Qual è il futuro del manga noir giapponese? Sono sempre più estremizzate le coordinate estetiche dell'eroe solitario in contesti in cui si gioca più che sul ritmo del racconto, sulla creazione di atmosfere sospese ai limiti della rarefazione e sui silenzi. Che la lezione di Kitano abbia segnato anche i nuovi autori di gekiga in odor di poliziesco?
MANGA E TRADIZIONE HARD-BOILED: QUANDO IL NERO SI FA IDEA
Se dovessi rinascere...vorrei essere un fiore reciso. Anche se sarei destinato a vivere pochi giorni... Mi fa male lo stomaco. Nel 1814 il celebre pittore Katsushika Hokusai, anche noto come "il vecchio pazzo del disegno", crea il primo di 15 rotoli che diverranno poi celebri col nome di Hokusai Manga. In essi non troviamo alcun elemento narrativo: sono semplicemente una serie di caricature che vengono a costituire una sorta di lombrosiana antologia di caratteri umani del Sol Levante. Il termine "manga" fu coniato dallo stesso Hokusai unendo due ideogrammi cinesi; etimologicamente parlando significa, più o meno, "immagine satireggiante". Non è un caso che il termine "manga", usato per definire tutti i comics prodotti in Giappone, sia stato coniato proprio da Hokusai, una delle figure chiave della storia dell'arte nipponica; colui che, oramai alle soglie estreme della propria vita, ebbe il coraggio di scrivere: "Sin dall'età di sei anni avevo la mania di disegnare la forma degli oggetti. Verso i 50 anni avevo pubblicato un'infinità di disegni, ma tutto ciò che ho fatto prima dei 70 anni non merita di essere tenuto in alcun conto. Solo all'età di 73 anni ho capito, pressappoco, la conformazione della Vera Natura. Ne consegue che all'età di 80 avrò fatto progressi ancora maggiori, a 90 penetrerò il Mistero delle Cose, a 100 anni sarò decisamente giunto a un grado di meraviglia e quando avrò 110 anni, nella mia opera tutto, anche una semplice linea o un punto, sarà cosa viva...". Cercare il Mistero delle Cose, anelare alla conformazione della Vera Natura: sotto questa luce, la scelta del termine "manga" per descrivere la produzione a fumetti di origine nipponica, pare quasi programmatica, una sorta di manifesto estetico: sembra che i primi grossi autori, e stiamo parlando di artisti del calibro di Eiichi Fukui (creatore di Akado Suzunosuke, giovane guerriero, inarrivabile maestro nell'Arte della Spada), Yoshihiro Tatsumi (colui a cui si deve il gekiga, ovvero la comic novel proiettata nella realtà quotidiana, anche brutale o disturbante) e, su tutti, Osamu Tezuka ("Manga no kamisama", il dio del fumetto), riallacciandosi alla tradizione inaugurata da Hokusai, abbiano voluto subito mettere in chiaro la propria weltanschauung: i comics con il loro alto tasso di improbabilità ci offrono il destro per poter fornire al lettore un'Idea della realtà, per forgiare, col solo uso dell'inchiostro, non certo una visione oggettiva (e quindi passiva) del Quotidiano, ma la sua assolutizzazione ideale, non scevra di espressionistici eccessi e di lenti grandangolari. Mi si permetta a questo punto una banalità, per sottolineare codesto passaggio: in un manga, o anche in un cartone animato nipponico, quanti giapponesi vediamo? La metropoli con le sue mille contraddizioni, la gran giostra della Commedia Umana, per gli autori di manga, è sempre sotto l'egida iconica dell'Occidente: sia che si tratti di "piccoli problemi di cuore" (vedi il fenomeno dei shōjo manga, cioè storie per ragazzine) sia che si tratti di oscure trame criminali. Anche questo aspetto grafico può avere una sorta di giustificazione storica: dal 1956 i più celebri comics d'America fecero il loro ingresso trionfale sul mercato giapponese; Tezuka & C., entusiasti neofiti di questa nuova forma d'arte popolare, fecero tesoro degli insegnamenti impartiti dagli autori d'oltreoceano: sia che si trattasse delle granitiche forme scolpite del "Superman" di Joe Shuster, sia che si trattasse della varia (dis)umanità sperduta nei vicoli di New York, tratteggiata da Chester Gould nel suo "Dick Tracy". L'indiscusso padre putativo dei manga è stato Osamu Tezuka: egli rimane uno dei fumettisti più importanti del panorama mondiale. Ma ancora più di un Carl Barks (uno dei maggiori disegnatori di casa Disney) o di un Jack Kirby (che potremmo definire il "dio della Marvel"), egli merita un palchetto d'onore nell'empireo dei comics. Tezuka, infatti, oltre ad essere sempre stato un disegnatore curioso ed inquieto, ha caparbiamente mantenuto un rigido status autoriale scegliendo anche di scrivere le sceneggiature delle proprie storie. Pure la sua onnivora curiosità gli fa onore. Un esempio su tutti: in Shumari e Ayako, due suoi celebri gekiga (riservati quindi ad un pubblico adulto), affiorano diversi archetipi dell'immaginario americano mutuati dalla febbrile passione di Tezuka per il cinema ed i fumetti d'oltreoceano. In Shumari sfrutta ad arte tutti i luoghi comuni della tradizione western: i fuorilegge dalla pistola facile, la natura che può essere protettrice od ostile, il trapper solitario, il villaggio fantasma, la costruzione della ferrovia... Incredibile dictu: Mishima meets John Ford! Ma c'è dell'altro: Ayako gronda citazioni dall'universo noir, dall'oscuro mondo privo di mezze tinte abbozzato con sagacia, appunto, da Chester Gould. Uno dei protagonisti della serie, il commissario Geta, ricorda in tutto e per tutto il segaligno Dick Tracy, così come molti comprimari riecheggiano lo stile esasperato, fino ai limiti della caricatura, del disegnatore americano. Sarà poi un caso che le spie di Ayako, come parola d'ordine usino la frase "Ama anche lei il cinema americano?"... Casi paralleli all'ombra del pero In Giappone di codesto serioso tomo venne realizzata, nel 1649, una traduzione che azzerava l'algida teoria dei codicilli e delle asprezze giuridiche, offrendo, al contrario, più di un motivo di interesse al lettore della strada. Tale edizione ebbe un incredibile successo. Lo dimostrano i titoli pulp (nell'accezione di "popolari"), nati per imitazione, che nel giro di pochi anni invasero il mercato del Sol Levante: Ihara Saikaku (1642-1693), ispirandosi allo spirito risolutivo e all'arguzia di Itakura Katsushige, che fu governatore di Kyōto dal 1601 al 1620, scrisse Honchō ōin hiji (Casi paralleli all'ombra dei ciliegi del nostro paese, 1689), creando, in pratica, uno dei primi longseller mai apparsi in Giappone. Ma per più di un secolo fu tutto un proliferare di bugyō (magistrato), machi bugyō (magistrato di città) e matsuke (ispettore), tutti impegnati a risolvere complessi casi di cronaca nera, da indefessi paladini della Legge. Per assistere, però, ad una vera e propria rivoluzione nell'Arte del delitto dobbiamo attendere il nostro secolo, o meglio gli anni '50; nel 1958, infatti, viene pubblicato Yaju shisubeshi (Le belve devono morire) di un giovane scrittore, appena giunto alla ribalta della letteratura popolare: Oyabu Haruhiko. Per la prima volta in Giappone la scuola americana dei "duri", capeggiata da Mickey Spillane, fa il suo ingresso trionfale, insinuandosi con non troppa grazia (è ovvio) fra i vicoli di Tōkyō. Haruhiko era decisamente un tipaccio, nella miglior tradizione hard boiled; detestava Dashiel Hammett, considerandolo troppo "romantico", mentre provava un'ammirazione incondizionata, vicina alla venerazione, per l'autore di Mike Hammer. Lui stesso afferma: "L'hard boiled si fonda sulla distruzione di ogni speranza. Ciò che amo descrivere sono morti spietate, distruzioni, saccheggi. Pertanto, per me, nell'hard boiled non esiste una morale. O se vogliamo trovarne una, potrebbe essere la fiducia in un Io e in uno stoicismo che fa da sostegno all'azione". Ridendo e scherzando, il buon Haruhiko ha definito con i suoi romanzi dall'andamento narrativo rude e terribilmente "metropolitano" gli steccati estetici del nuovo noir nipponico, che di lì a poco sarebbe dilagato nel mondo manga e del cinema. Abbandonate definitivamente le sontuose divise degli shōgun e l'ansia di Verità di mille indefessi "governatori all'ombra dei ciliegi", il mystery, grazie alla ruvida mano di Haruhiko, si concentra sul ribollente sottobosco criminale, si addentra nell'universo degli yakuza, forgiando in questa maniera il mito dell'antieroe solitario, cinico per quanto spietato, maestro nell'Arte della 44 Magnum. L'onore e il sangue: il manga noir Qui sta il fulcro della questione. Con Ikegami, e con la sua opera atrocemente iperrealistica, giungiamo alle colonne d'Ercole del noir nipponico, al suo sublime punto di non ritorno. Nato artisticamente parlando nel '68, come punta di diamante dell'underground, Ikegami giunge alla celebrità planetaria solo nel 1989 con Crying Freeman, personaggio dovuto alla felice penna di Kazuo Koike, fedele discepolo dei gekiga. La sceneggiatura del primo volume di questa serie è a dir poco emblematica. È esplosa una feroce guerra tra la yakuza e i Cento e Otto Dragoni cinesi (un'associazione criminale ancor più potente della stessa Triade di Shanghai), nata per il controllo del narcotraffico in Oriente. La confraternita cinese assolda un misterioso killer per uccidere uno dei maggiori esponenti della mafia giapponese, visto che quest'ultimo si è alleato con la polizia e sta rilasciando rivelazioni scottanti che potrebbero far crollare l'impero dei Cento e Otto Dragoni. Il killer riesce nella missione ma la giovane pittrice Emu Hino assiste all'omicidio. L'assassino, il cui nome in codice è Crying Freeman (poiché dopo ogni atto delittuoso si lascia andare in un pianto silente e accorato), si reca a casa della fanciulla con l'intenzione di sopprimerla ma scopre di esserne attratto, di subire il suo fascino misterioso. La cosa è reciproca e nel giro di una notte grondante lacrime e sangue scocca il dardo dell'amour fou; comincia immediatamente il gioco delle reciproche confidenze. Crying Freeman in realtà si chiama Yo Hinomura; egli era un giovin ceramista di chiara fama, coinvolto suo malgrado nelle losche ed efferate trame del crimine organizzato. Dopo avere assistito egli stesso ad un omicidio, è stato trasformato, con spossanti e crudeli esercizi, nel killer perfetto (sorta di Assassino Incarnato) dai Cento e Otto Dragoni. Ora egli è una sorta di apollineo Golem al servizio della mafia cinese, costretto ad eseguire ogni tipo di ordine: di umano gli son rimaste solo le lacrime, che, copiose, sgorgano dopo ogni omicidio. Kazuo Koike, con Crying Freeman, pare quasi aver cercato di tratteggiare con piglio post-moderno l'universo del manga storico, col suo fiero esercito di samurai, ninja e rōnin che aveva avuto in Sampei Shirato, famoso per il suo respiro epico e marziale, il massimo cantore. Nei fumetti di quest'ultimo gli antichi guerrieri facevano dell'omicidio una sorta di esercizio di stile, un sublime, e paradossalmente rarefatto, atto estetico: una meravigliosa (ci si perdoni l'ossimoro) danza di morte. In Crying Freeman avviene lo stesso, ma in una dimensione ancor più asciutta, estrema, enfatizzata dal pennello crudele e tagliente di Ikegami. Nessuna cartuccia viene risparmiata dall'abile mano di questo disegnatore: stop-frames, un ossessivo ricorso al dettaglio, effetti di solarizzazione, un quasi morboso compiacimento nel bozzetto patologico e nello squadernamento di un erotismo da rivista patinata corrotto, di tanto in tanto, da qualche brivido bondage... Lo stile "cinematografico" (non solo per la vertiginosa alternanza di campi ma anche per un inusitato senso del ritmo) si enfatizza ulteriormente nella successiva opera firmata da Ikegami, Sanctuary, altra via crucis nel sottobosco criminale con al centro l'ambizioso Akira Hōjō, boss della yakuza molto simile al silente Crying Freeman: la stessa levigata bellezza da poseur androgino, l'identica scarna eleganza, gli stessi silenzi di ghiaccio. Le ultime barriere del nero Sfogliando le pagine di Tōkyō Killers, ambiziosa opera al nero ideata dalla felice penna di Jirō Taniguchi e dall'esperta mano di Natsuo Sekigawa, si prova una sensazione, affatto sgradevole, di deja vu: par quasi di sfogliare un catalogo dei topoi dell'iconografia hard boiled: frasi epocali, estrapolate direttamente da un numero di Shadow Magazine si avvicendano in un turbine autoreferenziale, ai limiti della parodia (in)volontaria. Che sia questo il futuro del nero targato Giappone? Un postmoderno gioco d'accumuli iconici sorvolati, a livello tematico, da una patina di plumbea afflizione? La lettura del recente Jiraishin di Totsumu Takahashi e Mantz Mainka sembra sposare questa teoria: incentrato sulle vicende dell'agente di polizia Kyoya Iida, Jiraishin estremizza le coordinate estetiche dell'eroe solitario, giocando più che sul ritmo del racconto, sulla creazione di atmosfere sospese ai limiti della rarefazione e sui silenzi. Che la lezione di Kitano abbia segnato anche i nuovi autori di gekiga in odor di poliziesco? Note Oyabu Haruhiko, postfazione a Ha ni wa ha o (Dente per dente), Arachi shuppansha, Tokyo 1960. A parte la riduzione cinematografica a disegni animati del 1983, Golgo 13 ha visto due trasposizioni per le sale: Golgo 13 (Gorugo 13, 1973) di Junya Satō, interpretato da Ken Takakura, e Golgo 13: Kowloon Assignment (Gorugo 13: Kuron no kubi, 1977) di Yukio Noda, interpretato da Sonny Chiba. Crying Freeman ha avuto un paio di riduzioni cinematografiche: la prima in ordine temporale è un mediocre film di Hong Kong diretto da Clarence Ford, Dragon from Russia (1990); l'altra, Crying Freeman (1995), una coproduzione tra Usa, Canada e Francia, si è rivelata un perfetto e divertente compitino eseguito con puntigliosa precisione da Christophe Gans, discepolo europeo del cinema di Hong Kong. Alcune perle: "...Non dimenticherò mai l'espressione che, all'ultimo istante, si dipinse sul volto della mia vittima. Era simile al volto dei pastori portoghesi che per primi ebbero la rivelazione dei misteri di Fatima... Non riesco a crederci, diceva la faccia di quell'uomo", "Una prostituta, ecco quello che sei: come un felino annienti lo spirito degli uomini... e poi vendi immoralità ricoperta da una patina di zucchero", "La notte purpurea riversa sull'uomo una luce del colore del pus mescolato al sangue...". |
Andrea Bruni