Se i lavori di Suzuki degli anni Sessanta rientravano ancora in un certo qual modo in coordinate di genere, Pistol Opera fa esplodere tutto, seguendo il corso accidentato del nostro mondo e della nostra cultura, che non riescono, pur tentandoci, a raggiungere un ordine.
PISTOL OPERAdi Suzuki Seijun
Seijun Suzuki, un genio del cinema mondiale, ha 78 anni. E fa un film così. Roba da non credere. Pistol Opera è uno dei film più sperimentali, ricchi e vorticosi degli ultimi anni. Che venga da un ribelle (non tanto ex, visto il presente), da uno che, negli anni Sessanta, si era opposto con incredibile forza e splendida cocciutaggine alle grandi case di produzione giapponesi, che alla fine lo licenziarono perchè non stava dentro i ranghi, le regole del genere (soprattutto yakuza eiga, i film di mafia e il nero), la deontologia filmica del tempo, mette di ottimo umore. Non tutto è perduto, dunque. Non tutto. Sono passati dieci anni dal suo ultimo lavoro cinematografico, Yumeji, e Suzuki decide di riprendere una delle sue pellicole più amate, innovative e affascinanti, La farfalla sul mirino (Koroshi no Rakuin, 1967; conosciuto da molti col titolo internazionale Branded to Kill), girarla di sesso –là un killer uomo che tenta la scalata alla prima postazione nella lista dei migliori killers del paese, qui una donna – e raccontarci il nostro tempo, il mondo in cui viviamo. Prova che ciò che fece in quei lontani tempi è di imprescindibile importanza, non soltanto in termini cinematografici, e che la perspicacia e l'intelligenza non si vendono al chilo. Pistol Opera possiede tutta la saggezza di un uomo che li ha sentiti sulla propria pelle, gli anni, con tutte le loro contraddizioni, esplosioni, desideri, violenze, immobilità; racconta un universo che spaventa per la somiglianza con quello di quattro decenni fa, senza snobismo o intellettualismo dimostrativi, ma standoci dentro, come in guerra, non in (dall')alto, mettendo in gioco pure se stesso e ciò che riesce a far meglio, il proprio cinema. Ed è qui lo scarto pazzesco di Pistol Opera, che non è un film quanto quelli di quarant'anni addietro, piuttosto un prisma di riflessi e significati che spiazza e rende scomoda la visione. Anche questo è cinema anarchico, che rifiuta la norma e si concede tutto alla libertà. Non c'è una cosa, una maniera o un intendimento che si possano definire comuni, in Pistol Opera. Non si tratta di follia di messinscena come di un Ken Russell dei tempi d'oro, quanto di spezzettamento del reale attraverso la confusione e forse anche la distruzione degli strumenti stessi della messinscena. Se me lo si concede, Suzuki usa il reale per dire e fare cinema, prima che viceversa; mette mano alla voracità abissale del mondo per raccontare di assassini, donne fatali, ragazzine con la violenza in fiore, armi e solitudini. Può apparire di grande presunzione, eppure i risultati sono lì alla portata di tutti. Se i lavori di Suzuki degli anni Sessanta rientravano ancora in un certo qual modo in coordinate di genere, Pistol Opera fa esplodere tutto, seguendo il corso accidentato del nostro mondo e della nostra cultura, che non riescono, pur tentandoci, a raggiungere un ordine. E così il film, oltre alle storiche e sempre sorprendenti ellissi e sottrazioni narrative (vedere come struttura le sequenze d'azione, come quella del duello tra la protagonista e un antagonista su sedia a rotelle, tutta scatti, scarti, spigoli), cerca di seguire la storia di Stray Cat No.3, killer femmina che elimina uno a uno i contendenti al primato di Primo Assassino No.1, per arrivare a constatare quanto tutto ormai sia illusione: ruoli, compiti, verità. La scalata di No.3 è una discesa nell'abisso del senso, verso la coscienza dell'inutilità e del fallimento. E la scritta finale a tutto schermo (in formato 1:1,33), "Il cadavere appartiene a me", prima del suicidio, rappresenta l'estremo tentativo di afferrare la propria identità, anche corporeo-carnale, perlomeno nella morte. Stray Cat, prima dell'atto ultimo, grida all'avversario di fronte a lei di non toccare, e, ancor più forte, di non guardare, azione visiva connaturata alla professione di killer (e infatti la figura della donna si sdoppia nelle due lenti di un cannocchiale, lo strumento del mestiere, insieme al mirino e alle armi da fuoco: epitaffio amaro e crudele). Per tentare di (re)impadronirsi di se stessi, nel buio del decesso, è bene essere soli e non visti, dopo aver vissuto e agito in un universo di sole immagini, per l'appunto illusioni, soltanto finzione. Riaffermare con la morte un'unicità personale, svanita in una vita di significati inafferrabili, ha radici lontanissime nella Storia e Cultura del Giappone, eppure oggi, a inizio secolo, possiede un valore inquietante, disagevole, quasi profetico, tutt'altro che antico: non per niente, durante il film compare spesso un proiettile con su inciso il numero "2001". E quei "Non toccare" e "Non guardare!" sono anche l'urlo di Suzuki, quello di quasi mezzo secolo fa e quello di adesso, che rivendica e pretende il diritto ad avere se stessi, che non è quello di essere in testa e primi, ma quello di sapere, la consapevolezza di ciò che è e ciò che è stato, dei tesori di cui ci è stato fatto do-no e dei quali non ci rendiamo conto, rendendoli soltanto cornice di un teatrino dell'assurdo (i pannelli-quadri che si schiudono nella scena in pre-finale, tra Mishima, Madonne e Goya) e testimoni di morte. |
Pier Maria Bocchi
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