Premio Nobel per la Letteratura 2023 al norvegese Jon Fosse

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Ill. Niklas Elmehed © Nobel Prize Outreach

Autore di romanzi, racconti, poesia, saggistica, letteratura per bambini e drammi, tradotto in oltre cinquanta lingue e traduttore egli stesso, Jon Fosse (1959) riceve ora il premio Nobel per la sua immensa produzione letteraria, tanto legata alla realtà locale norvegese nei paesaggi, nei personaggi e soprattutto nella lingua, quanto sempre diretta ad abbracciare temi esistenziali e mistici di natura universale, spesso incentrata su piccole rivelazioni improvvise che si palesano in passaggi di carattere epifanico, e con uno stile improntato all’arte della ripetizione e un forte tratto minimalista.

Possono esserci diversi modi di interpretare gli orientamenti e le politiche dell’Accademia svedese che dal 1901 a oggi hanno determinato la scelta del vincitore o vincitrice del Premio Nobel per la letteratura. Una questione specifica riguarda la nazionalità dei vincitori e la distribuzione geografica del premio.
Si è a volte accusato l’Accademia di avere prediletto scrittori geograficamente e culturalmente vicini; questo è stato vero solo per i primi decenni nella storia del premio e, soprattutto, per la stessa Svezia, meno per gli altri paesi nordici Danimarca, Norvegia, Islanda e Finlandia. Prima di Jon Fosse i vincitori norvegesi sono stati tre, tutti grandi classici della prima fase, attivi già nell’Ottocento (soprattutto Bjørnstjerne Bjørnson, premiato nel 1903), e dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento (Knut Hamsun, 1920, e Sigrid Undset, 1928).

Il riconoscimento a Fosse appare in realtà fedele anche a certi orientamenti più recenti dell’Accademia svedese, la quale ha voluto ampliare il canone di ciò che normalmente si intende per letteratura, premiando autori che sono stati capaci anche di intrecciare generi e forme espressive: giornalismo e prosa letteraria; musica popolare e poesia; arte teatrale e drammaturgia, solo per fare alcuni esempi recenti. Anche l’allargamento verso altri continenti e lingue extraeuropee o generalmente meno note è un dato importante che emerge dai premi dati dagli anni Ottanta a oggi.

Questi elementi si possono riscontrare in Jon Fosse, scrittore versatile e attivo in più generi. I suoi drammi e la sua prosa mantengono una qualità evocativa e lirica che è evidenziata anche nella motivazione del premio: “Per la sua drammaturgia e la sua prosa innovative che danno voce all’indicibile”.

Fosse è inoltre il primo vincitore del Nobel a esprimersi nella variante minoritaria del norvegese, il cosiddetto neonorvegese (nynorsk), e questo è un fatto culturalmente rilevante. Dei circa cinque milioni di abitanti della Norvegia, il 15% adotta questa variante, in fondo non così lontana da quella maggioritaria, detta bokmål (lingua dei libri). Dove il bokmål innesta parole e fonetica norvegesi sulla ‘pianta’ del danese, che è stata la lingua ufficiale in Norvegia per oltre quattro secoli, dal 1397 al 1814, il neonorvegese, sulla spinta degli ideali romantici ottocenteschi, ha voluto recuperare una lingua norvegese perduta, quella medievale, ma sopravvissuta attraverso i dialetti e ricostruita dunque in forma moderna: una lingua al tempo stesso arcaica e nuova, prediletta in alcune aree rurali del paese, amata, per comprensibili ragioni, dai linguisti, e inoltre scelta da alcuni dei più grandi autori norvegesi dall’Ottocento a oggi. Fosse si esprime in nynorsk, e grazie al successo sulle scene e alle traduzioni, il suo idioma ha superato i confini locali. Il premio alla sua opera va dunque a una scrittura e a un teatro che sono diventati internazionali, ma risulta anche, per quanto indirettamente, un riconoscimento della presenza viva e della forza espressiva del neonorvegese.

Dopo il debutto nel 1983 con il romanzo Raudt, svart (Rosso, nero), ricco di suggestioni che rimandano a un altro grande scrittore nynorsk del Novecento, Tarjei Vesaas, lo stile peculiare di Fosse comincia ad affermarsi in Stengd gitar (1985, Chitarra chiusa): qui una madre si è chiusa fuori di casa lasciando all’interno il figlioletto incustodito e vaga per un giorno intero cercando una soluzione, ma anche perdendosi e distraendosi, in un crescendo di tensione. Il lettore segue il flusso di pensieri incontrollati e di carattere associativo della protagonista, che si articola in cicli, come un loop musicale.

Quello dell’assenza di controllo sulle proprie azioni e sulla propria vita è un tema ricorrente nell’opera di Fosse: molti dei suoi protagonisti sono outsider la cui psiche funziona secondo parametri alieni dalla norma e la cui inquietudine interiore e ipersensibilità li spinge al limite della malattia mentale, come il pittore protagonista di Melancholia I e II (1995-96, Melancholia).
Morgon og kveld (2000, Mattina e sera) tratta invece momenti di confine, come la nascita e la morte, che la lingua a stento può esprimere e lo scrittore si avventura dunque in una dimensione al limite del dicibile. Il linguaggio associativo caratterizza anche i romanzi brevi Andvake (2007, Insonnia), Olavs draumar (2012, I sogni di Olav) e Kveldsvævd (2014, il titolo è un termine di derivazione norrena che rimanda alla chiusura dei fiori al calare della sera), anche detta «La trilogia degli insonni» (in trad. it. Insonni), un concentrato capolavoro di poesia che è stato insignito del premio del Consiglio nordico nel 2015 e presenta tratti marcatamente teatrali in una scrittura di grande qualità sensoriale, che rende vivido un mondo straordinario e remoto, vicino a quello del mito. Lingua evocativa, musica e ritmo tornano protagonisti anche nell’ultimo capolavoro in prosa di Fosse, una Settologia (1919-21, in sette parti e tre volumi – i primi due già in traduzione italiana) che consiste in un fiume di riflessioni artistiche e pensieri mistico-religiosi del vecchio pittore protagonista, Asle, e nelle sue interazioni con l’amico malato, omonimo e pittore anche lui. Una specie di lunga, bellissima, preghiera ininterrotta.

Tale qualità poetica della scrittura di Fosse trova espressione in numerose raccolte di liriche, così come i tipici tratti onirici caratterizzano anche le brevi prose per bambini, che mettono in scena vicende esistenziali piuttosto cupe. Fosse sfrutta la letteratura per l’infanzia per la sperimentazione linguistica, ma è il primo a mettere in dubbio che i suoi libri per bambini si prestino alla lettura da parte dei più piccoli.

A consacrarlo come scrittore di successo globale è tuttavia la sua produzione teatrale: debutta come drammaturgo quando è già uno scrittore affermato di romanzi, racconti e poesie e, benché all’inizio i critici teatrali non siano stati generosi nei suoi confronti, alla fine si sono dovuti ricredere di fronte allo straordinario successo, nazionale e internazionale, di uno degli autori a oggi più rappresentati in Europa.
In una prima fase i suoi lavori presentano una certa unità di azione, spazio e tempo e i personaggi sono per lo più coppie e famiglie, poi il tempo si fa via via più fluido e i personaggi vengono de-individualizzati, il simbolismo prevale, il tema dominante diventa la morte e l’atmosfera sempre più mistica. Spesso i personaggi sono anonimi (Lui, Lei, La Ragazza ecc.) e l’opera si arricchisce di una riflessione sul rapporto tra nome, identità e appartenenza, dove proprio il concetto di appartenenza (a una stirpe, a una famiglia) sprigiona la sua ambivalenza: da un lato dà un senso di protezione e continuità, dall’altro una sensazione di prigionia da cui scaturisce un bisogno di liberazione. Quest’ultima è spesso cercata nel mare, che nell’opera di Fosse simboleggia quasi sempre la morte.

Dalla fine degli anni Novanta sembra sopraggiungere un’irrequietezza che muove verso una maggiore sperimentazione formale: in Draum om hausten (1998, Sogno d’autunno) Fosse sfida, ad esempio, l’unità di tempo e di azione. Il dramma è ambientato in un cimitero, presenta salti temporali arditi e non è suddiviso in atti, costituendo un passo importante verso lo sviluppo di un modo originale di concepire il dramma poetico. Fa la sua comparsa l’elemento «fluido»: una fluidità tra piani temporali, tra pensiero e parola, tra sogno e realtà e tra un personaggio e l’altro. Da un punto di vista tecnico è forse il capolavoro di Fosse, proprio in quanto combina il montaggio sperimentale con una trama tradizionale: l’autore prende un dramma familiare e lo porta in una dimensione onirica. Il tema è ancora quello del conflitto fra tradizione, dovere e stirpe da un lato, e modernità, autorealizzazione e individualismo dall’altro: l’angoscia di sparire nel grande nulla del tempo è contrastata solo dalla filiazione e dalla discendenza, ma vale davvero la pena di sforzarsi per dare un senso alla propria vita?

Possiamo dire che nell’ultima fase del suo lavoro drammaturgico, negli anni Duemila, l’autore tira le fila della sua esperienza concentrandosi su drammi onirici minimalisti in cui la concretezza lascia sempre più spazio all’astrazione e gli aspetti psicologico-sociali a quelli mistico-religiosi. L’azione e la scenografia sono ridotti al minimo e lo spazio è indefinito. In Svevn (2003, Sonno) a essere indefiniti sono anche il tempo e i personaggi, che forse sono due figure distinte oppure la stessa considerata in diverse fasi della vita, mentre Eg er vinden (2008, Io sono il vento), ambientato sul limite dell’aldilà, tratta della decisione se vivere oppure no, messa in scena attraverso il dialogo tra due uomini (o forse due voci di una stessa persona), L’Uno e L’Altro, che si trovano in barca e sostengono rispettivamente le due posizioni, finché uno si annega.

Già dai primi lavori, il teatro di Fosse ha una sua forma riconoscibile: i personaggi vengono inseriti in contesti quotidiani semplici, seppure potenzialmente esplosivi e, più che dall’azione, i drammi sono caratterizzati da un’unica situazione che spesso si moltiplica e si ripete. Nello stesso modo i dialoghi, più che a portare avanti l’azione, sono funzionali a cristallizzare una certa atmosfera: e tuttavia sul palco succede sempre qualcosa. I personaggi sono per lo più anonimi, così come i luoghi, mai determinati e in gran parte archetipici (la casa, la barca, il salotto ecc.). Dal punto di vista stilistico la scrittura di Fosse è minimale e concreta e il suo stile poetico: i versi liberi, ritmici e musicali, si combinano con una lingua di tutti i giorni dagli echi mistici. Spesso la difficoltà che i personaggi mostrano nell’esprimersi è il segno di come la lingua non sia sufficiente per comunicare l’essenza delle cose: in questo senso vanno interpretati interruzioni, ripetizioni, pause e silenzi. Il segreto del teatro di Fosse è forse proprio in quell’equilibrio tra realismo psicologico e assurdismo che lo rende il più importante fenomeno della drammaturgia norvegese dopo Ibsen.


Prof.ssa Sara Culeddu e Prof. Massimo Ciaravolo, docenti di Lingue e letterature nordiche del Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati