista e sceneggiatore americano Bruce Joel Rubin; la sequenza a disegni animati all'inizio della pellicola; la sequenza del party, dove sono presenti alcune personalità del mondo dello spettacolo giapponese come il regista Kinji Fukasaku, la scrittrice di best-sellers Mariko Hayashi e lo scrittore di manga Riyoko Ikeda; una nuova colonna sonora; alcuni frammenti subliminali. Fece poi spruzzare nelle sale durante la proiezione un profumo speciale, il "Rampo Perfume ", per ricreare la fragranza del muschio. Questa seconda versione (non ci è stato possibile vedere la prima) è stupefacente. Tutto è nato da un mero – dal produttore stesso ammesso – scopo economico, e molti potrebbero sottolinearne la superficialità e generale vacuità, eppure non si può non ammirare un talento che, nel tentativo di risollevare le sorti in declino del cinema giapponese, ha costruito una follia visionaria immensa, sbalestrata, incredibilmente ricca, specchio di una megalomania esecutivo-produttiva che ricorda le pazzie cinematografiche incandescenti dei primi del Novecento, e che sconvolgono proprio per la loro rarità e passione. La strutturazione del pathos non è lontana dall'epica melò del cinema hongkonghese, ma Okuyama infarcisce l'insieme di così tanti ingredienti, non soltanto visivi, da stordire: allucinazioni, incubi notturni, effetti ottici, sovrimpressioni su sovrimpressioni, scenografie enormi, erotismo, travestitismo, omosessualità trasfigurata, noir e horror, rimandi cinefili, alcuni dei quali magari involontari (il ciclo di Roger Corman tratto da Poe, Face of Another di Hiroshi Teshigahara, Esotika Erotika Psicotika/The Lickerish Quartet di Radley Metzger), incapacità e dolore della scrittura, delirium mentis che la negazione censoria porta alle estreme conseguenze, ralenti e metacinema. Ogni elemento è mischiato con l'altro, alcuni risultano ornamentali e prettamente dimostrativi, e la massa finale è un pot-pourri confuso di colori e sensi, ma è un'ondata che travolge come un fiume in piena. Sensuale, avvolgente, sinuoso, anche un po' malato: una macchina economica che è un esempio straordinario della più pura forma di fascinazione estetico-visiva del cinema, fregandosene di teoria e connessi. Cose così si pensava non si facessero più. THE RING Una videocassetta, contenente alcune immagini terrificanti, provoca la morte di chi la guarda entro una settimana. Una giornalista, Reiko Asakawa (Matsushima), cerca di risalire alla fonte. Silenzi angosciosi per un horror dalla messinscena asfittica e gelida. Rimandi a Cronenberg, ma il film di Nakata non è carnale, bensì astratto e impalpabile. Un senso di catastrofe imminente da angosciare, finale aperto, teso e non tirato via, per i sequels. A Nakata e Takahashi non interessa minimamente un discorso metacinematografico o sulla violenza nel cinema, ma soltanto la strutturazione di una paura nella sua essenza più violentemente laconica, e per questo ancor più ansiosa. Sadako, la bambina coi capelli lunghi e obnubilanti che non ha più unghie, rimane nel ricordo e nella pelle anche dopo giorni. RING 0: THE BIRTHDAY Come rovinare l'immagine terrificante di una figura horror che, dopo i primi due capitoli, faticava a lasciarci la mente. Ring 0 è il prequel dei due film di Nakata: cerca di spiegare i perché delle vicende successive, e chi sia in verità Sadako. Ma le idee non ci sono, e quella dell'esistenza di due Sadako fa cadere le braccia per idiozia. Tutto è noioso, piatto, dallo svolgimento che sembra Il fantasma dell'Opera argentiano, dato anche che buona parte prende scena sul palco e dietro le quinte di un teatro. La sequenza dello specchio ritorna, ma sembra appiccicata a forza. La strega che si muove scricchiolando e a scatti nel finale mette ancora i brividi, ma la tensione e l'inquietudine, per il resto, sono a livello zero. La messinscena della paura, questa volta, non possiede un briciolo di interesse, e la tragedia malinconica che la vicenda vorrebbe essere risulta ridicola. THE RING 2 La videocassetta killer torna a mietere vittime. La storia, rispetto al capitolo precedente, non risulta molto differente. Ma quello che conta è, ancora una volta, lo sviluppo della paura, che qui subisce leggerissimi spostamenti. Le coordinate grammaticali sono sempre le stesse, ma gli angoli di visione hanno quasi impercettibilmente modificato la loro posizione, e il volume del peso del terrore ha fatto un piccolo passo avanti. Sembra che regista e sceneggiatore vogliano seguire una sorta di percorso ascendente verso la globalità e tridimensionalità del terrore, osservato da molte prospettive, se non tutte, e attuato poco a poco, aggiungendo scaglie su scaglie ad ogni puntata. Basta la sequenza clou dello specchio presente anche in The Ring: brividi senza sosta per una scena che sembra identica a quella già vista nel primo film, eppure si ha la forte impressione che sia diversa, senza sapere bene come e perché. Paura. SCORE (1) Senza pudore. Se Le iene saccheggiava City on Fire, Score copia entrambi (la rapina va più o meno bene, i guai iniziano quando i gangster si ritrovano nel classico capannnone per la spartizione) aggiungendoci una coppia alla Natural Born Killers e giocando solo sulla quantità: record di colpi esplosi e di buchi rossi sui vestiti. Nessun personaggio cui appigliarsi, una sgradevolezza e grevità che, come nel miglior Albert Pyun o nel peggior Kinji Fukasaku (Tokyo Gang non è distante), scivola subito nell'idiozia – un gradino sotto della demenza. SHIKOKU (3,5) Hinako (Natsukawa) torna al paese dell'infanzia per vendere la casa di famiglia, e per incontrare i suoi vecchi amici. Il villaggio si trova nell'isola di Shikoku, la più piccola delle quattro isole giapponesi. «Shikoku» significa «terra dei morti», e Hinako ne capirà la ragione. Cinema di fantasmi che riesce a coinvolgere e pure a inquietare: l'atmosfera del villaggio e degli ambienti, silenziosa e in qualche modo vuota, crea una tensione che funziona. Ma negli ultimi venti minuti il film si affloscia con conclusioni troppo aperte ed esplicite: la suspense dell'impalpabile e del non detto si trasforma in chiacchiera conciliante, e non è un bene. Un discreto esempio di horror vacuo e devitalizzante che non ha il coraggio della crudeltà. Per alcuni, questo potrebbe non essere per forza un difetto. SUNDAY DRIVE (3,5) Yui (Tadano) e il manager di una videoteca (Tsukamoto) scappano insieme dopo aver ammazzato (o perlomeno così credono) il fidanzato di lei che lavora nel negozio, Shinji (Tanji). Nella fuga, usano l'auto presa in prestito al fratello di Shinji (Suzuki). Non durerà molto, anche perché entrambi hanno le idee alquanto confuse. Parte male, Sunday Drive, col suo ritmo sonnolento, piani sequenza a camera fissa lunghissimi ed estenuanti, un'immobilità trasognata e un po' scema, leggermente banale. Eppure, più avanza, più tutto questo prende la forma di un disegno bizzarro, surreale, capace anche di colpi di sceneggiatura ironici e beffardi, come la bambina che si fa adottare e che poi scappa col portafogli di lui. L'ultima mezz'ora è la migliore, con i due protagonisti che non sanno davvero cosa e come fare, ma devono, e ricominciano tutto daccapo, accontentandosi infine di mangiare un gelato: sono, in fondo, povere anime che non riescono neanche ad allontanarsi, figuriamoci ad uccidere. Interpreti bravissimi. SWALLOWTAIL BUTTERFLY (2) Aozora è un quartiere multiculturale di Tokyo, in cui vive gente proveniente da molte parti del mondo. Tra loro, ci sono cinesi che si arrabattano come possono, tra prostituzione, furti e imbrogli. Per qualcuno arriverà il successo, ma sarà breve, perché, oltre allo zampino della yakuza, l'esistenza grama degli Yentowns (così chiamati dal nome che gli speculatori durante gli anni hanno affibbiato a Tokyo, Yen Town) non può cambiar di segno. Iwai è quotatissimo in Giappone: proveniente dai clip musicali e pubblicitari, e dai drammi televisivi, molti dicono abbia portato uno stile giovane (lui ha 32 anni), fresco e innovativo nel cinema, raccontando storie di grande respiro umano-sociale con macchina mossa, montaggio frenetico, angolazioni inusuali, metodi di ripresa disparati, tra cui il video. Ma non mi sembra sincero: il sospetto di furbizia economica è molto forte, e il suo cinema è sempre troppo esplicito e dichiarato nelle tematiche e nelle metafore per convincere (si vedano anche Love Letter [...] e Undo [...]). Swallowtail tradisce l'intento critico con una messinscena molto hip (le parti nel locale sono imbarazzanti), e gli spunti sulla fama precaria, il club come casa accogliente e risorsa di vita, la mancanza di radici e la diffidenza dei giapponesi nei confronti degli altri asiatici risultano falsi (Kamikaze Taxi è un'altra cosa), così come gli insistiti e numerosi simbolismi (uno per tutti: l'orrendo ricordo-flashback di Ageha durante il tatuaggio, pieno di svolazzi di camera e contorni evidenziati). Si salvano soltanto le parti mafiose, sanguinosissime e isteriche: il massacro nell'auto è spiazzante. Il resto vale poco. Enorme successo in patria. UNLUCKY MONKEY (4) Yamazaki (Tsutsumi) è un ladro di banche che si ritrova tra le mani una borsa piena di soldi, piovuta letteralmente dal cielo. Inseguito dai poliziotti, finirà suo malgrado coinvolto tra cittadini che protestano per l'inquinamento delle fabbriche e yakuza. Dire di più sarebbe impossibile, perché Unlucky Monkey è una ragnatela incredibile di avvenimenti e personaggi incrociantisi che ha del soprannaturale. Script meticoloso (i conti tornano tutti, e non è così semplice), personaggi tenaci, un'aria nerissima e claustrofobica che non si tira indietro di fronte alla violenza. Lo humor non è mai invadente o deviante, anzi sempre impassibilmente scioccante. Sabu decide di non esplicitare la sua regia, seguendo le vicende con occhio lucido e imperturbabile: in questo modo, i ghirigori del caso risultano ancor più micidiali. Un film che nega l'improbabilità e l'impossiblità, in nome della più totale, pesantissima sfiga. XX: BEAUTIFUL VICTIMS La polizia e una dottoressa devono scoprire l'assassino di alcune donne. Tutto qui. Script scritto su un pezzettino di carta igienica, di una banalità incommensurabile e quasi sprezzante: sembra arrivare dritto dagli inediti americani da home video anni Ottanta, con alcune figure tematiche che ne sono i manifesti (il killer che gira e lavora nudo nella penombra della casa), e la totale mancanza di logica. L'atmosfera vorrebbe essere tesa e morbosa, ma la suspense è grezzissima, da thriller italiano anni Settanta (ma come avrebbe potuto fare un Luciano Ercoli), gli omicidi con relativo stupro un po' imbranati, e la scena di sesso lesbico ridicolissima. Un po' di gore, e uno spunto metafilmico – all'omicida piace riprendere le vittime con la videcamera – completamente delirante, perché senza alcuna spiagazione. Pura exploitation, dalle parti del trash, anche se un piccolo gradino sopra. Bibliografia Thomas Weisser, Yuko Mihara Weisser, Japanese Cinema - The Essential Handbook, Vital Books, Miami, Fla 1996. Pete Tombs, Mondo Macabro - Weird & Wonderful Cinema Around the World, St. Martin's Griffin, New York 1997. Noël Burch, To the Distant Observer. Form and Meaning in the Japanese Cinema, Scolar Press, Londra 1979. David Bordwell, On the History of Film Style, Harvard University Press, Cambridge, Mass./Londra 1997. Michele Fadda, Rinaldo Censi (a cura di), Kitano Beat Takeshi, Sorbini, Parma 1998. Tadao Sato, Le cinéma japonais, Tome II, Centre Georges Pompidou, Parigi 1997. Oyabu Haruhiko, Ha ni wa ha o (Dente per dente), Arachi shuppansha, Tokyo 1960. Thierry Groensteen, Il mondo dei manga, Granata Press, Bologna 1991. Sono stati di grande aiuto anche i cataloghi, monografici e non, del Bergamo Film Meeting, Noir in Festival, Brussels Festival of Fantasy Film, Mystfest, Far East Film. |
Pier Maria Bocchi