Coronavirus e istituzioni. Zielonka: “C’è troppo egoismo in Europa”

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Il professor Jan Zielonka durante il suo discorso all'inaugurazione dell'anno accademico 2018/2019

Uno dei più acuti osservatori della politica europea si trova in Italia, cuore del contagio continentale. Per questo i media internazionali lo cercano ancor più del solito. “Tutti vogliono sapere come va qui all’”inferno”. Il problema è che difficilmente dalla mia finestra posso vedere virus andare a zonzo”, racconta, sdrammatizzando un po’, Jan Zielonka, da pochi giorni professore a Ca’ Foscari, ma bloccato dai provvedimenti anticontagio sulle colline toscane di Certaldo, la città di Boccaccio, autore del Decamerone, “testo davvero rilevante per i nostri giorni” (quelle storie erano una via di fuga dalla peste nera).

Zielonka ha appena lasciato Oxford, dov’era Ralf Dahrendorf Professorial Fellow al St Antony's College, per assumere l’incarico di professore ordinario al Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari Venezia, dove insegnerà Politica e relazioni internazionali.

Dalla finestra sulle colline toscane vede con il consueto acume le mosse dei governi e delle istituzioni europee, su cui lo intervistiamo.

Professor Zielonka, la pandemia sta colpendo la sanità e l’economia. Pensa possa mettere a rischio anche le istituzioni?

“Le istituzioni sono già colpite dall’epidemia. Pensi alla democrazia che ora è timonata a mano decreto dopo decreto. Tuttavia, questo è un periodo fuori dall’ordinario; le decisioni devono essere prese velocemente, il che lascia poco margine per la consueta deliberazione e il vaglio parlamentare. Questo è frustrante per i partiti che si trovano all’opposizione, ma è sulle spalle dei partiti di governo che grava il peso della responsabilità. Se le cose andranno male sarà il governo e non l’opposizione a risponderne. Una cosa è certa in questa crisi: politiche di benevola negligenza o del cavarsela in qualche modo sono destinate a fallire. L’abbiamo visto chiaramente nel Regno Unito e negli Stati Uniti, dove entrambi i paesi hanno ribaltato completamente l’approccio iniziale sotto la pressione degli eventi”.

Questo cigno nero sta forse mostrando perché l’eurozona è vitale per le economie degli stati membri. Pensa sia anche un’occasione per l’Unione europea per dimostrare il proprio valore? Come commenterebbe gli annunci fatti e i passi fatti dalle istituzioni europee?

“L’iniziale risposta dell’Unione europea alla crisi è stata lenta, se non del tutto sbagliata. Ho in mente soprattutto la famosa o famigerata conferenza stampa di Christine Lagarde, la presidente della Banca centrale europea. Le cose sono migliorate ora sul fronte europeo. La Commissione ha annunciato investimenti per il coronavirus di 25 miliardi di euro e ha dichiarato di voler usare tutta la “flessibilità” disponibile, mettendo da parte le norme sugli aiuti di stato. La Banca centrale ha superato l’iniziale politica d’indifferenza e lanciato un massiccio programma di acquisto di titoli di stato. Il problema è che gli stati membri che controllano in pratica l’Unione europea hanno manifestato in questa crisi più egoismo che solidarietà. Questo solleva interrogativi sul futuro dell’integrazione europea. Ovviamente sarebbe più facile uscire dalla crisi assieme, ma non dovremmo dare per certa la cooperazione degli europei”.

Sulla scia dell’emergenza, gli stati stanno chiudendo le porte ai vicini. Inoltre, il libero e veloce spostamento tra i continenti è parte del problema. Ci stiamo avvicinando alla fine dell’area Schengen così come la conosciamo?

“Abbiamo già imparato nel 2015 che il sistema Schengen è disfunzionale perché mette il peso della responsabilità per i rifugiati sulle spalle dei paesi geograficamente esposti ai flussi migratori. Da allora, non abbiamo fatto grandi progressi e ora i confini sono sigillati perfino tra stati membri dell’Unione europea. Secondo me, tuttavia, rafforzare i confini è più un esercizio di simboli che realpolitik. La crisi del coronavirus mostra chiaramente che i confini più importanti sono quelli attorno alle città o alle regioni in cui osserviamo focolai concentrati. Gli Stati potrebbero essere tentati dal protrarre i confini chiusi dopo il termine della paura pandemica, ma è difficile vedere benefici in questa mossa. Politiche migratorie efficaci richiedono coinvolgimento multinazionale e transfrontaliero con paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Attacchi informatici possono essere difficilmente fermati dai confini nazionali. Nemmeno le comunicazioni basate su Internet e i flussi finanziari rispettano i confini nazionali. Ed è difficile immaginare come stati nazionali da soli possano affrontare il cambiamento climatico”.

Pensa che la Brexit possa agevolare l’Unione europea nel gestire la nuova sfida? Il virus ha fatto emergere differenze di valori, priorità ed approcci tra Europa e Regno Unito?

“La crisi ha mostrato quanto Unione europea e Regno Unito siano sulla stessa barca, ugualmente esposti al virus letale. La Brexit rende le reciproche risposte alla crisi meno anziché più efficienti. Esprimere la forza finanziaria ed economica del Regno Unito e dell’Unione europea aiuterebbe a pagare il conto causato dalla crisi. Dopotutto, il Regno Unito è la seconda economia in Europa. O consideriamo la situazione dei cittadini che vivono sul versante sbagliato del confine della Brexit. Le loro vite sono state frantumate dalle implicazioni economiche ed umane di questa epidemia, e ora devono anche vedersela con il limbo legale causato dalla Brexit. Francamente, non vedo nulla di buono venire dalla Brexit, non solo per il Regno Unito, ma nemmeno per l’Unione europea”.

Quale può essere l’impatto di questa crisi sul processo di integrazione europea? Teme o prevede che la pandemia finirà col favorire populismo, sovranismo, euro-scetticismo?

“Alcuni politici e commentatori affermano che la crisi del coronavirus ha giustificato gli stati-nazione. Gli Stati stanno salvando vite mentre l’Europa dorme, è la tesi. Io credo che questa interpretazione sia fuorviante. La crisi ha invece giustificato il settore pubblico, ma non necessariamente solo quello che opera a livello nazionale. Il settore pubblico è stato esageratamente ignorato negli anni recenti, ma oggi nessuno in Europa osa dire che gli ospedali privati possono combattere il virus meglio dei pubblici. Infermiere sottopagate che lavorano in questi ospedali sono ora più preziose dei consulenti della sanità privata. La crisi mostra anche che abbiamo bisogno dell’autorità pubblica a diversi livelli territoriali: in parte a livello statale, in parte a livello locale e in parte a livello europeo. Il principale fronte contro il virus non era a Roma, ma a Bergamo, Brescia, Codogno o Vo’. Le tutele economiche promesse da Roma possono essere implementate solo se ci sarà una soluzione comune nell’eurozona”.

Enrico Costa