Brexit, e ora? Il punto con Fabrizio Marrella

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La vittoria del leave nel referendum britannico mette in pratica quella che finora era considerata «mera opzione teorica». Fabrizio Marrella, professore di diritto internazionale e dell’Unione europea al Dipartimento di Economia di Ca’ Foscari e membro dell’Istituto di alti studi sul diritto internazionale e UE della Sorbona, spiega il contesto e le conseguenze della Brexit.

Ritiene che il risultato renderà la Gran Bretagna sempre più sola sul piano della competizione globale, teme conseguenze «pesanti» per le imprese e descrive le possibili penalizzazioni per gli Erasmus. Si attendono i negoziati, che potrebbero durare a lungo. Intanto, nell’anno accademico 2016/17 arriveranno a Ca’ Foscari 35 studenti britannici, mentre 87 cafoscarini partiranno grazie al programma Erasmus alla volta del Regno Unito. Per loro non ci saranno difficoltà, come conferma l'Agenzia nazionale Erasmus+ Indire.

Professor Marrella, dove è prevista la possibilità di “uscire” dalla UE?
L’articolo 50 del trattato sull’Unione europea attribuisce ad ogni Stato membro dell’UE la facoltà di decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione europea. Questa norma lascia una piena discrezionalità agli Stati membri di esercitare la facoltà di recesso dall’Unione essendo previsto solo il rispetto delle proprie norme costituzionali e non essendo nemmeno richiesto un particolare obbligo di motivazione.

La Brexit deve essere approvata dalla UE o dagli altri Stati Membri?
Non è richiesta l’approvazione del recesso da parte degli altri Stati membri che, pertanto, non possono impedire l’exit. Finora si trattava di una mera opzione teorica, una procedura che, seppur prevista da una norma di diritto positivo, nessuno avrebbe mai pensato che sarebbe stata azionata. Si pensi che nei trattati costitutivi della UE precedenti al trattato di Lisbona la procedura di “exit” non era nemmeno contemplata. Si riteneva che il processo di costruzione ed approfondimento “comunitario” fosse ormai irreversibile e che gli “Stati Uniti d’Europa” – peraltro un’idea inglese, di Churchill – avrebbero rappresentato, nel medio termine, il culmine di tale processo di “integrazione attraverso il diritto”.

Ci sono state altre crisi come questa?
In realtà non così gravi. Certo, nella storia della costruzione europea non sono mancate le crisi. Tra le più gravi basti pensare alla Francia di De Gaulle che, in forte disaccordo con alcune scelte politiche dell’allora CEE, dichiarò che “i Trattati sono come le rose e le ragazze giovani: durano finché durano”, provocando uno shock, poi ricomposto, nella costruzione dell’Europa comune. Di qui seguì la “politica della sedia vuota”, ossia la Francia si asteneva dal partecipare alle riunioni degli organi comunitari che durò fino alla ricomposizione ottenuta tramite il cosiddetto Compromesso del Lussemburgo del 1966. Tale accordo pose fine alla crisi scoppiata nel 1965 allorché la Commissione propose l’istituzione di un bilancio autonomo della Comunità (da finanziare non più con i contributi versati dagli Stati membri, bensì con i versamenti dei prelievi e dei diritti doganali), ed un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo.

Ma non si è parlato per lungo tempo di un’Europa sovranazionale che decideva tutto e alla quale i governi degli Stati membri hanno dato la colpa delle scelte più impopolari?
Guardi, l’Unione europea possiede solo le competenze che gli Stati membri le hanno attribuito attraverso i singoli trattati, è un’organizzazione internazionale molto sviluppata ma resta sempre un’organizzazione internazionale, come appunto dimostra la situazione di Brexit che stiamo commentando. Sarebbe uno shock se ciò avvenisse, ad esempio, per l’OCSE? Nessuno si straccerebbe le vesti, un’organizzazione internazionale è un club di Stati che gestisce interessi comuni. Ciò è evidente agli occhi degli specialisti del diritto internazionale e dell’Unione europea, materie ancora considerate come “non fondamentali” nei curricula delle università. Ma l’Unione europea non è un Leviatano in grado di stritolarci del tutto, piuttosto fa comodo ai politici giustificare il loro nanismo politico e la loro scarsa preparazione in materia additando sempre l’Unione europea quando le cose non vanno. E’ significativo, peraltro, che la clausola di recesso, dopo il fallimento del Trattato portante una Costituzione per l’Europa, sia riapparsa nel Trattato di Lisbona costituendo il diritto vigente oggi ed è quindi perfettamente lecito che uno Stato se ne avvalga.

E gli altri Stati membri dell’Unione stanno a guardare?
Dicevo: se vi è recesso, exit, di uno Stato Membro gli altri Stati membri non possono impedire la “fuoriuscita” dello Stato interessato dalla UE potendo solo ed eventualmente negoziare gli effetti conseguenti a tale evento. La procedura di recesso prevede che lo Stato Membro, nel nostro caso il Regno Unito, notifichi la sua intenzione al Consiglio Europeo che, a propria volta, formula gli “orientamenti” in base ai quali l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a precisare le modalità e gli effetti del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni tra quest’ultimo e la UE. L’accordo di recesso definirà, perciò, le pendenze reciproche e sarà concluso dal Consiglio (in base all’art.218, par.3, TFUE) deliberando a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento europeo.

Quali conseguenze per le imprese?
Le conseguenze più pesanti del voto saranno per l’economia e le imprese. Oltre al crack borsistico che stiamo vedendo in queste ore e che potrebbe propagarsi ad altre piazze, in primis a Wall Street.
Ovviamente, ci sarà un periodo transitorio, ma alla fine, per le imprese che fanno import/export lavorare con il Regno Unito, sia pure potrebbero arrivare nuovi dazi doganali, certificazioni obbligatorie, ostacoli non tariffari. Ovviamente vale lo stesso per le imprese con sede nel Regno Unito. Queste ultime non beneficeranno più delle libertà di circolazione nel mercato europeo, circolazione delle merci, ma anche dei servizi (si pensi a banche ed assicurazioni inglesi), dei capitali e delle persone. Sconsiglierei dunque ai nostri imprenditori ogni progetto di costituzione di società nel Regno Unito, almeno per ora.

E per gli studenti?
Anche per gli studenti le conseguenze si faranno sentire. Gli studenti universitari inglesi potrebbero essere equiparati a quelli extra europei, con un aumento di tasse universitarie, necessità di visto e di permesso di soggiorno ecc., inoltre, rischiano di perdere anche il diritto all’assistenza sanitaria gratuita. I nostri studenti che andranno a studiare in Gran Bretagna saranno equiparati, a propria volta, agli studenti stranieri non europei con grande aumento di tasse e di spese. Peraltro, avrà ancora un senso studiare certe materie “europee” in Gran Bretagna? Ha senso studiare diritto dell’Unione europea negli USA? No. Chiedetelo a chi deve passare gli esami di Stato. E quindi anche la geografia delle università “giuste” per la propria professione – penso soprattutto ad avvocati e dottori commercialisti – cambierà. In favore del continente europeo.

Quale futuro per l’Unione europea?
L’Unione europea continuerà senza la Gran Bretagna che si ritroverà sempre più sola a competere con mega-Stati nel mondo e dubito che riuscirà a rientrare nell’Unione europea per lungo tempo.
Per la Gran Bretagna si apre uno scenario estremamente rischioso nella conduzione delle relazioni internazionali, per la UE, invece, potrebbe aprirsi un momento di seria riflessione per consolidare i risultati finora raggiunti, con grande attenzione ai nuovi equilibri politici all’interno della UE.