Giulia Fiorani per #ricercaèdonna: verso la transizione alla chimica sostenibile
Nel 2013, durante un post-doc a Ca’ Foscari, scrisse il progetto per la ‘Marie Curie’ che la portò all’ICIQ, Institute of Chemical Research of Catalonia, a Tarragona, in Spagna. Poi Londra, all’Imperial College, e all’Università di Oxford. Quattro anni dopo torna a Venezia da ricercatrice, al Dipartimento di Scienze Molecolari e Nanosistemi. Giulia Fiorani è una chimica che cerca di contribuire alla transizione verso modi di produrre e consumare più sostenibili.
A farle da stella polare, i 12 principi della chimica verde scritti da John C. Warner e di Paul Anastas nel 2001. “Sono ancora linee guida molto valide - afferma - che invitano a minimizzare i solventi, attivare processi innescati da una piccola quantità di molecole, ridurre gli sprechi e l’uso di energia, prediligere le risorse rinnovabili, eccetera”.
Ci fa degli esempi di applicazioni di questi principi?
“Minimizzare l’utilizzo di solventi, ad esempio. Un non addetto ai lavori non si rende conto del volume di solventi necessario a livello industriale per produrre un principio attivo di una medicina. Poter usare un solvente che dopo la reazione rilascia le molecole che mi servono, ad esempio, o sali liquidi, offre numerosi vantaggi: si riducono le emissioni, possono essere riutilizzati... Ci sono molti altri ambiti in cui si può migliorare ma sono meno comprensibili a tutti. Per esempio, potrei dire che sono contenta se una reazione avviene con catalizzatori che non contengono metalli, ma non tutti capirebbero la mia soddisfazione.
Come ha imboccato la strada della scienza?
“Volevo fare l’archeologa. Durante le superiori sono stata exchange student negli Stati Uniti dove ho seguito un corso di chimica molto pratico e divertente. Mi affascinò e mi fece cambiare idea su questa scienza che conoscevo dai racconti, un po’ noiosi, di mio padre. Decisi allora che avrei fatto chimica all’università, spinta dall’idea di imparare una cosa da zero. Non ho mai rimpianto quella scelta: la chimica mi diverte e mi appassiona. Per il dottorato è stato diverso, non mi sentivo tanto ‘materiale da dottorato’, poi però ho pensato “sono giovane, tre anni posso dedicarli e poi ci penserò”. Altra scelta azzeccata”.
Quanto ha contato l’esperienza della Marie Curie nella sua carriera?
“Durante la Marie Curie all’ICIQ, in Spagna, ho avuto l’opportunità di sviluppare un progetto ”mio” non solo dal punto di vista concettuale, ma avendo i miei fondi da gestire e imparando a fare ricerca anche dal punto di vista manageriale. Siamo educati a fare i grandi scienziati, almeno dal punto di vista teorico, ma all’atto pratico per fare ricerca servono finanziamenti e collaborazioni. Le competenze sulle risorse rinnovabili, che ho sviluppato nel corso della borsa Marie Curie in Spagna, mi hanno portato in Inghilterra, dove ho potuto approfondire la chimica dei polimeri e applicarla alla preparazione di materiali di origine rinnovabile. Inoltre, lavorare in ambienti accademici competitivi come l’Imperial College e l’Università di Oxford è stato un buon allenamento prima di tornare qui. La possibilità di spostarsi in tanti posti diversi è stata fondamentale perché si impara tanto sia dal punto di vista scientifico che umano”.
E poi il rientro a Ca’ Foscari...
“E’ avvenuto in un momento in cui non mi aspettavo proprio di poter rientrare in Italia. Sapevo su cosa avrei voluto lavorare, ma cercavo opportunità in Inghilterra e in altre istituzioni europee. Invece ero nel ‘radar’ di Ca’ Foscari. Da qui mi hanno seguita nel mio percorso e quando si è aperta un’opportunità l’ho colta ed è andata bene. E’ una cosa strana per l’Italia il sentirsi voluta da un ateneo. L’amministrazione ha supportato il mio rientro dall’estero, il dipartimento mi ha accolta davvero bene e il gruppo di lavoro mi lascia libera di portare avanti le mie idee ed espandere le mie competenze in maniera complementare al resto del team”.
Si occupa di chimica green. C’è un filo ‘verde’ che lega tutte le sue esperienze di ricerca?
“Da laureanda e dottoranda a Tor Vergata ho avuto l’opportunità di lavorare con persone che hanno dato avvio alla chimica verde in Italia. In seguito, in tutti i laboratori in cui sono stata ho sempre lavorato su vari aspetti della chimica verde. Nel corso degli anni ho affinato il mio obiettivo. All’inizio era un concetto un po’ vago e come assegnista facevo quello che il progetto di altri di volta in volta prevedeva. Con la Marie Curie ho iniziato a dare una direzione precisa alla mia ricerca. Mi sono occupata di terpeni, biomolecole che si trovano, per esempio, nelle resine secrete dalle piante o nelle bucce d’arancia, oggi uno scarto ma potenzialmente una risorsa. Sono composti naturali di cui l’industria cosmetica e dei profumi fa largo uso. Noi abbiamo guardato al potenziale per renderle molecole reattive e sintetizzare materiali. Ora a Ca’ Foscari vorrei portare questo focus: usare la chimica sostenibile come cassetta degli attrezzi per sintetizzare nuove molecole, per poi utilizzarle come mattoncini di partenza per polimeri ad alto valore aggiunto”.
Quindi, ad esempio, un obiettivo è produrre bioplastiche...
“Non siamo ancora pronti per una completa transizione dalle plastiche di origine fossile ai biomateriali. Vogliamo sviluppare materiali biocompatibili, biodegradabili e che possano rispondere a degli stimoli, per esempio rispondano a variazioni di temperatura, pH, luce. Ecco, questo vorrei fare da grande, qui a Ca’ Foscari”.
Parliamo di chimica sostenibile perché esiste quella insostenibile…
“La chimica di oggi è insostenibile”.
La vostra ricerca è quindi per la chimica del domani?
“Esatto. A livello di opinione pubblica non siamo pronti per una completa transizione alla chimica sostenibile. Primo, perché è difficile sradicare lo status quo. Tutte le comodità che abbiamo non le vogliamo perdere. Il nostro compito, come chimici, è sviluppare dei processi integrati ed efficienti che ci permettano di diventare indipendenti dal petrolio. Ma c’è un discorso più generale che va affrontato: quello sull’efficienza. Sprechiamo energia, benzina, cibo, metalli preziosi contenuti in quasi tutte le apparecchiature elettroniche… La transizione comincia anche da queste piccole cose. Nella chimica del petrolio, quella che studiamo come studenti, si parte dal materiale più semplice per costruire tutte le molecole che vuoi. Nella chimica delle biomasse invece partiamo da un materiale di base che è molto vario, dalla reattività difficilmente controllabile o attivabile, per cercare di convergere su nuovi mattoncini che poi ci serviranno per costruire altri materiali”.
Quali i tempi?
“Ci stiamo lavorando, ci vorrà un po’ di tempo. Penso che prima di 20-30 anni non avremo un sistema ben integrato, ma ci sono tante realtà stimolanti in giro per il mondo e sono fiduciosa. Spero di essere nel quadro quando il risultato sarà raggiunto, se non proprio in mezzo, almeno verso la cornice… (ride, ndr)”.
Ci fa un esempio di un risultato raggiunto?
“All’Imperial College e all’Università di Oxford abbiamo lavorato a creare materiali polimerici a partire da anidride carbonica e derivati di origine naturale, ma questi risultati non sono ancora pubblicati e quindi non ne posso parlare… Mentre nel corso della borsa Marie Curie abbiamo sviluppato una metodologia per produrre dioli, molecole importanti nei farmaci, senza metalli pesanti, utilizzando solo un materiale di scarto, l’anidride carbonica, e molecole di origine naturale”.
Attualmente su cosa sta lavorando?
“Con i professori Selva e Perosa ci occupiamo di valorizzazione delle biomasse. Inoltre, vorrei applicare alla sintesi di monomeri delle tecniche sviluppate da loro, con l’obiettivo di sintetizzare poliesteri e policarbonati in modo innovativo, privilegiando l’utilizzo di materiali derivati dalle biomasse e metodologie chimiche sostenibili”.
Parliamo di differenze di genere. Esistono pari opportunità di carriera per uomini e donne nella scienza?
“Direi che c’è ancora un po’ di strada da fare. Essere donna e madre in ambito di ricerca scientifica significa che a un certo punto del tuo percorso dovrai stare quasi due anni lontano dal laboratorio. A livello europeo la maternità è considerata: viene dato più tempo per accedere ai finanziamenti e ampia flessibilità lavorativa. A livello italiano, ad esempio, non è contemplata la maternità per gli assegnisti. D’altro canto però, il mio anno del corso di laurea in chimica era composto in maggioranza da donne e al dottorato eravamo solo donne. Aumentano le ragazze che intraprendono percorsi scientifici, quindi qualcosa sta cambiando. Penso che sia un bel segnale far vedere che a livello scientifico le donne contano. La ricerca la sappiamo fare bene, non è più un ambito prettamente maschile e la presenza sia di uomini che di donne è importante per curare l’aspetto umano e lavorare bene, in un ambiente sereno e costruttivo”.
Enrico Costa