Rokugatsu no hebi è a ben guardare il lavoro più ottimistico di Tsukamoto, quello più aperto a una soluzione, a un risolvimento delle cose, che si presentano, dapprincipio, sempre e comunque nere e malate.
ROKUGATSU NO HEBIUn serpente di giugno di Shin'ya Tsukamoto
(...)Rokugatsu no hebi è a ben guardare il lavoro più ottimistico di Tsukamoto, quello più aperto a una soluzione, a un risolvimento delle cose, che si presentano, dapprincipio, sempre e comunque nere e malate. A Snake of June mette in scena tre personaggi malati: la moglie irrigidita che scopre di avere un tumore al seno; il marito vicino ma distante, immerso in un assenteismo di sentimenti che è affezione amorosa; l'estraneo, anch'egli con un cancro, che irrompe nella coppia scardinandone gli equilibri stantii e riportandola alla ricchezza carnale. La malattia del film, dunque, non è soltanto quella del corpo, ma soprattutto una condizione di vita, un rilassamento nel grigiore, che azzera la passione e appiana l'esistenza. Rokugatsu no hebi è il fratello gemello di Bullet Ballet per come ci (di)mostra l'osmosi anestetizzante e asfissiante dell'uomo e della donna con la modernità e l'imponenza claustrofobica della metropoli. In questo, la malattia è un sentimento dell'animo, prima che un marciume della carne; non propriamente il classico male di vivere, solipsistico e autarchico, bensì una continua e vicendevole infusione, tra uomo e mondo, che è necessaria commistione e lenta atrofizzazione.
Eppure, Tsukamoto questa volta non si ferma all'apocalisse senza speranza o a una possibilità di fuga che è però sogno illusorio (la corsa finale di Bullet Ballet). Proprio come nel capolavoro di Miike Takashi, Visitor Q, un terzo entra nel sordo caos di una famiglia, erodendolo a poco a poco, distruggendone l'ordine e nel contempo costruendone un altro attraverso la violenza, fisica e sessuale. Ciò che colpisce maggiormente, in entrambe le pellicole, è lo stato (intimo) delle persone, col tempo venutosi a configurare come "sottosopra". In Visitor Q, padre, madre e figlio adolescente (più figlia fuori casa che fa la prostituta, anche col padre) vivono in una villetta dove regna un assetto squilibrato: l'uomo c'è ma non c'è, la donna subisce le prevaricazioni del figlio e si fa in vena per tenersi su, il ragazzo sfoga in famiglia la rabbia per essere maltrattato in continuazione dai compagni di scuola. Lo sconosciuto che entra tra loro riesce a sistemare le cose, minando alla base l'ordine disordinato. E il ragazzo, alla fine, lo ringrazia per aver distrutto la sua famiglia.
In Tsukamoto, lo stato iniziale delle cose (costruito con ogni singolo film) è meno dirompente che in Miike, più attutito, più calmo. Ma non fa meno male, non è meno doloroso. L'ingresso dello sconosciuto nella quotidianità di lei, e di conseguenza in quella del marito, ha subito i colori e le coordinate di uno scossone inquietante e anche pauroso, però in seguito acquista i parametri di un'ossessione agognata, una dipendenza salutare per un colpo di spugna vitale. Anche qui, come in Miike, l'ordine disordinato viene messo in ordine con strumenti weird, che passano dal canale dell'intrusione domestica fino al tormento estatico dello e per lo sguardo. E si tratta di uno sguardo lucidissimo sull'uomo, quello di Miike e Tsukamoto (non per niente il primo ha voluto il secondo come interprete in Ichi The Killer, nel ruolo di un infernale deux ex machina), un pugno nello stomaco di ogni istituzione o desiderio borghese. Però sia l'uno che l'altro sanno concedergli una via d'uscita, che si conquista col dolore, che è piacere (e viceversa). Nei lavori di Tsukamoto Shin'ya, una simile apertura non si era mai vista. Se ci ha sempre abituato a conclusioni esplose sul mondo ma comunque incatenate da un pessimismo cosmico ineludibile (conclusioni, dunque, implose), con Rokugatsu no hebi ci fa vedere che è possibile guarire: basta prendere coscienza della propria malattia, sia essa un tumore o una cesura con l'altro, venirne a patti, saperla manovrare, fino a digerirla e magari annientarla, un processo in grado di portare appunto alla "civilizzazione di sé", cioè alla conoscenza e alla consapevolezza dell'identità e del proprio corpo, anche monco, anche impuro, ma almeno preso e saputo. Non basta né serve più acquisire valori tradizionali e generali per sopravvivere, ci dice Tsukamoto. Se di valori – termine irritante come pochi – si può parlare, allora deve essere riguardo all'ammissione cronenberghiana di una condizione, la propria, distrutta e infettata, mai così lontana dalla perfezione, eppure, una buona volta, conquistata e capita. Allora sì che si può di nuovo amare e scopare. E il mondo potrebbe sembrarci meno isterico, visto da una postazione privilegiata, a chilometri di distanza (ma dentro di esso in ogni caso). Non è facile.
Pier Maria Bocchi |