Stéphanie Novak per #ricercaèdonna: sfide e futuro dell’UE, questa (quasi) sconosciuta
Economia, ambiente, agricoltura, mercato unico: alcune delle decisioni più importanti per i 28 Paesi dell’Unione Europea su questi e altri ambiti si prendono a Bruxelles. Ma cosa sappiamo del processo legislativo europeo? Non tanto. Assieme al Parlamento europeo, il Consiglio dell’Unione europea è il principale organo decisionale dell'UE, ma la trasparenza del suo operato – seppur migliorata nel corso degli anni – è ancora scarsa.
Abbiamo parlato di UE con Stéphanie Novak, ricercatrice di Ca’ Foscari presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati e studiosa di Unione Europea, con focus particolare sulla trasparenza legislativa del Consiglio dell’Unione europea. Novak ha iniziato la sua carriera universitaria studiando Filosofia alla Scuola Normale Superiore di Parigi e alla Sorbona, proseguendo con un Dottorato di scienze politiche a Science Po. Da sempre interessata alla Filosofia Politica, dopo gli studi in Francia ha vinto una borsa di Post Doc all’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Da lì ha continuato le sue ricerche a Berlino e in seguito come professoressa associata a Lille, fino al posto da ricercatrice a Ca’ Foscari.
Che ruolo ha la trasparenza nel processo decisionale dell’UE?
La difficoltà del processo decisionale e legislativo dell’UE è dovuta in parte alla grande eterogeneità dell’organismo, che conta 28 Paesi. Tuttavia, il Consiglio dell’UE è una sorta di ‘club’ dove viene svolto un finissimo lavoro di diplomazia. Ogni stato ha una rappresentanza permanente a Bruxelles e tutte le leggi sono negoziate dai diplomatici che si conoscono bene tra loro e lavorano insieme. In particolare si è sviluppata negli anni, accanto alle regole formali, la prassi informale del voto a maggioranza, un corpus di consuetudini non scritte volte a cercare il consenso tra le parti e a ottenere o fare concessioni per giungere a una legislazione condivisa. Il problema è che questa ricerca del consenso, basata su mutue concessioni, non può essere per sua natura troppo trasparente.
Dagli anni ‘90 l’UE ha investito per rendere i suoi processi decisionali più trasparenti, anche sotto la pressione del Parlamento. I diplomatici, d’altro canto, hanno spesso rivendicato il loro bisogno di riservatezza per poter legiferare. Se il processo legislativo diventasse del tutto trasparente, si sentirebbero costantemente sotto lo sguardo dell’opinione pubblica nazionale interna, quindi più portati a difendere gli interessi nazionali e qualche volta alla demagogia, piuttosto che a collaborare per cercare dei compromessi.
Ma la ricerca del compromesso fra i diversi interessi nazionali è alla base dell’Unione europea. La predominanza di un lavoro legislativo basato sulla negoziazione diplomatica fa sì che una maggiore trasparenza imposta all’attività del Consiglio rischi di scatenare l’effetto contrario: che crescano i colloqui privati e gli incontri informali e che le decisioni vengano prese più nei caffè che nelle sedi ufficiali. In alcuni casi quindi la trasparenza non è del tutto positiva ma soprattutto non è del tutto attuabile.
Come convivono l’Unione Europea e i nazionalismi?
Inizialmente il progetto europeo aveva fra i suoi scopi quello di diminuire i nazionalismi: l’idea di Monnet era di creare delle istituzioni per far lavorare insieme i diversi rappresentanti dei paesi europei, in modo tale da indebolire il sentimento di appartenenza nazionale – si fidava dei meccanismi istituzionali che influiscono sugli atteggiamenti, piuttosto che delle persone. Ma adesso stiamo assistendo a questa crescita molto forte dei nazionalismi, ovunque nell’Unione Europea, come al fallimento di quel progetto politico.
Mi chiedo in che misura le istituzioni possano veramente limitare e cancellare i nazionalismi, quanta parte di illusione ci sia stata in quel progetto iniziale e mi domando anche se non sia stata proprio l’integrazione europea a favorire il nascere di governi populisti e antieuropei come quelli di Polonia e Ungheria: forse il grande sforzo per promuovere l’identità europea è stato controproducente. Quello che è sicuro è che ‘Bruxelles’ è diventata il capro espiatorio per gli eletti nazionali che vogliono fuggire le loro responsabilità e, anche se effettivamente sono stati fatti degli errori a livello europeo, i governi sono anche responsabili di questi errori e le istituzioni europee non hanno tutti i torti come costoro vorrebbero far credere: tale strategia gioca sul fatto che il sentimento di appartenenza nazionale rimane per la grande maggioranza degli Europei più forte del sentimento di identità europea.
Quali sono oggi le sfide maggiori per l’UE?
Tante. Per citarne solo qualcuna, il primo problema è quello dei governi anti-europei: come decidere, tutti insieme, se alcuni governi hanno una politica ufficiale anti-europea? Come può funzionare il parlamento europeo se una parte non piccola dei suoi membri è euroscettica? Questo è un dilemma perché le leggi europee hanno proprio per scopo il rafforzamento dell’integrazione europea.
Il nodo delle migrazioni è sicuramente enorme. Gli stati membri, che hanno politiche interne estremamente diversificate, stanno cercando – per ora senza successo ¬– di trovare un accordo. Dal vertice sui migranti di fine giugno sono usciti risultati ambigui: si è parlato di istituire dei campi profughi in paesi esterni all’UE, come la Tunisia, ma senza verificare il reale consenso di quei paesi. Oppure della possibilità per gli stati di accogliere i migranti su base volontaria, altro punto che non si può definire un vero e proprio ‘accordo’.
Ma l’Unione europea, come rilevano spesso i sociologi, ha anche un problema di immagine agli occhi dell’opinione pubblica. E inoltre soltanto una piccola cerchia ristretta di persone sfrutta le opportunità da essa offerte, come la mobilità professionale oppure il programma Erasmus che è l’esempio più noto: sono infatti pochi i giovani che approfittano di questa interessante occasione di scambio culturale, in parte a causa di barriere economico-sociali oppure spesso per mancanza di informazione.
Cosa potrebbe farci avvicinare all’UE?
Spesso sento dire che non la conosciamo abbastanza: non trovo sia del tutto vero, perché le iniziative e i canali per conoscere meglio gli organi e i meccanismi di questa organizzazione sono tantissimi. Penso piuttosto che non sia semplice capire le politiche adottate ed è difficile per i cittadini distinguere quello che si decide a livello nazionale da quello che dipende dal livello europeo; il senso e l’orientamento di tutte le legislazioni adottate ogni mese non è neanche chiaro. Abbiamo accesso alle informazioni sull’organizzazione, quindi, ma non ai contenuti e ai grandi orientamenti delle politiche europee. Quando insegno trovo che i miei studenti sono molto interessati alle politiche europee, piuttosto che agli organi: su questi ultimi invece la scuola ha insistito di più. Le politiche, d’altra parte, sono molto tecniche e di difficile comprensione.
L’UE secondo lei avrà vita lunga?
Seppure in crisi, non credo che possa finire da un momento all’altro, come un film. Credo piuttosto che potrebbe rischiare di finire come la ‘Bella Addormentata’, diventando uno dei tanti organismi internazionali paralizzati.
Dopo la Brexit si sarebbe potuto temere un effetto domino, ma il costo che sta pagando il Regno Unito in seguito a questa scelta è talmente alto che il suo esempio potrebbe invece servire da deterrente.
I governi di Polonia e Ungheria sono oggi fra le principali minacce alla tenuta europea ma anche in questi casi ci sono interessi economici molto forti: entrambi infatti hanno percepito e percepiscono ingenti fondi strutturali e nonostante alimentino un sentimento antieuropeo, si può immaginare che i rispettivi governi sappiano che uscire dall’UE non sarebbe una scelta conveniente. Anche la nazionalista Le Pen, che aveva fatto campagna sull’uscita della Francia della zona Euro, ha ultimamente una posizione più ambigua.
Veniamo ora alla questione di genere: secondo lei uomini e donne hanno le stesse prospettive di carriera?
No, ma mi sembra che le cose cambiano velocemente dopo anni di indifferenza. La mia esperienza è più legata alla situazione francese: fino a qualche anno fa in particolare era più difficile in Francia per una donna imporsi e fare carriera universitaria. Quando ho cominciato il dottorato in scienze politiche, una docente mi disse: “Come professoresse ordinarie di scienze politiche in Francia siamo in quattro”.
In alcuni ambiti dominati dagli uomini, come per esempio la Filosofia – il mio primo campo di studio – le donne tendevano a esprimersi meno e io avevo la sensazione che fosse più difficile essere rispettata e ascoltata. E non c’era nessuna attenzione per la parità! Nel 2011, dopo l’affaire Strauss-Khan, la predominanza maschile si è spezzata e c’è stata una grande espansione della libertà di parola delle donne. Parlare pubblicamente dei problemi di prevaricazione, di molestie sul luogo di lavoro etc. ha aiutato le donne a recuperare quella fiducia in sé stesse che in alcuni casi si era persa.
Federica Scotellaro