Conversazione con Yamamura Kōji, tra i principali esponenti della nouvelle vague dell'animazione giapponese.
YAMAMURA KŌJI: LA POETICITÀ DEL MEZZO ELETTRONICO
Come è iniziata la tua carriera di animatore?
Mi sono laureato nel 1987 e dopo due anni sono stato assunto da uno studio di produzione di animazione, lo Studio Mukuo, che era specializzato nella produzione di opere di animazione televisive, ottenute per lo più con contratti d'appalto con le grandi compagnie di produzione giapponesi. Io mi occupavo dei backgrounds; mi piaceva, ma non ne ero entusiasta. Allora decisi di lasciare quel lavoro ed iniziai a fare il freelance. Disegnavo piccole illustrazioni per libri, riviste, mi occupavo di piccoli lavori di animazione da uno o due minuti, delle pubblicità. In realtà non sapevo bene quale lavoro volessi veramente svolgere. Nel frattempo però passarono tredici anni. Poi ho deciso di creare la mia casa di produzione. All'inizio, oltre ai miei lavori, mi occupavo anche di altre piccole produzioni per altri studi; poi, con il passare del tempo, ho iniziato a realizzare solo ed esclusivamente i miei lavori e non mi sono più fermato
Bad Boy, enfant prodige, quale di queste definizioni ti piace di più?
Entrambe. Ma forse bad boy un po' di più. Vedi, io sono molto giovane, hanno iniziato a chiamarmi così per creare una specie di contrasto fra me e i maestri dell'animazione ai quali io cerco sempre di avvicinarmi. Una specie di gioco, se vogliamo, ma che ormai è diventato un'etichetta.
Chi nel panorama dell'animazione ti senti di poter chiamare Maestro?
Molte persone... Yuri Norshetein, Priit Parn per esempio. Mentre ero ancora uno studente d'animazione partecipai ad un workshop in Giappone con Ishu Patel (famoso animatore indiano, ndc). Fu un'esperienza eccitante e credo che nel mio lavoro ci sia molto di lui.
E fra gli artisti giapponesi?
Amo Okamoto Tadanari. Era un genio, mi piace in particolare la sua abilità nel poter cambiare continuamente tecniche, dalla puppet animation, al disegno, ed eccelleva in tutte. Quello che cerco di fare io nei miei lavori.
Come per esempio in Enkinhō no hako?
Sì, Enkinhō no hako (La scatola della prospettiva, 1990 ndc) è una sequenza di codici a barre, edifici, businessman. Il film è realizzato con un mix di tecniche e un collage di foto, disegni, oggetti 3D. Ho voluto mettere in scena la mia idea, e non solo mia, per la verità, della vita contemporanea in cui le città moderne mostrano la loro attuale realtà eccessiva e standardizzata. O anche come in Pacusi, dove ho usato sia un'animazione tradizionale che il disegno. Ancora di più forse Hyakka zukan (L'enciclopedia visiva, 1989 ndc), un'enciclopedia visuale utile per spiegare le varie tecniche dell'animazione.
A proposito di Pacusi, si può affermare che i protagonisti di questa serie siano in un certo senso un riflesso della cultura giovanile contemporanea?
Sì, certamente, ho cercato di raccontare storie semplici e quotidiane, tipiche di un qualsiasi adolescente e della sua famiglia.
Mi hai detto che ti piace spaziare fra le diverse tecniche dell'animazione, ma quale è quella che preferisci?
Vado a periodi, ora sto lavorando molto con il disegno, per il prossimo film non so.
Che cosa cerchi di catturare con i tuoi personaggi e i tuoi film?
Quello che voglio esprimere è come cercare di trovare il piacere nella vita di tutti i giorni, il piacere di godere dei dettagli nel nostro quotidiano. È una cosa diversa però dal godere del singolo momento. E non è una cosa scontata, è un disagio diffuso e appartiene a tutte le generazioni. Il momento, quel momento, è eterno, e un momento può diventare per sempre. Questa mia idea del momento è la stessa che trovi per esempio nei film di Ozu. Secondo me, Ozu cerca tanti piccoli dettagli nella vita quotidiana, li accumula, li fa diventare un concetto più universale. Tutti questi dettagli diventano una montagna di momenti. La storia nei suoi film è sempre molto semplice. Certo, nei miei film il modo espressivo è differente, ma cerco di catturare la preziosità del singolo momento. La vita è piacere, e il piacere viene proprio dai singoli momenti. Ma è nei singoli momenti che troviamo l'essenza della nostra vita.
Questa "ricerca del piacere dei singoli momenti" vive spesso nei tuoi film come memoria dei momenti dell'infanzia.
Si, perché è l'infanzia il momento della vita in cui si percepisce il piacere della vita. Guarda per esempio in Kodomo no shiro (Il castello del bambino, 1995, ndc) gli oggetti: la realtà esiste solo perché esiste la grande immaginazione del bambino che può trasformare qualsiasi cosa e trarre piacere da qualsiasi cosa, godere del momento. Anche in Ame no hi (una giornata di pioggia, 1993, ndc) Karo e Piyobut usano la loro immaginazione per scordarsi che sta piovendo e trovare lo stesso della gioia in una giornata tetra.
Partendo da Suisei, il tuo primo film, fino ad Atama yama, l'ultimo presentato al pubblico, cosa lega delle opere così diverse fra loro?
Con Suisei (Vita acquatica, 1987, ndc) ho cercato di esplorare la natura dell'essere umano, mentre credo che invece Atama Yama la rappresenti completamente.
Quanto tempo impieghi a realizzare un film?
Allora...dipende. Per esempio, Atama Yama due anni; Kodomo no shiro due settimane; Enkinhō no hako quattro mesi. Di solito inizio più lavori insieme, nulla è preparato in anticipo, è sempre un lavoro in fieri.
Hai mai pensato di girare un lungometraggio?
No, finora non ci ho pensato perché mi piacciono i cortometraggi, per me sono il mio mezzo ideale per esprimermi.
Che genere di problemi deve affrontare un animatore indipendente oggi soprattutto in un paese quale il tuo dove l'industria dell'animazione commerciale è così forte?
Moltissimi. Primo, in Giappone l'animazione non è riconosciuta come un'arte, quindi non vengono dati finanziamenti per i lavori indipendenti. Chiaramente è un circolo chiuso per cui solo le grandi produzioni possono guadagnare molto, reinvestire e riguadagnare. Ogni anno il Bunkachō (Ministero della Cultura) sceglie un solo prodotto e solo quello viene finanziato. Naturalmente, vengono sempre avvantaggiati quegli studi medio-grandi che producono lavori a metà fra il commerciale ed l'indipendente. Questi lavori poi hanno la possibilità di essere venduti, distribuiti anche all'estero, ma sono sempre produzioni che già si inseriscono in un discorso più industriale, non di certo nella realtà dei piccoli studi indipendenti. Poi, sai, ci vogliono veramente tantissimi documenti per chiedere qualsiasi finanziamento, si è già spossati prima ancora di iniziare.
Che cosa ne pensi dell'animazione indipendente giapponese contemporanea?
Mah... La generazione più giovane ha una buona tecnica, soprattutto quelli che si occupano di computer animation realizzano veramente delle belle immagini, sanno come usare un computer. Ma dal mio punto di vista mancano di filosofia, quella del "saper realizzare un film". Non si capisce cosa vogliono esprimere. I film girati da loro sono perfetti, ma mancano di stile proprio, mancano di personalità. Per me l'animazione è un mezzo incredibile di comunicazione. Senza parole e al di là di qualsiasi nazionalità. È un mezzo di comunicazione tra le diverse generazioni. Per questo rimango così stupito della mancanza di comunicazione, di contenuti, in molti film dei nuovi giovani artisti.
Monica Cavalieri