Ci parli di lei: da dove proviene, cosa insegna a Ca’ Foscari, quali sono i suoi interessi e i suoi ambiti di Ricerca.
Mi chiamo Luigi Perissinotto e a Ca’ Foscari insegno Filosofia del Linguaggio. Almeno fin dagli anni dell’Università il linguaggio è stato al centro dei miei interessi di studio e di ricerca e delle mie molteplici, anche se spesso disordinate, letture. Ciò mi ha portato in quegli anni e negli anni successivi a dedicare ampio spazio nei miei studi a quei filosofi e atteggiamenti filosofici che hanno fatto del linguaggio, se non il tema esclusivo, quantomeno uno dei loro principali punti di riferimento. Nasce da qui, tra l’altro, la decisione di dedicare prima la mia tesi di laurea e poi quella di dottorato a Ludwig Wittgenstein, un filosofo che, soprattutto nel periodo in cui frequentavo l’Università, non godeva, almeno in Italia, della fama acquisita successivamente; ma da qui nasce anche il mio interesse per i vari e molteplici modi in cui il linguaggio è stato studiato, per un verso, dalla filosofia analitica e, per un altro, dalla filosofia della tradizione heideggeriana ed ermeneutica. Da questo punto di vista, non mi sono mai riconosciuto in una specifica “scuola filosofica”, ma ho sempre cercato di muovermi “liberamente”, anche, se spero, con il necessario rigore, tra approcci e orientamenti diversi di ricerca.
Quali sono i filosofi che hanno segnato la sua ricerca filosofica?
Nel corso degli anni diversi sono stati filosofi che hanno segnato e orientato il mio cammino filosofico. Per quanto riguarda gli anni dell’Università, non posso non ricordare, innanzitutto, l’insegnamento di Emanuele Severino. Non sono mai stato, come si amava dire tra noi studenti, un “severiniano”, ma credo di aver imparato moltissimo dai suoi libri e dalle sue lezioni. Ma, ovviamente, la mia formazione deve tantissimo a Mario Ruggenini, che è stato prima uno dei miei docenti e poi il mio relatore di tesi. Per più di trent’anni ho discusso con passione e intensità di filosofia con Ruggenini, imparando più di quanto qualche volta abbia voluto ammettere e sentendomi sempre libero, discutendo con lui, di essere me stesso. Almeno altri due nomi sento il bisogno di citare: Carlo Sini, che è stato il direttore della mia tesi di dottorato e che mi ha indicato vie e scenari nuovi e inediti, tra fenomenologia e pragmatismo e Diego Marconi, che è sempre stato per me, oltre che un amico, l’esempio di una ricerca filosofica capace di unire passione e rigore argomentativo. Ma, com’è ovvio, potrei (e dovrei) continuare la lista, ricordando Paolo Leonardi, Umberto Galimberti, Paolo Legrenzi, Salvatore Natoli, Luigi Vero Tarca, Tullio De Mauro, Donald Davidson. Ma più aggiungo nomi, più corro il rischio di ingiuste omissioni.
Ha sempre pensato che questa fosse la sua strada?
Iscrivermi a filosofia non è stata la mia prima e indiscussa scelta; ho esitato a lungo tra filosofia, per l’appunto, e fisica, matematica, statistica e architettura. Non saprei dire se vi fosse qualcosa che accomunava tutti questi ambiti e discipline, ma devo ammettere che ancora adesso, dopo tanti anni, penso (senza rimpianti, però) non solo a quello che ho appreso e avuto decidendomi per la filosofia, ma anche a tutto quello che non ho appreso e avuto non iscrivendomi, che so, a matematica o a fisica. Anche l’insegnamento universitario e la ricerca non sono state per me scelte ovvie e scontate. Non solo perché la via dell’Università era, come ancora è, una via tutt’altro che facile, ma anche perché non sono mai stato convinto che la ricerca filosofica, con i suoi tempi lunghi e i suoi risultati incerti o elusivi, facesse veramente per me. Detto questo, sono comunque contento di essermi infine deciso prima per la filosofia e poi per l’Università.
L’ ambito di cui si è sempre voluto occupare ma che non ha ancora avuto occasione di esplorare?
In realtà, sono moltissimi gli ambiti, per limitarsi alla filosofia, di cui avrei voluto occuparmi. Per esempio, sento (e so) che le mie competenze nell’ambito della logica sono parziali e limitate. Se potessi tornare indietro, darei più spazio sia nella mia formazione che nella mia ricerca alla logica. Lo stesso vale per l’epistemologia, anche se in quest’ambito le mie conoscenze e competenze sono forse meno deboli e incomplete rispetto alla logica. In effetti, soprattutto negli ultimi anni ho dedicato parecchio tempo e studi a questioni epistemologiche, soprattutto in relazione ai dibattiti sullo scetticismo e sul relativismo (epistemici). Ho spesso anche sentito la necessità di allargare e approfondire le mie conoscenze relativamente alla storia della filosofia, in particolare per quanto riguarda la filosofia medioevale (una delle mie deficienze più grandi ed evidenti).
Cosa significa, per lei, insegnare e fare ricerca?
Non mi è facile rispondere a questa domanda senza dire banalità. Mi limiterei a dire che insegnare significa, per me, almeno due cose: (a) condividere il più possibile con i miei studenti le vie, le difficoltà, le esitazioni e dubbi, ma anche le scoperte e le “illuminazioni” che segnano la ricerca filosofica; (b) far capire loro che ogni ricerca richiede, oltre che passione, fatica, dedizione e pazienza e che, in questo ambito come in molti altri, le scorciatoie sono, se non sempre, sicuramente spesso solo dei vicoli ciechi. In fondo, lo stesso vale per la ricerca: non vi è ricerca nel senso pieno della parola se un tema o un problema non ci appassiona, ma anche se non ci inquieta e quasi ci assilla. Ma la passione non basta; occorre fatica e dedizione e, soprattutto, occorre non dimenticare mai che, anche quando si studia o si scrive da soli, nella ricerca non si è mai soli perché di essa si deve sempre rispondere (secondo le varie accezioni di rispondere) agli altri.