Coronavirus e imprese: rientro dalla delocalizzazione in Asia?
L’epidemia globale di Coronavirus sta mettendo a dura prova le imprese, evidenziando uno scenario che varia a seconda del settore, ma che costringerà tutti ad una riflessione. Si delineeranno probabilmente nuovi modelli di sviluppo che potrebbero includere anche una “delocalizzazione al contrario”, cioè una rivalutazione degli spostamenti delle produzioni in Cina.
Abbiamo chiesto a Giancarlo Corò, docente di Economia e politica dello sviluppo a Ca’ Foscari, di spiegarci a cosa potrebbe portare questa crisi mondiale.
Quali possono essere le prime conseguenze dell'enorme impatto che il Coronavirus sta avendo sulle nostre imprese?
Le conseguenze immediate dell’epidemia Covid-19 sono pesanti per la stragrande maggioranza delle imprese. A gennaio l’industria italiana sembrava in leggera ripresa, dopo un 2018 non esaltante. Da inizio febbraio la situazione è ovviamente peggiorata. Tuttavia, non tutti i settori sono coinvolti allo stesso modo. Alcuni ci stanno guadagnando, come l’industria farmaceutica, il biomedicale, la chimica dei detersivi, che hanno visto schizzare la domanda e soffrono semmai la rigidità dell’offerta a causa delle difficoltà di approvvigionamento e trasporto. Anche altri mercati stanno andando bene in questa situazione: i produttori di apparati e software per videoconferenza, l’industria alimentare, l’informazione. Ci sono poi comparti che risentono poco della crisi, come la pubblica amministrazione e, per il momento, il settore bancario, che andrà tuttavia tenuto sotto osservazione per le sofferenze finanziarie di molte imprese che già si fanno sentire. Più critica la situazione nel manifatturiero, nel settore energetico, nel commercio non alimentare, dove le perdite sono aggravate dalla concomitanza di problemi di domanda e di offerta a causa dell’interruzione delle catene globali di fornitura. Lo scenario più nero è tuttavia per turismo, trasporti, ristorazione, intrattenimento, con cadute verticali della domanda. Anche ipotizzando un recupero entro l’estate, il turismo rischia di perdere il 50% del valore aggiunto rispetto lo scorso anno.
Si parla di una inversione del fenomeno di delocalizzazione delle imprese. Di che si tratta?
Il fenomeno del re-shoring – rientro in zone vicine alla base domestica di attività in passato delocalizzate oltre confine, soprattutto in Asia orientale – era già avviato prima di questa crisi. Da un lato è diminuito il differenziale del costo del lavoro e di altri fattori produttivi, dall’altro gli sviluppi delle tecnologie di automazione hanno ridotto nell’industria l’intensità dell’occupazione con basse qualifiche, modificando perciò le convenienze localizzative. L’epidemia Covid-19 eserciterà una forte accelerazione in questa direzione. I motivi sono sia industriali che di sicurezza. Molte industrie hanno in Cina un passaggio obbligato delle catene fornitura: dall’elettronica all’automotive, dal tessile alla chimica, fino alla stessa farmaceutica. Ciò significa che qualsiasi problema si presenti in Cina rischia di interrompere la produzione mondiale. Il che espone gli altri paesi a una dipendenza dalla Cina non solo economica, ma anche tecnologica e politica. Lo stiamo ahinoi sperimentando in questo drammatico frangente, accorgendoci che la nostra capacità produttiva di mascherine e attrezzature mediche si è in gran parte spostata in Cina.
Quali sono i provvedimenti che il Governo potrebbe adottare a medio e lungo termine per sostenere la ripresa?
Siamo di fatto in un’economia di guerra, perciò bisogna innanzitutto armare il proprio esercito, sostenendo le forniture di farmaci, attrezzature mediche e tutte le munizioni necessarie a difenderci da un nemico così insidioso. La gestione dell’emergenza sanitaria dipende strettamente dalle forniture mediche: se fossero illimitate, questa epidemia non sarebbe un problema. Infatti, riuscendo a curare i casi più gravi – circa il 10% dei contagi accertati – la mortalità sarebbe equivalente a una comune influenza. Ma strutture e personale medico sono scarsi, per questo bisogna assolutamente ridurre la massa dei contagi, altrimenti anche una bassa incidenza di casi gravi mette in crisi il sistema. In secondo luogo bisogna assicurare imprese e lavoratori che i costi dell’emergenza non possono ricadere sulle loro spalle. E’ questo il momento nel quale non deve essere posto alcun limite alla spesa pubblica, altrimenti rischiamo di pagare ancora più caro il costo sociale e tecnologico della perdita di capacità produttiva. Il Governo ha giustamente sospeso le scadenze fiscali e finanziato gli ammortizzatori sociali anche per attività solitamente escluse dal welfare, come alberghi e ristoranti. Quando la crisi sarà superata – nella provincia di Hubei c’è voluto più di un mese per uscire dalla fase acuta dell’epidemia – bisognerà agire nuovamente con la leva fiscale per sostenere la ripresa dei consumi, soprattutto nel turismo nazionale. Ma servirà anche un piano di investimenti pubblici per ampliare e rinnovare le infrastrutture chiave di un’economia moderna, fra cui quelle sanitarie. Sia per esigenze di finanziamento, sia per le sue implicazioni politiche, questo piano non potrà che essere parte di una nuova strategia europea.
Che riflessione ci impone una crisi come quella che stiamo vivendo in prospettiva futura?
Una crisi così profonda è una straordinaria occasione per ripensare un modello di sviluppo che mostrava già molte crepe. Il primo piano di azione è quello della governance globale. Negli ultimi anni il risorgere dei sovranismi ha messo in discussione le istituzioni multilaterali, nell’illusione che ogni nazione potesse meglio risolvere da sé i propri problemi. Tuttavia, le questioni vitali per l’umanità – dai cambiamenti climatici, alle migrazioni, alle pandemie – richiedono interventi coordinati a livello internazionale la cui efficacia dipende dall’autorità e dal buon funzionamento di istituzioni multilaterali. Se l’Organizzazione mondiale della sanità avesse sviluppato una più forte rete internazionale di informazione e intervento non ci troveremmo adesso nella drammatica emergenza che stiamo vivendo. Ma l’Italia sta imparando anche altre lezioni da questa crisi. A partire dall’importanza di una finanza pubblica in ordine proprio per avere risorse da spendere in caso di emergenza. Ma anche la necessità di investire con lungimiranza sul futuro – in strutture e personale sanitario, sicurezza idraulica e sismica, ricerca e istruzione superiore, reti e competenze digitali – invece che alimentare la spesa corrente per inseguire un consenso immediato. Come succede dopo una guerra, anche l’epidemia Covid-19 è destinata a diventare uno spartiacque della nostra storia.