Asiamedia

Il vuoto tra i corpi

Giappone

Incontro con Takahashi Yoichirō al Festival di Cannes del 2000. Il regista parla di Nichiyobi wa owaranai (Una domenica senza fine) e del suo tentativo di osservare in modo quasi distaccato le vicende dei personaggi, senza dar conto allo spettatore del suo intervento autoriale.

IL VUOTO TRA I CORPIConversazione con Takahashi Yoichirō - Cannes 2000

Sono storie che si collocano nel margine sottile tra l'assenza e il rimpianto quelle narrate in Nichiyobi Wa Owaranai (Un dimanche inachevé), secondo film diretto dal giapponese Takahashi Yoichirō dopo Fishes in August (1998) e al termine di una lunga esperienza maturata con il documentario e la fiction televisiva nipponica.
 

Nichiyobi Wa Owaranai (presente a Cannes nella sezione Un Certain Regard) è un film splendidamente immobile dove il tempo e lo spazio sembrano voler sfuggire ad una geometrica forma di rappresentazione, come se l'unica dimensione possibile fosse quella del disorientamento dello sguardo e dei sentimenti. Nel seguire il percorso del suo personaggio (un giovane ribelle che perde il lavoro, uccide il patrigno e trascorre il suo tempo in compagnia di una prostituta) Takahashi racconta una storia servendosi di pochi dettagli, accumulando poveri resti in quadri vuoti e silenziosi e privilegiando il prima e il dopo di qualsiasi gesto. Così, l'azione viene relegata, anzi, spinta nel fuori campo, sottratta allo sguardo, salvo poi restituircela in disordinati brandelli, nei rumori di vita quotidiana e nelle espressioni dei volti che animano i lunghi primi piani.

La ripetizione scandisce un ritmo diseguale e discontinuo, l'infinitezza dirige l'attenzione oltre il visibile, la dilatazione e l'attesa creano un tessuto narrativo sapientemente fragile, pronto a sfaldarsi, a perdersi nei vuoti profondi, fino a confondersi in luci e colori irreali.

Una delle cose che ci hanno maggiormente colpito del suo film è il fatto che la macchina da presa non segue i personaggi ma li cerca nei luoghi della finzione, senza creare alcuna complicità tra la camera e le figure.
È vero. Mi interessava non soltanto che la macchina da presa evitasse di seguire i personaggi, ma che, soprattutto, creasse lo spazio che esiste tra i personaggi stessi: le manifestazioni della natura, il cielo, l'atmosfera, il vento. Insomma tutte le situazioni che stanno attorno ai corpi, che guidano i personaggi del film e ne determinano la realtà.

Questo muoversi della macchina da presa crea però una sorta di disorientamento nello spettatore, che si trova come spaesato, spiazzato di fronte al film.
In realtà, il mio lavoro con la macchina da presa è stato il più neutro possibile. Non volevo che la camera avesse una sua volontà, influisse sul modo di vedere dello spettatore. Non mi piace, per esempio, che in un piano sequenza ci sia una zoomata in avanti. La camera sta nello spazio e deve lasciare che lo spettatore veda il quadro dalla distanza usuale. Insomma, non voglio che la macchina da presa imponga ciò che deve essere visto, la sua incidenza sul punto di vista dello spettatore non deve essere direttiva. In questo film volevo che la camera abitasse il vuoto che resta tra i personaggi.

A proposito di spazi, vedendo Nichiyobi Wa Owaranai riflettevamo sul fatto che nel cinema giapponese di questi ultimi anni è spesso presente il contrasto tra lo spazio metropolitano, impersonale e freddo, e la periferia, meglio ancora la campagna. Anche il suo film appare come sospeso tra queste due realtà.
In effetti, un tempo, in Giappone, c'era come una contrapposizione tra città e campagna: la gente nasceva in campagna e andava in città per lavorare, dunque si sperimentavano i due mondi e si sentiva la grande differenza che esisteva. Oggi, invece, c'è una sorta di omogeneizzazione, perché i giovani nascono nello stesso luogo in cui poi vivono - in città di venti o trentamila abitanti - e non cambiano mai il quadro della loro esistenza. Inoltre tutte le città sono identiche e in esse non si trova un autentico spazio vitale. Dunque oggi tutto è indifferenziato, non c'è più questa opposizione tra campagna e città. E anche i personaggi dei film subiscono questo livellamento.

Un'altra cosa che ci incuriosisce del suo film è l'utilizzo di due elementi preponderanti come il colore e i suoni, su entrambi i quali sembra esserci un lavoro molto forte.
Per quanto riguarda il suono, innanzitutto, nel mio film manca completamente la musica. Nella colonna sonora ho utilizzato solo i suoni d'ambiente, quelli che c'erano durante le riprese. Per contro, invece, dal punto di vista dei colori, non c'è nessun colore naturale, tutte le immagini sotto il profilo cromatico sono state manipolate elettronicamente. Questo perché sono convinto che la realtà dei colori non esista, i colori parlano all'inconscio, hanno un aggancio psicologico con la nostra interiorità. Per esempio il rosso delle mutandine non è un rosso naturale, ma corrisponde al linguaggio dell'inconscio dei miei personaggi. In questo film tutti i colori sono visti attraverso il filtro dell'inconscio dei personaggi.

Tornando al suono, nel film c'è la sequenza in cui Kazuya esce col padre dalla galleria che ha una piccola manipolazione della colonna sonora: per un attimo, infatti, i suoni d'ambiente vengono meno e tutto resta immerso nel silenzio Perché proprio in quel momento?
È uno stato dello spirito dei personaggi. Nel film i suoni provengono tutti dal reale, ma qualche volta, come in questa sequenza, ho manipolato la colonna sonora per riflettere lo stato spirituale dei personaggi. D'altronde penso che abbiate compreso che non amo tutto ciò che è troppo logico o simbolico: non riesco a spiegare in maniera logica o passionale tutto ciò che faccio, perché non è ciò che mi interessa. Così è successo per la parte sonora del mio film: bisogna ascoltarla come se fosse una musica che ho composto.

Avrebbe elaborato i colori del film anche se avesse girato in pellicola, o la manipolazione elettronica è una conseguenza del fatto che ha girato in digitale?
Credo di sì, avrei ugualmente agito sul piano cromatico del film anche se l'avessi girato in pellicola.

È interessante il modo di mettere in scena il sentimento del tempo che traspare nel suo film. Cosa rappresenta il tempo nel cinema per lei?
Penso che il tempo non sia uniforme, non scorre in maniera regolare. Ci sono delle accelerazioni e dei rallentamenti nel flusso del tempo. D'altronde in un piano sequenza io cerco sempre di vedere come posso esprimere questo tempo elastico, che passa un po' veloce e un po' lento. Cerco il più possibile di far capire allo spettatore che, diversamente dalla realtà, nel cinema il tempo non è regolare.

Infatti nel film ci sono dei momenti in cui il tempo sembra essere accelerato.
Quello che volevo era indicare le variazioni del tempo con il movimento della macchina da presa. Ci sono, inoltre, dei piani sequenza in cui è proprio il movimento di macchina a mostrarci il passare del tempo.

Nel film Kazuya uccide il patrigno senza un motivo apparente, eppure la sua colpevolezza appare molto lieve, come se il suo crimine discendesse dal vuoto interiore che lo attanaglia. Sembra quasi che sia questo vuoto a renderlo colpevole suo malgrado. C'è nel film l'idea di un'umanità colpevole del vuoto della sua realtà?
Non credo che sia un problema di colpevolezza, mi sembra piuttosto che nella vita di Kazuya, come nella vita di tutti, ci sia una parte che non comprendiamo. Che si tratti di un vuoto o piuttosto di qualcosa di più indefinito ancora non lo so: non si può spiegare tutto, capire tutto. Non è per cercare di dare un significato al film, ma credo che il punto sia piuttosto di cercare di capire cosa si può fare in rapporto a ciò che non capiamo di noi: come si può reagire, come si può uscirne. Non è solo una questione di vuoto, è la parte incomprensibile di noi a farci soffrire. E il film cerca di raccontare cosa possiamo fare con questa parte incomprensibile di noi.

Dicevamo questo perché ci sembra che nella sua maniera di lasciare fuori campo tutto ciò che nella storia è importante - persino l'uccisione - ci sia proprio l'idea di un vuoto che incombe sulla vita dei personaggi.
Certo, questa interpretazione è un vostro diritto di spettatori. Voi parlate del "vuoto" che sta al di fuori dell'inquadratura, io penso che volevo esprimere i miei interrogativi su ciò che possiamo fare con quello che è incomprensibile. Ma è lo stesso: voi parlate dal vostro punto di vista, io vi rispondo dal mio. La sostanza, tuttavia, non cambia

a cura di Massimo Causo e Grazia Paganelli