Coronavirus e sanità cinese: intervista al prof. Brombal

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“Il mondo si deve svegliare e considerare questo virus come il nemico numero uno". L’avvertimento arriva direttamente dai vertici dell'Oms, che non usano mezzi termini per mantenere la massima allerta sull’epidemia di coronavirus – nuova sigla: Covid-19 – che, sempre secondo l’ultimo aggiornamento OMS, ha contagiato oltre 43mila persone e ha causato più di mille morti.

Ne abbiamo discusso con Daniele Brombal, docente cafoscarino di Lingua cinese, Società cinese contemporanea e Politica e società della Cina contemporanea e autore di Curarsi è difficile. Curarsi è costoso. Storia, politica e istituzioni della sanità cinese 1978-2013, Aracne, 2015

- Professore, come la Cina sta affrontando la fase di controllo dell’epidemia del coronavirus? Vi sono analogie e differenze con la crisi della SARS?
 
La Cina ha assunto misure molto rigide in termini di quarantena e restrizione dei movimenti delle persone. Queste misure sono state adottate sulla base di tre elementi: la possibilità che il virus si trasmettesse facilmente, l’assenza di farmaci efficaci e il ritardo con cui le autorità hanno riconosciuto il problema. Quest’ultimo aspetto accomuna la crisi attuale e quella della SARS. Nonostante il fattore tempo sia fondamentale, in entrambi i casi le autorità hanno inizialmente ostacolato la condivisione di informazioni che avrebbero potuto rendere più efficace il contenimento del virus.

- Nel volume "Curarsi è difficile. Curarsi è costoso. Storia, politica e istituzioni della sanità cinese 1978-2013" lei ha analizzato la riforma della sanità cinese. Quali sono state le più grandi trasformazioni di questo sistema e come si presenta oggi?

La Cina ha fornito una dimostrazione di come il mercato non sia in grado di proteggere equamente la salute delle persone. Negli anni Ottanta le riforme economiche e la decollettivizzazione minarono il finanziamento pubblico della sanità di base e delle casse mutue sanitarie. Al contempo, gli ospedali furono resi autonomi sul piano finanziario e incentivati all’erogazione di procedure diagnostiche, trattamenti e farmaci non necessari. Questa privatizzazione de facto comportò enormi difficoltà di accesso alle cure da parte della popolazione e diffuso impoverimento a causa di malattia, specie nelle campagne. Le autorità presero coscienza del problema due decenni più tardi, in seno a un più ampio ripensamento dell’accesso ai diritti sociali. La SARS ebbe il merito di far accendere i riflettori sulla sanità, portando all’accelerazione del processo di riforma sanitaria. A quasi vent’anni di distanza, il risultato è un sistema sanitario con una copertura assicurativa estesa pressoché a tutta la popolazione e una minore quota di spese sostenute direttamente dall’utenza. Tuttavia, l’efficacia della copertura assicurativa non è tale da evitare spese catastrofiche e casi di impoverimento a causa di malattia, ancora comuni. Al contempo, il sistema di sanità di base rimane carente. Infine, sul piano sociale rimangono conflittuali le relazioni medico-paziente, eredità del periodo storico in cui l’operato dei medici veniva percepito come orientato al profitto, anziché al bene comune.
 
- Qual è la risposta della società cinese?

Mi sembra emergano due elementi: da un lato, la grande resilienza della società cinese e la sua capacità di interpretare le sofferenze individuali in termini di comunità. Dall’altro, l’indignazione per il trattamento riservato dalle autorità a quanti per primi avevano lanciato l’allarme, in particolare il medico Lin Wenliang. La morte del dott. Lin ha suscitato critiche vivaci in seno alla società e sui media, innescando una riflessione sui temi della trasparenza e della responsabilità dello Stato nei confronti dei propri cittadini. Non mi risulta che questa indignazione si sia ancora tradotta in critiche radicali alla legittimità del Partito. Non è escluso però che questo accada, come già altre volte nella storia cinese.

- Dal punto di vista dei rapporti internazionali tra le istituzioni cinesi e gli altri Paesi, in particolare l’Italia, pensa che ci saranno ripercussioni?
 
Il blocco temporaneo dei voli diretti con l’Italia ha destato una dura reazione da parte delle autorità cinesi, cui hanno fatto eco le critiche di quanti temono ripercussioni politiche ed economiche per il nostro paese. Funzionari dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) hanno definito come eccessive le misure di restrizione dei voli. In realtà, le stesse evidenze scientifiche citate da alcuni critici non escludono l’utilità di queste misure nel rallentare la diffusione di un’epidemia. Il principio di massima precauzione adottato dal nostro Ministero della salute è condiviso da molti medici chiamati a esprimersi sulla questione negli ultimi giorni: in assenza di farmaci efficaci e dinanzi a un virus la cui contagiosità potrebbe essere elevata (mancano ancora dati certi in questo senso), limitare il movimento degli esseri umani è una delle poche misure attuabili per rallentare la diffusione dell’epidemia. Ciò non vuol dire naturalmente che la Cina debba essere lasciata sola nella lotta contro il coronavirus. Al contrario, questa è una responsabilità globale e richiede di impiegare per il bene comune le nostre risorse scientifiche, culturali ed etiche. Le stesse risorse da cui attingere per combattere i fenomeni di sinofobia emersi in questi giorni in Italia. Quello del razzismo è un virus che conosciamo bene, tuttavia spesso ci culliamo nell’idea di esserne portatori sani. La crisi che stiamo vivendo dovrebbe indurci a rivedere questa diagnosi: i sintomi della malattia sono di fronte ai nostri occhi.

Federica SCOTELLARO