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Più Passato per Tutti
3D, Social e Viaggi sugli Scavi: È L’Archeologia Pubblica, per Condivodere la Scienza che Va in Cerca delle Nostre Radici
di Paola Emilia Cicerone
Pag. 72-73
L’Archeologia del Futuro è virtuale e partecipata.
Esce dai musei, viaggia sui social invade nuovi spazi, ripropone il passato attraverso ricostruzioni, realtà
virtuali e verissime escursioni negli scavi. «Quella di oggi è un’archeologia sempre più condivisa con i cittadini", racconta Cinzia Dal Maso, direttore di Archeostorie magazine (archeostorie.it) e dell’omonimo Archeostorie Journal of Public Archeology. L’archeologia pubblica è proprio l’ultima definizione anglosassone di una nuova scienza rivolta alla gente. Alle comunità locali - e allora si parla di community archeology - che attraverso il lavoro degli studiosi possono rivivere la storia. Come a Poggio del Molino, Populonia, dove è nato ParCo, parco di archeologia condivisa: un’area pubblica attrezzata intorno allo scavo di una villa romana che coinvolge volontari da tutto il mondo, ma soprattutto cittadini chiamati ad assistere alla ricerca nel cantiere. «In passato l’archeologia era per lo più scienza filologica, concentrata sulla valorizzazione di reperti di valore artistico», spiega Diego Calaon, archeologo post-classico e ricercatore dell’Università di Venezia, coinvolto in progetti con la Stanford University. «Oggi ci si confronta invece sulla narrazione di quanto vissuto dagli uomini e dalle donne del passato: fare archeologia significa ricostruire relazioni sociali complesse, che finora la storia non sempre ha raccontato». Una rivoluzione, questa, che cambia anche l’approccio ai siti, valorizzando quelli meno scenografici ma ricchi di vissuto, «soprattutto nel mondo anglosassone, dove si lavora sulle tracce dei nativi, o sui cimiteri degli schiavi», osserva Calaon. E i cittadini non sono più pubblico ma protagonisti: come visitatori, analizzati attraverso i visitor stuolies per comprenderne comportamento e predilezioni, ma soprattutto come protagonisti delle storie conservate nel sito. Anche in Italia, dove paradossalmente l’abbondanza dei beni disponibili non favorisce la creatività, oggi - complici le risorse sempre più scarse - le cose stanno cambiando. Calaon racconta che la ricerca sta diventando un momento di contatto col pubblico, a cui offrire la possibilità di sperimentare la materialità dell`archeologia, partecipando al processo investigativo, per dare un senso a oggetti abbandonati per caso, e per interpretare i dati rinvenuti. Succede a Torcello, nel cuore della Laguna di Venezia, dove gli scavi di un prezioso sito altomedioevale (impronte su un terreno fragile che non possono essere musealizzate, e che è anche difficile mantenere aperte) sono accessibili al pubblico solo d’estate, durante le campagne di scavo. Per poi essere ricoperte con teli di geotessuto e nuovamente interrate d`inverno. Tutto questo è reso possibile anche grazie a tecnologie che permettono di conservare quanto non accessibile, creando banche dati aperte e condivise: oggi si lavora con i computer, i modelli 3d sostituiscono i classici rilievi e i sistemi Gis (Geographic Information System) permettono di raccogliere e rappresentare dati relativi al paesaggio, spesso ricostruiti con l`aiuto del Lidar, una tecnologia laser nata in ambito militare per l`analisi di fondali marini e boschi. Le ricostruzioni virtuali servono per la ricerca, «ma soprattutto per rendere i manufatti accessibili al pubblico», spiega Dal Maso. Come si è fatto in passato, copiando opere d’arte preistoriche come le grotte di Lascaux o quella di Chauvet, aperta nel 2015. «Creazioni come queste hanno permesso di capire che non serve la realtà per emozionare», spiega Calaon. «Anzi, visitare la copia può valorizzare l`opera reale, per comprenderne la fragilità». Virtualità come cortocircuito passato-futuro, dunque. «Un esempio è l’ara com’era, un progetto di Ett Spa che, grazie alla realtà aumentata, restituisce i colori originari all`Ara Pacis, e ne racconta i soggetti rappresentati», spiega Dal Maso. Mentre all`interno della Domus Aurea, ora in restauro, indossando gli apposti occhiali si vedono i muri sgretolarsi e si rivive l`edificio al tempo del suo massimo splendore. «Le ricostruzioni hanno senso se permettono una narrazione condivisa, che richiede un lavoro di mediazione culturale», aggiunge Calaon. E anche i musei puntano ad «abbattere le vetrine» per aprirsi a un pubblico portato a ragionare in termini di eventi. Ed ecco che l`archeologo diventa in primo luogo narratore di storie. Attraverso i social network, che assumono un ruolo sempre più importante: il museo archeologico di Firenze parla al suo pubblico anche attraverso la statua della Chimera, per la quale è stato aperto un account Twitter (@ChimeraMAF). Ma anche attraverso ricostruzioni storiche o laboratori, per scoprire come si viveva all`epoca dei Longobardi o degli antichi romani, e cartoni animati come la serie Pazzi da Museo, dedicata da Giuliano De Felice dell`Università di Foggia alla cultura della popolazione italica dei Peucezi. Si ricorre alla rete anche per creare e sostenere progetti grazie al crowdfunding e al crowdsourcing: «Il problema della sostenibilità esiste: quante aree archeologiche possiamo permetterci di mantenere aperte garantendo un utilizzo di tipo classico?», sottolinea Calaon. Il coinvolgimento delle comunità aiuta a trovare risorse economiche e materiali, «ma anche nuove idee, magari non ortodosse ma pienamente condivise dai gruppi locali», osserva Calaon. In questo modo sono i cittadini stessi a chiedere garanzie per tutelare quello che diventa patrimonio di tutti: «Com`è successo a Comacchio, dove uno scavo accessibile ha permesso agli abitanti di superare i disagi di un cantiere in pieno centro», racconta. «E agli archeologi di contare su una vigilanza collettiva ma anche sul contributo di chi quel territorio lo vive da sempre». «Il coinvolgimento dei cittadini in un`impresa che li riguarda, e che spesso è finanziata con soldi pubblici, è alla base dell`archeologia del futuro», conclude Dal Maso.«È importante capire che i volontari, gestiti e guidati correttamente, sono un`opportunità per gli archeologi. In più permettono realizzazioni altrimenti impossibili». Come il Portable Antiquities Scheme (PAS), un progetto collettivo di catalogazione di oggetti in metallo - trovati dai volontari stessi con i metal detector - realizzata dal British Museum.