Vania Brino per #ricercaèdonna: il lavoro nella “giungla” del diritto globale
Una foresta pluviale, un labirinto di vegetazione che ti porta a scoprire nuovi percorsi e differenti punti di osservazione. Vania Brino prende a prestito la metafora ripresa dalla sociologa del diritto Maria Rosaria Ferrarese per descrivere cosa si trova di fronte lo studioso del paesaggio giuridico globale. La foresta si contrappone al giardino all’italiana dell’epoca d’oro degli Stati, dove ogni pianta (ogni ordinamento giuridico, fuor di metafora) aveva il suo spazio entro confini predefiniti.
“Lo scenario descritto attraverso questa efficace metafora caratterizza anche il contesto di riferimento del diritto del lavoro, una materia che si è affermata per tutelare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e il cui orizzonte si compone oggi di nuove sfide regolative. Ciò caratterizza la dimensione nazionale, europea ed internazionale, moltiplicandosi le questioni giuridiche sullo sfondo e al contempo gli attori chiamati ad affontarle”, fa notare Brino, appassionata di diritto del lavoro fin dalla laurea a Ca’ Foscari. Il dottorato a Ferrara in Diritto comunitario e comparato del lavoro le ha permesso di allargare lo sguardo sul ‘paesaggio’ globale. Oggi è professoressa associata di Diritto del lavoro al Dipartimento di Economia.
Perché ha scelto di occuparsi di diritto del lavoro?
“Perché è una disciplina con un cuore, un’anima. E’ una materia giuridica che dialoga con la realtà e con i fenomeni sociali. Muove da istanze di tutela del lavoro e mette al centro i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici promuovendone l’affermazione indipendentemente dalle latitudini entro cui gli stessi operano e dal tempo storico e dalle sue evoluzioni”.
Quale la molla che l’ha spinta a studiare il contesto internazionale?
“Direi l’interesse a ragionare sulle complessità derivanti da un sistema multilivello di tutele che si dipana dal piano nazionale, a quello europeo ed internazionale. Ciò impone di guardare oltre, di confrontarsi con altri ordinamenti, di interrogarsi sul lavoro e sulle sue dinamiche evolutive all’interno di un ambiente in perenne trasformazione”.
Guardando alla realtà un po’ con il cuore e un po’ con la razionalità, a che punto siamo?
“C’è una competizione tra gli ordinamenti che spesso riguarda il costo del lavoro. Da qui il rischio che si creino fenomeni di concorrenza al ribasso con evidenti implicazioni in termini di sfruttamento dei lavoratori ed erosione dei sistemi più garantisti. Il quadro si complica ulteriormente se consideriamo che il lavoro non sempre rientra, nei fatti e non solo a parole, tra le priorità delle politiche pubbliche. D’altro lato, però, è importante guardare anche a quello che è stato fatto, agli importanti risultati raggiunti. Il prossimo anno ricorre il centenario dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), che ha sede a Ginevra ed è la più antica agenzia specializzata delle Nazioni Unite. Si occupa di promuovere i diritti dei lavoratori e la giustizia sociale a livello globale. Questa organizzazione ha fatto molto anche per quei paesi in cui il diritto dei lavoro si è formato tardivamente rispetto alla sua evoluzione in Europa. E’ giusto individuare i problemi ma anche ragionare su quello che è stato fatto e sui risultati raggiunti. E’ bene essere critici, ma anche fiduciosi nel futuro”.
Tra le cose fatte, quali sono da ricordare in modo particolare?
“Tra i numerosi ambiti di intervento dell’OIL possiamo ricordare l’attività di contrasto al lavoro minorile. Oltre alle due convenzioni fondamentali sul tema negli anni l’OIL ha attivato numerose campagne ed azioni volte a contrastare il fenomeno. Se guardiamo invece al contesto europeo sono stati raggiunti traguardi significativi in molti ambiti tra i quali quello della legislazione antidiscriminatoria e delle misure volte a favorire l’inclusione sociale delle categorie più vulnerabili nel mondo del lavoro”.
Una delle questioni aperte e irrisolte riguarda le multinazionali...
“Quello del lavoro nelle imprese multinazionali è un tema aperto. La trama della storia consegna sovente immagini di sfruttamento dei lavoratori e di violazioni dei più basilari diritti dell’individuo nella catena globale di fornitura. La casa madre ha sede nei paesi più sviluppati mentre la produzione viene collocata nei paesi in via di sviluppo in quanto più attrattivi perché caratterizzati da sistemi regolativi tutt’altro che avanzati. Da qui l’esigenza di promuovere forme di tutela dei lavoratori anche di portata transnazionale. E in questa prospettiva possiamo indubbiamente registrare importanti cambiamenti in atto. Si moltiplicano, ad esempio, i casi di grandi multinazionali che intraprendono percorsi di responsabilità sociale d’impresa e che implementano al loro interno la sostenibilità letta nella sua triplice dimensione economica, sociale ed ambientale”.
Qual è il ruolo del diritto del lavoro in questo contesto?
“La complessità delle questioni da risolvere impone necessariamente risposte plurali. Solo per fare qualche esempio, pensiamo alle misure legislative volte ad incentivare le imprese ad adottare comportamenti socialmente responsabili o alla promozione della contrattazione collettiva a livello transnazionale o ancora agli interventi volti a regolare il lavoro nell’ambito della catena globale del valore".
L’altro grande fenomeno del momento è quello della digitalizzazione...
“La digitalizzazione, come la globalizzazione, impatta sul modello di organizzazione del lavoro e scombina le regole del gioco. Siamo di fronte ad un cambiamento radicale dei modelli organizzativi, della società, ed inevitabilmente anche del lavoro che assume fisionomie inedite”.
Cosa sta succedendo? c’è una rivoluzione in corso? stiamo uscendo dalle regole? o stanno cambiando le regole?
“Un po’ tutto questo. Il processo è multiforme non lo possiamo inquadrare entro categorie predefinite. Si creano nuove forme di lavoro. Cambiano le condizioni di lavoro. Il tema, oggi, è: come qualifichiamo queste nuove forme di lavoro? servono nuove categorie definitorie o possiamo utilizzare le categorie tradizionali? L’altro grande tema è quello della disciplina e delle tutele da riconoscere a queste nuove forme di lavoro”.
Come si tutelano i fattorini della gig economy?
“Il tema delle tutele si lega inevitabilmente alla qualificazione del rapporto ovvero alla sua riconducibilità all’interno del lavoro subordinato o del lavoro autonomo. Di questo si discute in Italia, come in Europa e negli Stati Uniti”.
Come si muove il giuslavorista in questo campo?
“Lo studioso, partendo dal sistema normativo di riferimento, si interroga sulla regolazione di questi nuovi fenomeni indagandone l’evoluzione dentro e fuori i confini nazionali. Iniziano ad esserci le prime sentenze. Il tribunale di Torino, in una recente pronuncia, ha qualificato i fattorini nei termini di collaboratori coordinati e continuativi ma in altri paesi i giudici sono diversamente intervenuti sulla questione qualificatoria”.
Quali gli orientamenti?
“Per la complessità e le molteplicità delle forme di lavoro che si stanno affermando è difficile dare una risposta netta. I fattorini di Foodora sono infatti solo una delle molteplici forme di lavoro create dalla digitalizzazione. L’identità giuridica del lavoro digitale è necessariamente plurale in quanto diverse possono essere le modalità concrete di svolgimento del rapporto di lavoro. In alcuni casi si riconosce un rapporto di etero direzione, e quindi si apre la porta di accesso alle tutele lavoristiche. Ma c’è anche chi sostiene che l’autonomia decisionale di cui gode il lavoratore digitale esclude di per sé la subordinazione. C’è poi chi propende per l’introduzione di una terza categoria o, ancora, c’è chi promuove il superamento della questione qualificatoria così da focalizzarsi esclusivamente sulle tutele e sui bisogni di questi lavoratori”.
Come a dire “chiamatelo come volete, ma il lavoratore deve essere tutelato”…
“Con tutele che dovrebbero essere universali, comprendendo salari dignitosi, salute, sicurezza, discriminazioni… qui si parla di diritti che sono fondamentali”.
Tra i nuovi temi, c’è il welfare aziendale.
“Un tema che si intreccia con quello del benessere lavorativo e che vede anche Ca’ Foscari particolarmente attiva. E’ un tema in ascesa, di interesse nel pubblico come nel privato perché è dimostrato che un sistema di welfare aziendale migliora il clima in azienda, crea fidelizzazione, incrementa la produttività. L’introduzione di questo tipo di strumenti riflette una visione attenta ai bisogni e alle esigenze dei lavoratori, valorizzati in azienda non solo come coloro che offrono il proprio tempo e le proprie energie ma anche come persone”.
Parliamo ora di differenze di genere nell'accademia. Secondo lei in Italia ricercatori e ricercatrici hanno le stesse possibilità? Il trattamento e le possibilità di carriera sono le stesse?
"Quando studiavo a Ca’ Foscari ho avuto la fortuna di incontrare professoresse che sono state di esempio e di stimolo, non erano molte allora mentre oggi il numero è cresciuto a significare un cambiamento importante pur nelle difficoltà di un contesto, come quello accademico, che ti chiede molto e che può condizionare enormemente le tue scelte di vita e non solo professionali. Credo che l’università possa essere il luogo ideale nel quale promuovere una cultura dell’eguaglianza e della parità di trattamento e in questo senso molti passi avanti sono stati fatti rispetto al passato ma la strada è ancora lunga. La scelta tra progressione di carriera e famiglia riguarda ancora troppe donne, nel pubblico come nel privato, e il percorso accademico presenta non secondari elementi di criticità in questo senso. Anche laddove le opportunità e le prospettive di carriere risultano equamente distribuite, nei fatti le donne si trovano spesso dinanzi a decisioni difficili. E non dipende dalla determinazione e dall’impegno ma piuttosto dalla difficoltà di trovare un equilibrio tra vita professionale e vita familiare e quindi governare le molteplici responsabilità che le donne sono portate ad assumersi. Il Dipartimento di Economia al quale afferisco è certamente un esempio virtuoso e in questo senso non posso che essere fiduciosa nel futuro”.
Enrico Costa