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Il guardare fisso di Ozu

Giappone

Dal libro di Bruno Fornara, Geografia del cinema. Viaggi nella messinscena – "un viaggio di sequenza in sequenza, di film in film, come se si viaggiasse di tappa in tappa su una cartina geografica del cinema" -, la parte del quinto capitolo dedicata a Ozu e alle componenti essenziali del suo modo di fare cinema..

IL GUARDARE FISSO DI OZU

(...) Ozu Yasujirō parla di un suo film, Crepuscolo di Tokyo, dice che avrebbe dovuto adottare "un'ottava" diversa: "In una scena del film la figlia si arrabbia furiosamente; sarebbe stato meglio se avessi lasciato fluire tale emozione naturalmente. Mi rendo conto che la mia "ottava" era troppo bassa. Avrei dovuto partire con un'"ottava" più alta e trattare il tema con maggiore drammaticità. Dal momento che l'"ottava" di un regista è però qualcosa di innato, non la si può modificare facilmente. Naruse ed io siamo registi dall'"ottava" bassa. Kurosawa e Shibuya viaggiano, in proporzione, su un''ottava' più alta. Mizoguchi sembra possederne una bassa, ma in realtà è alta. Ogni regista ha la sua propria "ottava"".
 

Breve considerazione per indicare una coincidenza profonda: abbiamo sentito Godard parlare del suo "desiderio inconscio di fare un po' di pittura, un po' di musica"; poi Mizoguchi ci ha detto che "se nella curva di una scena appare, con una forza crescente, un accordo psicologico, non posso allora eliminarlo d'un tratto senza rimpianto"; adesso Ozu parla di ottava, per indicare l'altezza dell'intonazione di un regista. Riferimenti alla musica e metafore musicali per dire che nel cinema, come nella musica, c'è qualcosa che sfugge a ogni presa e definizione. Qualcosa che l'immagine contiene e che sta al di là di ciò che l'immagine designa. Dev'essere per catturare questo qualcosa e questo di più che i registi fanno cinema, è di questo che vanno in cerca.

Ancora Ozu: "Da giovane ero molto interessato alle possibilità tecniche della macchina da presa. Ero solito preparare una scena in un modo e la successiva in un altro. Ma oggi uso tecniche che tutti sono in grado di capire. Per esempio, per ritrarre lo stanco pomeriggio in un ufficio è possibile ricorrere a diverse tecniche. Gli impiegati sono allineati uno a fianco all'altro: un primo sbadiglia, e poi sbadiglia anche quello vicino. La cinepresa continua a carrellare riprendendo l'uno dopo l'altro tali sbadigli. Ancora si muove, ancora uno sbadiglio. Ancora un movimento e questa volta l'impiegato di turno non sbadiglia. Un nuovo movimento cattura un nuovo sbadiglio. È questo che si intende quando si parla di tecnica cinematografica. Ma oggi non ho alcun interesse per cose simili". Oggi è il 1958, l'anno in cui Ozu rilasciò questa intervista.

Un'altra affermazione: "Ho utilizzato panoramiche e dissolvenze nel passato, ma ormai sono venticinque anni che non lo faccio più [quindi ha smesso di usare panoramiche e dissolvenze verso i primi anni Trenta]. Non muovo neppure la macchina da presa e questo perché non possediamo un'adeguata attrezzatura. La posizione della mia cinepresa è molto bassa e, tecnicamente, non è possibile muoverla. Inoltre non voglio che il pubblico percepisca i movimenti di macchina. Voglio che passino inosservati. Le dissolvenze poi sono ancora peggio".

Conclusione (ammirevole): "La mia filosofia quotidiana è questa: nelle cose futili seguo i capricci e le mode; nelle cose importanti seguo la morale; in arte seguo me stesso. Questa è la ragione per cui non ho niente da spartire con ciò che non mi piace".


Seguendo se stesso, Ozu è arrivato piuttosto presto, nei suoi film, a mettere a punto un sistema di scelte che è diventato stile di regia. Queste, in rapido elenco, le componenti essenziali del suo modo di fare cinema: 1) macchina da presa molto bassa, a livello dei tatami, le stuoie che coprono i pavimenti delle case giapponesi: e questa è una dichiarazione di umiltà, abbassamento, condivisione, accettazione, disponibilità; 2) presenza nell'inquadratura di giochi di superfici e di linee di fuga che costruiscono e percorrono geometricamente lo spazio, dalle porte scorrevoli che fanno da fondale o da quinte, alle finestre, ai tavolini, alle lampade, alla disposizione dei personaggi, alle bottiglie di birra... (un critico, Donald Richie, ha accostato il nome di Ozu a quello di Giorgio Morandi, pittore di bottiglie, vasi, teiere...): e questa è una dichiarazione di ammirazione per la tranquilla, tacita e inarrivabile perfezione del reale domestico e quotidiano; 3) uso dello spazio a 360 gradi, frequenti salti di campo, inversioni e ribaltamenti nella posizione dei personaggi, totale disinteresse per i "giusti" raccordi di sguardo e di movimento: dichiarazione di libertà rispetto a consuetudini linguistiche non necessarie; 4) uso di inserti e inquadrature di passaggio, in sostituzione delle odiate dissolvenze e in funzione di sospensione e pausa temporale: dichiarazione di amore e devozione per l'arte sospesa del suo paese; 5) uso di pause e di tempi morti, con inquadrature senza più nessuno in campo: dichiarazione di adesione al concetto estetico e filosofico Zen di mu, di vuoto, di vacuità (sulla tomba di Ozu è impresso un solo ideogramma, mu); e infine 6) macchina da presa (quasi sempre) fissa, immobile, ferma. Primo film, nel 1927, La spada della penitenza, andato perduto e non interamente suo perché lui era stato richiamato sotto le armi; cinquantaquattresimo e ultimo film nel 1962, Il gusto del sakè. Il percorso di Ozu può anche essere visto come un processo di progressivo abbandono di segni linguistici giudicati superflui, come una serie di scelte autolimitative, come una ricerca di rarefazione e di "impoverimento" che diventa definizione e approfondimento di una pratica di cinema e di uno stile di regia.

Tarda primavera, titolo originale Banshun, film del 1949, racconta, come tanti altri film di Ozu, una storia di rapporti familiari: un padre vedovo, il professor Somiya, sua figlia Noriko che non pensa a sposarsi per non lasciarlo solo, il padre che fa credere alla figlia di volersi sposare (invece non è vero), la figlia che si sposa, il padre che resta solo. Anche per quel che riguarda le storie Ozu è andato via via restringendo il proprio campo narrativo: la vicenda raccontata in Tarda primavera sarà ripresa altre volte, con variazioni, in altri suoi film. Ozu prosciuga il suo cinema, le storie e lo stile, per concentrarsi su alcuni motivi e segni, per lavorare in profondità. Nella profondità della superficie, vien da dire, tanto sono limpidi e profondi i suoi film.

Scegliamo due momenti di Tarda primavera. Nel primo, Noriko, interpretata da Hara Setsuko, e il padre, interpretato da Ryū Chishū, attore che compare in molti film di Ozu, vanno in viaggio nell'antica Kyōto e passano la notte in un ryokan, un albergo in stile giapponese. Inquadrature molto semplici, sempre con macchina da presa ferma, i volti dei due, la stanza con le porte scorrevoli e il loro disegno geometrico dai tanti scomparti rettangolari. Parlano di Kyōto, l'indomani lei andrà a vedere i musei, è felice, spegne la luce, si scusa, pensa di essere stata indelicata con Onodera, l'amico del padre che si è risposato, ha pensato che quella di risposarsi fosse una scelta immorale, il padre la rassicura, non è grave. 6 inquadrature, adesso. 1) Primo piano di Noriko con lo sguardo diretto verso l'alto, verso il soffitto della stanza, dice al padre di aver pensato che anche lui era immorale quando ha detto che voleva risposarsi, poi guarda verso destra, verso il padre, fuori campo. 2) Primo piano del padre, che dorme o finge di dormire, si sente il battito di un orologio. 3) Primo piano della figlia che guarda verso l'alto e sorride, si sente il padre russare. 4) Campo medio, un vaso davanti alle finestre illuminate su cui la luce disegna l'ombra di alcuni rami. 5) Primo piano di Noriko, ora senza più sorriso, il volto composto e triste, si sente sempre il russare del padre. 6) Ancora l'immagine del vaso. Comincia una musica che trascorre sull'inquadratura seguente, un giardino zen dalla sabbia bianca e dai grossi sassi, ed è l'inizio di un'altra sequenza.

Il secondo momento che prendiamo da Tarda primavera è il finale. Noriko si è sposata, il padre torna dalla cerimonia, si ferma a bere del sakè in un piccolo locale insieme ad Aya, un'amica della figlia, le confessa di aver dovuto dire una bugia, lui non ha intenzione di sposarsi, Aya gli dice che è un uomo meraviglioso, lo bacia in fronte, beve con lui un quinto sakè, gli promette che andrà a trovarlo. Mancano 10 inquadrature alla fine, tutte naturalmente a macchina fissa. Eccole. 10) Il bar vuoto, nessuno nell'inquadratura, le linee e i riquadri delle porte, una lampada in alto, la luce si spegne. 9) Il professore torna a casa, butta la sigaretta, entra in casa, la stradina vuota. 8) L'interno della casa, le linee delle porte come quinte che ritagliano gli spazi, per qualche attimo non c'è nessuno, poi arriva la domestica, entra il professore, saluta la domestica e la congeda. 7) Il soggiorno visto da una stanza buia in una inquadratura con la zona centrale, il soggiorno, in luce, circondata ai due lati e nella parte superiore dalla fascia buia dell'altra stanza. Il professor Somiya si toglie l'abito da cerimonia, lo appende, si siede. 6) Primo piano, l'uomo seduto, lo sguardo fisso quasi incantato sul niente, sul tavolino accanto c'è una mela, la prende e con un coltellino comincia a toglierne la buccia. 5) Dettaglio delle mani che sbucciano la mela, il nastro della buccia che scende. 4) Primo piano del professore, l'espressione del volto è enigmatica: sorride?, è triste? 3) Dettaglio sulla mela, le mani, la buccia, il coltellino che si ferma, un attimo di sospensione, la buccia si stacca e cade. 2) Somiya seduto, ripreso lateralmente, un poco da dietro, non ne vediamo bene il volto, si abbandona, abbassa la testa e le mani. 1) Ultima immagine del film. Il mare, una spiaggia, le onde che vengono a riva. Il vaso e la mela. Due cose cui viene affidato il compito di indicare ciò che è nascosto e presente. Due cose semplici, senza particolare valore. Semplicemente un vaso e una mela. Anche meno di una mela: la buccia di una mela (e insieme al vaso, in colonna sonora, il russare del padre). Un percorso di inquadrature fisse per individuare un luogo dove convergono sentieri in apparenza divergenti: il luogo (molto orientale) dell'accettazione e della consapevolezza che ciò che esiste è, per il fatto stesso di esistere, effimero. Un percorso tra concentrazione e distensione, tra vicinanza e abbandono, tra il sentirsi prossimi e il sapersi lontani. Tra l'armonia e il distacco. Siamo passati con Ozu, quasi senza accorgercene, sull'ultimo dei quattro continenti della nostra cartina geografica del cinema. Quello della fissità, là dove la macchina da presa guarda ferma e immobile, là dove assistiamo a una radicalizzazione dello sguardo che prima, sul terzo continente, si dispiegava nel plan. Nel cinema del plan si fanno tante cose (troppe?): si conserva la durata dello sguardo, ci si muove dentro un luogo, lo spazio e il tempo vengono conservati in uno sguardo lungo, mobile e profondo. Qui, nel cinema della fissità, si fa una cosa sola: si guarda per sguardi fermi, brevi (come in Ozu) o più lunghi, anche lunghissimi. Si guarda e ciò che si vede, ciò che la macchina di Ozu vede con i suoi sguardi bassi (kenotici: ci spiegheremo più avanti) e tranquillamente fermi, è insieme l'essere qui e l'essere lontano delle cose, delle persone e del mondo: l'armonia e il distacco, appunto. Il guardare del cinema di Ozu è la rappresentazione di quella consapevolezza che ci coglie nell'accettare il mondo e l'esistenza nel loro essere transitori. Un vaso posto davanti a una finestra illuminata e percorsa dall'ombra di un ramo indica questo enigma ultimo. Bastano un vaso, una mela e un guardare calmo e fisso (e l'ascoltare il russare di un uomo) per raggiungere e indicare il fondo della superficie. (...)

Bruno Fornara, Geografia del cinema. Viaggi nella messinscena, BUR, 2001