Comicità e tragedia: l'equilibrio raggiunto nell'ultimo film di Zhang Yimou.
UN AUTOBUS CHIAMATO ILLUSIONELa locanda della felicità di Yimou Zhang
Titolo originale: Xingfu shiguang. Regia: Yimou Zhang. Soggetto: dal racconto di Mo Yan «Shifu». Fotografia: Yong Hou. Sceneggiatura: Gui Zi. Montaggio: Zhai Ru. Musica: San Bao. Scenografia: Cao Jiuping. Suono: Wu Laia. Interpreti: Zhao Benshan (Zhao), Dong Jie (Wu Ying), Dong Lihua (la matrigna), Fu Biao (Fu), Li Xuejian (Li), Leng Qibin (il fratellastro di Wu Ying), Niu Ben (Niu), Gong Jinghua (Liu), Zhang Hongjie (Lao Zhang), Zhao Bingkun (Lao Bai). Produzione: Zhao Yu, Zhou Ping, Zhang Weiping per Guangxi Film Studio/Zhuhai Zhenrong Co. Distribuzione: 20th Century Fox. Durata: 95'. Origine: Cina, 2000. Zhao, un uomo di circa cinquant'anni desidera trovare moglie. Dopo vari tentativi, crede di avere trovato finalmente la persona giusta. Inizia a frequentarla facendo così conoscenza del figlio e della figliastra, Wu Ying, rimasta cieca. Iniziano a pensare al matrimonio, ancora prima di conoscersi a fondo. La donna vorrebbe un matrimonio costoso e chiede all'uomo 50.000 yuen, una cifra che Zhao non possiede. Pur di sposarsi, Zhao le promette che troverà i soldi. Chiede prestiti ad alcuni amici ma nessuno è in condizione di aiutarlo. Uno di questi, Fu, gli propone di sistemare un vecchio autobus che giace inutilizzato in un giardino pubblico, e di affittarlo a coppie in cerca di un po' di intimità. Zhao dapprima è scandalizzato, ma non avendo altre idee per racimolare i soldi che gli servono decide di accettare. L'autobus, riverniciato, è ribattezzato «La locanda della felicità». La matrigna di Wu Ying, vuole liberarsi della ragazza, chiede dunque a Zhao di farla lavorare nel suo hotel (l'autobus, appunto). Con l'aiuto di Fu, Zhao simula una assunzione. Comincia a comprendere che la matrigna tratta male la ragazza, in realtà figlia di un suo debitore, che vive nella vana attesa di notizie del padre andato a lavorare in un'altra città (Shengen). Suo padre le aveva promesso che sarebbe tornato con i soldi necessari per curarle gli occhi. Costretti a fare a meno dell'autobus, rimosso da un carro attrezzi, Zhao, si sente costretto a proseguire a mentire. Coinvolge allora alcuni amici nel tentativo di risistemare parte di una vecchia fabbrica dismessa facendo credere a Wu Ying che si tratta di una sala per massaggi, dove lei potrebbe lavorare. La cosa sembra funzionare. Questa commedia amarissima presentata al 53° Festival di Berlino ruota permanentemente attorno al tema della solitudine, con cui ogni personaggio, e in particolare i due principali, Zhao e Wu Ying, deve confrontarsi. È un film lieve e crudele, la cui storia, tratta da una novella di Mo Yan, uno tra i maggiori scrittori contemporanei cinesi, sceneggiata da Gai Zi, vicedirettore di «Li Jiang», un importante periodico letterario cinese, è assunta da Zhang Yimou per darci ancora una volta personaggi forti sia pure nelle loro sconfitte, nella loro vita dolorosa, portatori di una speranza ostinata e immotivata. Del resto è la loro unica possibilità per vivere: proiettarsi nel futuro, e soprattutto aggrapparsi a un desiderio, che sia quello di trovare finalmente una compagna (per Zhao) o di ritrovare il padre (per Wu Ying) scacciando il cattivo pensiero che si sia dimenticato di lei. Vale la pena sottolineare questa origine letteraria, se non altro perché si conferma una volta di più l'interesse di Zhang Yimou alla trasposizione cinematografica di una storia nata come testo letterario. Ciò ha permesso al regista cinese di affrontare alcuni tra gli scrittori contemporanei più rappresentativi del suo paese. Mo Yan, l'autore della novella da cui il film è tratto, in misura maggiore di altri, dato che non è la prima volta che lo affronta, anzi, è stato proprio con Sorgo rosso che Yimou ha iniziato la propria carriera come regista facendosi conoscere anche in Occidente. La locanda della felicità ci propone la nascita di un'amicizia veramente strana, che cresce progressivamente, tendendo a non manifestarsi mai apertamente come tale, e soprattutto non viene presentata narrativamente come tema principale della storia. Soprattutto, si tratta di un'amicizia che cela fino all'ultimo quello che avrebbe potuto essere effettivamente il rapporto tra Zhao e Wu Ying: quello tra padre e figlia. Rapporto che trova consistenza solo nel finale, quando Zhao scrive per Wu Ying una lettera fingendo che questa sia stata scritta dal padre di lei. A questo proposito, non va dimenticato che ciò che porta i personaggi a "nascondere" i propri sentimenti, non risiede in un atteggiamento individuale dovuto al particolare carattere dei personaggi, ma è piuttosto un aspetto culturale proprio dello spirito orientale. Non dobbiamo interpretarlo come paura di aprirsi, ma, in un certo senso, come timore di ferire l'altra persona, o quanto meno di metterla in imbarazzo, e non riguarda la personalità dei singoli individui, quanto un sentire culturalmente e socialmente condiviso. L'ironia finale, ma meglio ancora si potrebbe dire il sarcasmo con cui ci lascia Zhang Yimou, risiede nel fatto che Zhao, per riscattare tutte le bugie che ha dovutodire, scrive una finta lettera. È senz'altro un'altra bugia, seppure a fin di bene, per potere confortare la ragazza, ma non solo. In questa falsa lettera troviamo tutta la sincerità di un uomo che parla serenamente a una ragazza come fosse effettivamente sua figlia. Purtroppo, però, questa lettera Wu Ying non la potrà mai leggere: la lettera – portata dagli amici di Zhao – arriverà in ritardo, quando Wu Ying sarà già andata via da sola verso un destino indecifrabile, senza sapere della sorte di Zhao, investito da un camion e privo di conoscenza in ospedale, e prima che i suoi amici le possano raccontare tutto. Sarà Fu a leggerla come a ubbidire a un desiderio dell'amico, quasi nell'intento che con la sua lettura, mentre fa riandare il nastro con in sottofondo il messaggio d'addio della ragazza, si compia un atto rituale, come se quest'ultimo sforzo di Zhao potesse ancora avere una qualche efficacia, e, quasi rabbiosamente – almeno a sentire il tono deciso con cui Fu legge la lettera – pretendere che non sia stato inutile. Non padre non figlia La lettera che Zhao scrive, dopo la sbornia, per Wu Ying, fingendo che sia il padre di lei ad averla scritta è comunque una lettera onesta. Tutto l'amore, tutto l'affetto che lo stesso Zhao desidererebbe dare e ricevere si concentrano in questo atto totalmente disinteressato, cambiando dunque di segno rispetto alla recita che ha condotto fino a quel momento nei confronti di Wu Ying e della matrigna. Ora prova realmente affetto per Wu Ying e vorrebbe che almeno lei non si sentisse sola e abbandonata. Ancora una volta Zhao cerca una soluzione alle difficoltà mentendo, ma mentre prima mentiva soprattutto per sé, ora non più assillato dall'idea di dovere trovare dei soldi per sposarsi, lo fa per Wu Ying, perché la ragazza possa ancora mantenere e conservare nel profondo del cuore una speranza, una illusione, e forse perché possa credere che il padre, in fondo si ricorda ancora di lei, e non perché le lettere che scrive alla matrigna senza mai citarla sono dovute semplicemente a un debito non ancora estinto. Più volte, nel corso del film, mi è venuto in mente Charlie Chaplin. Ma al di là di alcuni elementi di troppo facile associazione (la ragazza cieca, la vita emarginata nella città, la difficoltà di racimolare un po' di soldi per tirare avanti, le stesse bugie di Charlot e il suo impegno disinteressato a favore della ragazza per farle riavere la vista), La locanda della felicità non è Luci della città, sono altri piuttosto i veri elementi di contatto, e primariamente credo che si possano rintracciare là dove si miscelano sapientemente le situazioni buffe e grottesche con quelle potenzialmente drammatiche. Meglio ancora, si può dire che nel film di Zhang Yimou il dramma è abitato dal grottesco. Zhao, consapevolmente o meno, libera la ragazza dalla sua condizione di prigioniera o almeno di "cenerentola", a cui l'aveva relegata la matrigna. Per fare questo tuttavia inventa una vera e proprio rappresentazione teatrale: assieme ad alcuni amici (un gruppo di pensionati) si inventa una sala massaggi costruita all'interno di una fabbrica abbandonata, facendo credere a Wu Ying che si trova nell'albergo di cui egli è direttore. I suoi clienti altro non saranno che gli amici di Zhao. In questo modo, il tema narrativo fortemente drammatico legato alla giovane Wu Ying, quello della cecità, della vita difficile in casa della matrigna e dell'attesa del padre, o almeno di sue notizie, vivendo nel timore di essere stata abbandonata, è temporaneamente accantonato. La ragazza certo capisce che Zhao non è di fatto il direttore di un albergo e che quella non è una sala massaggi di lusso, ma non si sente presa in giro, ed è questa la vera liberazione per Wu Ying. Nonostante sia tutta una messa in scena, nonostante capisca che i suoi clienti non le danno soldi veri per mancia ma solo, almeno da un certo momento in poi, dei fogli di carta (perché sono solo poveri pensionati e non ricchi frequentatori di sale di massaggio), si sente finalmente felice. In questa finzione Wu Ying non si sente ingannata, piuttosto teme di diventare un peso. Comprende che Zhao ha difficoltà finanziarie e che per qualche curioso miracolo sta aiutando proprio lei. Per questo deciderà di allontanarsi dalle uniche persone che si sono in qualche modo prese cura di lei, per pudore, per un senso morale che i personaggi di tutti i film di Zhang Yimou è profondamente radicato e che fa loro affrontare a testa alta qualsiasi delusione e qualsiasi sconfitta. Zhang Yimou dà ampia prova di sapere unire riso e pianto, costruzione narrativa e cinematografica di cui Chaplin è stato indiscusso maestro. Questo spirito chapliniano persiste in un'ambientazione moderna, ma dove la città stessa, anonima e senza identità, fatta di palazzi e strade ripresi troppo da vicino per avere un quadro di insieme, di periferie e fabbriche dismesse, non può che essere ancora il luogo ideale per una vicenda in cui i personaggi subiscono la propria solitudine. Senonché nel finale il riso stesso (e l'inossidabile speranza nel futuro propria di Chaplin) perde forza. Il pianto a fatica trattenuto della giovane Wu Ying che cammina per le strade della città verso un futuro quanto mai incerto, lascia attonito lo spettatore, smarrito di fronte a un finale in cui le strade dei personaggi sembrano essersi perse per sempre. Nulla ci è dato immaginare della vita futura dei personaggi. È un finale perfetto perché difficile da accettare, perché vorremmo comunque aggrapparci a qualcosa pur di addolcire la pillola che ci viene riservata, e questo qualcosa non potrebbe essere altro, in fondo, che una bugia, proprio come farebbe Zhao. L'odore dei soldi Ma i soldi, quelli veri, sono anche l'ossessione del film, e la molla che spinge Zhao a mentire. Nel film ritorna continuamente l'attenzione al costo delle cose: dei vestiti, dei fiori, del cibo. Per esempio, dopo che Wu Ying ha ricevuto le prime mance (quelle vere) e camminando con Zhao esprime il desiderio di comprare un gelato, questi non glielo permette e vuole offrirglielo, salvo poi ripiegare su un ghiacciolo visto il costo troppo elevato. Eppure Zhao, senza sentimentalismo, ma evidentemente con un sentimento sincero, quasi inconsapevolmente è talmente preso dal tentativo di non deludere la presunta illusione di Wu Ying, da trascurare la ricerca dei soldi per il proprio matrimonio. La scelta istintiva, generosa, propende maggiormente per un mai dichiarato affetto paterno per Wu Ying, che non per il desiderio di sposarne la matrigna. Arrabattandosi come può, non appena riesce ad avere un po' di soldi, li spende per comprare un vestito a Wu Ying, o a distribuirli agli amici, perché le lascino le mance, oltre a comprare rose per la matrigna. La lotta di Zhao per avere soldi è senza speranza. Non appena riesce ad averne un po', non può fare altro che spenderli, e per averne si trova costretto a vendere alcune delle poche cose che possiede, peraltro di poco valore. La locanda della felicità è ambientato in una cittadina cinese dei nostri giorni, alcuni hanno detto "post-comunista". La città in cui si svolgono le vicende narrate non ha nome, è anonima, irriconoscibile. La forma della metropoli o della città moderna è, in fondo, di non avere forma, e i personaggi che vi si aggirano, sono come dei ciechi, né più né meno di Wu Ying. Il costante fuori campo di questo film è proprio la presenza di un ambito cittadino in cui nulla vi è di familiare. D'altro canto non ha importanza che della città si possano riconoscere strade, luoghi o monumenti, o meglio, meno la città ha una identità, più risalta con forza il senso di smarrimento e di solitudine dei personaggi. Ciò che ne guida le azioni, come abbiamo visto, sono esigenze così contrastanti da fare entrare in crisi il povero Zhao: da un lato gli affetti, dall'altro il denaro. In fondo Zhao sperimenta che, se per avere affetto, una famiglia, è necessario avere denaro, egli è battuto in partenza. L'unica famiglia possibile sarebbe allora Wu Ying, e anche quest'ultima si trova in fondo nella stessa situazione, solo Zhao potrebbe essere il "surrogato" di un padre di cui si è atteso invano il ritorno. Davvero non possiamo credere che la coraggiosa scelta di Wu Ying, di abbandonare l'appartamento di Zhao, sia ancora dettata dall'impulso di cercare il padre. Il pianto di Wu Ying mentre cammina sola lungo le strade della città, in inquadrature prive di orizzonte e di visioni di insieme ma chiuse sul primo piano della ragazza, è piuttosto la presa di coscienza definitiva di chi sa di essere sola, di dovere contare solo su se stessa, dando addio a illusioni e a desideri irrealizzabili. Eccoci allora di fronte alla drammaticità fino a ora tenuta nell'angolo dal grottesco. L'ottimismo drammatico di Zhang Yimou si manifesta ancora una volta: Wu Ying continua ad andare avanti da sola, verso il domani, ma senza pensare al domani, non più sperando come ha fatto sino a ora (e come farebbero ancora i personaggi chapliniani) di potere riabbracciare suo padre, non più sperando di potere riacquistare la vista, ma semplicemente obbedendo a quell'imperativo che una poetessa come Bella Achmadulina ha racchiuso, un giorno, all'interno di un verso indimenticabile: «La vita ha un'abitudine, vivere, qualunque cosa ti succeda». Note Certo non ne porta quella ostinata "speranza", propria del comico, quella visione ottimista della vita, qualunque essa sia, attraverso il riso. È piuttosto un ottimismo testardo che più facilmente può scivolare nel drammatico. Tuttavia sarebbe molto interessante, a mio modo di vedere, approfondire queste somiglianze attraverso una lettura parallela dei due film. |
Fabio Matteuzzi