Senza conoscere la lingua del paese in cui si vive si può comunque sopravvivere. Ci si sposta con i mezzi pubblici, magari con il tram che ‘annuncia’ le fermate, si fa la spesa dove i prezzi sono esposti, si usa Google translator.
Quando invece i bisogni aumentano - si deve andare dal medico o interagire con gli educatori scolastici dei propri figli - aumenta anche la motivazione a comunicare. Non sempre però i cittadini stranieri frequentano i corsi di lingua offerti sul territorio, per diversi motivi personali o culturali.
Il Servizio Immigrazione del Comune di Venezia e il dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Università Ca’ Foscari hanno collaborato a Educittà, un importante progetto di integrazione linguistica e sociale finanziato con fondo FAMI Fondo Asilo Migrazione e Integrazione 2014 - 2020 orientato alle fasce più deboli dell'immigrazione e in particolare a cittadini analfabeti o agli adulti stranieri che non hanno mai frequentato o portato a termine corsi già attivi.
Il nostro Ateneo ha messo in campo le competenze scientifiche del Centro di Ricerca in Didattica delle Lingue (CRDL ) e in particolare del Laboratorio di comunicazione interculturale e didattica (LABCOM), fiore all’occhiello nella didattica della comunicazione interculturale e delle lingue.
“Nel LABCOM, come in ITALS e nel CRDL, – dice Fabio Caon, direttore del LABCOM - l’attenzione è quella di fare ricerca su temi innovativi legati anche ai nuovi scenari socio-economici e culturali. La didattica ad analfabeti, ad esempio, che è uno dei temi centrali del progetto, si è imposta come tema di grande emergenza in conseguenza degli sbarchi di migranti e della situazione linguistica di molti di loro e nello stesso tempo. O la didattica in situazioni non formali (altro tema cardine del progetto Educittà) rivolta a persone che normalmente non accedono ai supporti (corsi e laboratori linguistici) offerti dai servizi ai cittadini”.
Educittà ha coinvolto quasi 800 formatori, tra operatori, insegnanti e volontari e oltre 600 cittadini stranieri, soprattutto donne provenienti dal Bangladesh, ma anche uomini e minori che non hanno mai partecipato a corsi di lingua oppure che si sono ritirati da un corso senza terminarlo.
La ricerca “Vivere in città senza studiare l'italiano: motivazioni dei cittadini di paesi terzi e implicazioni socioculturali e glottodidattiche” per il progetto Educittà
Valeria Tonioli, assegnista di ricerca del dipartimento di Studi Linguistici e Comparati di Ca’ Foscari, ha raccolto e analizzato le testimonianze dei cittadini stranieri che vivono nel Comune di Venezia senza parlare italiano, per capire le motivazioni e suggerire strumenti e metodologie da applicare nei contesti formativi per favorire l’integrazione linguistica.
Hanno partecipato alla ricerca 6 mediatori interlinguistici e interculturali di lingua cinese e bangla. Sono state intervistate 34 persone, di cui 26 donne e 8 uomini, provenienti soprattutto dal Bangladesh, ma anche da Cina, Nigeria e Marocco.
«Solo 2 intervistati su 34 non percepiscono la necessità di parlare l’italiano. Gli altri non frequentano corsi per motivi personali, culturali o famigliari, con senso di frustrazione e malessere», spiega Valeria.
Tra i principali impedimenti c’è la mancanza di tempo per la cura dei figli piccoli o il lavoro, ma anche la paura di non farcela, di perdere la faccia.
«Molte donne sono analfabete o debolmente scolarizzate nella propria lingua madre; questo significa che non sono mai andate a scuola o sono state a scuola 3-5 anni. Dover tornare a studiare una lingua differente molti anni dopo comporta un senso di paura, inadeguatezza e frustrazione. Chi ha deciso di iscriversi per la prima volta a corsi di italiano 5-8 anni dopo l’arrivo in Italia è spinto soprattutto dalla necessità di andare dal medico in autonomia, di comunicare con gli insegnanti dei figli, o perchè ha deciso di rimanere a vivere in Italia a lungo. Un’ulteriore spinta sono i figli che, ora che parlano italiano, si vergognano dei propri genitori che non lo parlano.»
Gli strumenti e le metodologie proposte sono essenzialmente «una didattica per moduli brevi in gruppi di poche persone, basata sui bisogni degli apprendenti e su una lingua di comunicazione quotidiana, in luoghi della città vicini alle zone da loro frequentate. Sono stati di successo i corsi brevi di prossimità tenuti presso studi pediatrici, ambulatori medici, scuole, parchi. La presenza del baby sitter è stata inoltre fondamentale per garantire alle mamme con bimbi piccoli di poter frequentare i corsi.
Sullo stesso filone di ricerca dal 1 ottobre avvieremo DIMMI, un progetto specifico sui minori stranieri bengalesi disabili. Indagheremo la diversa rappresentazione del fenomeno della disabilità nella comunità d’origine e nelle reti relazionali in cui sono collocati, per comprendere adeguatamente se e quando gli eventuali disturbi della comunicazione siano riconducibili a effettive condizioni di disabilità oppure alla tipologia e alla qualità dell’input linguistico che essi ricevono. Infatti se il contesto comunicativo offre poca esposizione all’input linguistico in L1 il bambino troverà maggiori difficoltà nell’apprendere anche una nuova lingua.»