Gohatto mette in scena il potere dell'ultima bellezza possible, una bellezza che vince su tutto e su tutti. E niente, il mondo, gli uomini, sarà più come prima. La liberazione dei sensi e del desiderio, che sia sessuale, di possessione o soltanto di visione, disordina e confonde. E dietro di sè non può che lasciare un paesaggio di morte...
LA BELLEZZA INUMANA E L'ARTE DELLA SPADA TABÙGOHATTO DI ŌSHIMA NAGISA
1865, Kyōto. Due valorosi samurai, il taciturno ed effeminato Kano Sozaburō e il più irrequieto e sanguigno Tashiro Hyozo, si qualificano con la loro capacità nel duello a entrare nella casta elitaria Shinsengumi. Il comandante Kondo sceglie proprio Kano come boia per giustiziare un membro che ha tradito il rigidissimo codice d'onore e obbedienza dei samurai: Kano svolge il compito con risolutezza e grande freddezza. Intanto Tashiro si innamora di Kano, che respinge le sue avances, ma ben presto si diffonde la notizia di una loro relazione. Di Kano si innamora anche Yuzawa, geloso di Tashiro. Quando Yuzawa viene ucciso, i sospetti si sprecano: per evitare disordini, il tenente Hijikata pensa di svezzare Kano in un bordello, senza concludere nulla. Kano continua a creare desiderio e caos, che per molti si riveleranno fatali. Gohatto mette in scena il potere dell'ultima bellezza possibile con la stessa forza interiore e rigore morale di La vergine dei sicari. Ma nel film di Schroeder essa perde, su tutto e tutti. Qui vince, su tutto e tutti. Ed è una vittoria deflagrante, apocalittica. Ōshima sembra spingere quel potere dentro le pieghe del mondo rappresentato e dell'immagine, cercando di farcelo stare, ogni goccia, ma è così incalcolabile che alla fine Hijikata non può che farlo esplodere. E niente, il mondo gli uomini, sarà più come prima. Fernando, in La vergine dei sicari, vede morire, in un universo di morte, anche il solo spiraglio di un'estasi. Hijikata vede l'estasi del bello trionfare, ma è comunque un paesaggio di morte. La ricerca della ragione Persino gli uomini, oggetti quasi ingombranti, che Ōshima, più che accarezzare o avvicinare, pare voler attraversare, comunque andare a vederci oltre. È un movimento di sfondamento del chiuso che arriva a di-mostrare lo spazio aperto, il fuori, per constatare che anch'esso ha i colori e le sfumature della sconfitta, su ogni campo: dell'ordine, dei codici, della ragione, della comprensione delle cose, dell'afferrabilità degli eventi e dell'esistenza. Gohatto viene letteralmente reciso. Ōshima mette in atto lo stesso meccanismo che gli permise di rivoltare presente e passato, alla ricerca di una verità inafferrabile e forse inesistente, nel bellissimo Notte e nebbia del Giappone, dove la messinscena ai limiti dello sperimentale, con continui piani sequenza allargati e salti spazio-temporali, cercava di rimestare nel dato – comunque mai determinato e etichettabile, anzi sempre sfuggente e, appunto, buio e nebbioso – per tentare di trovare il non dato. Qui quello sperimentalismo di quarant'anni fa, così ansioso e quasi isterico, si è come asciugato, rarefatto, non rasserenato, si badi, perchè lo stile di Gohatto è tutto tranne che in pace con se stesso e col mondo: è sempre una maniera di rottura e di ricerca, solo prosciugata e meno visibile, se non negli ultimi quindici minuti, dove i toni del sogno e del surreale riacquistano potere, come a voler riappropriarsi, con mezzi che si spera più efficaci, invano, di un senso che, si conclude, non c'è. Due anni dopo Notte e nebbia del Giappone, nel 1962, ci fu una pellicola di Masaki Kobayashi, Harakiri (non era l'unica, in un'epoca assai rigogliosa, ma certamente fu una delle più belle e importanti, e di sicuro più rappresentative in questo senso), che cercò anch'essa di rimestare nel dato per arrivare al non dato e alla demolizione e demistificazione di organismi, norme e ordini secolari come quello dei samurai, con uno stile però lontano dallo sperimentalismo oshimiano, e vicino alla sinuosità essiccata di Gohatto: solo che il meccanismo di lentissima e dolorosa erosione veniva attuato con la parola, più che con il mezzo tecnofilmico. Non che in Gohatto non si operi pure attraverso il dialogo, anzi, ma mi sembra che sia il matematicismo registico senza utilità – e non inutile – di Ōshima a cogliere l'occhio, più che le parole l'udito. In questo Ōshima dimostra una coerenza e un rigore straordinari: la sua visione delle cose, un po' come accade per molti registi del Giappone di adesso, da Kiyoshi Kurosawa a Takashi Miike, è davvero buia e nebbiosa, perchè non si riesce a tirare le fila di ciò che ci circonda. D'altronde, come si possono comprendere i meccanismi d'amore e morte di Ecco l'impero dei sensi, o quelli di passione incontrollabile di Max amore mio? Tutto la progressiva trapanazione dello spazio e degli oggetti, in Gohatto, spazio geometrico nelle sue linee essenziali, come labirintico, anche se estremamente lucido, sfocia dunque nell'esplosione mishimiana della parte finale. Il taglio del tronco è anche l'eliminazione definitiva dell'ostacolo: dopo quello, non c'è luce, ma solo presa di coscienza dell'ombra totale. In questo Gohatto appartiene senza dubbio a quella manciata di film che valgono non poco, oggigiorno, fatti di ostacoli alla vista e alla comprensione, allo svolgersi degli eventi e alle ragioni degli stessi, da Insider a Yi Yi a In the Mood for Love: il loro scavalcamento non porta a nessuna spiegazione o chiarimento, soltanto alla consapevolezza del nulla. Lo stile di Gohatto, dunque, non è l'ondulamento percettivo cullante dell'Hou Hsiao-Hsien dello splendido Flowers of Shanghai, ma ricorda più la frontalità che improvvisamente si squarcia a voragine del Seijun Suzuki di Kanto Wanderer, nella sequenza di un duello in una stanza in cui la vittima, colpita a morte, abbatte i tre pannelli di fondo, rivelando un panorama di un rosso accesissimo, puro sangue. Il trionfo del bello Come lo sguardo di Ōshima, Kano fende l'aria, lo spazio e gli oggetti in esso racchiusi, dissotterando con violenza, più che creandoli, il caos e la confusione che ristagnano appena sotto la superficie di un ordine apparente, quello dei samurai, quello degli uomini: ovvio che essi cerchino di venirne a capo e che non arrivino a nulla che non sia la constatazione ultrapessimistica della loro impotenza di fronte a un fenomeno così sfuggente come la bellezza estatica L'impressionante entrata in scena della prostituta pronta per Kano nel bordello, tre stacchi come stregati e increduli davanti a un incanto così prepotente e lentamente fulmineo che poi scompare fuori quadro a destra per non apparire più, immagine inspiegabile e quasi inumana che pare venire dal nulla e andarsene nel nulla, è la confessione di Ōshima sulla sua stessa impotenza di carpire i significati della bellezza: non importa quanto si cerchi di sfondare, allargare, bucare, perchè tutto quello che si può fare è osservare, e soccombere. Strano (o forse no), ma viene alla mente L'uomo che cadde sulla terra di Roeg, dove, con un passaggio inverso, gli irraggiungibili e misteriosi contorni dell'armonia di Bowie non riuscivano a sopportare la monotonia e il grigiore della mediocrità. Gohatto è dunque anche la vendetta del bello: dopo anni in cui il mondo l'ha calpestato, incapace di coglierne i tratti e goderne, oppure saggiandone con sufficienza l'immagine, adesso è il bello a calpestare il mondo e trionfare. La liberazione dei sensi e del desiderio, che sia sessuale, di possessione o soltanto di visione, disordina e confonde. E, come detto, ciò che lascia è un paesaggio di morte: i ghirigori mentali di Hijikata alla fine, irrequieti e ansiosi come la regia di Ōshima, che in quei momenti viene dritta da certo fantastique giapponese degli anni Sessanta, come i film di Kaneto Shindo e del già citato Masaki Kobayashi, conducono soltanto alla consapevolezza dell'irraggiungibilità del bello, oltre che del suo senso e, di conseguenza, del senso di ciò che è accaduto – in una parola, la verità. Cos'è che ci fa morire, soprattutto dentro? Ōshima e Gohatto rispondono: la grande normalità, che si traduce in assoluta incapacità, quella che non ci permette di sfondarci e che ci obbliga a restare lontani da ciò che conta. |
a cura di Pier Maria Bocchi