Susanne Franco per #ricercaèdonna: il mondo della danza e del teatro all’università

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Susanne Franco è ricercatrice e insegna Storia della Danza e Storia del Teatro e dello Spettacolo a Ca’ Foscari, ed è parte del team di ricerca “Creative arts, cultural heritage and digital humanities”. I suoi interessi di ricerca e le sue pubblicazioni vertono sulla storia della danza e della performance, sulla metodologia della ricerca in danza, sulla storia del corpo, e sulle culture teatrali di area francese, tedesca e nord americana. Ha avuto numerosi incarichi di docenza e seguito progetti di ricerca in Italia e all’estero, continuando a svolgere anche l’attività di curatrice di eventi performativi per musei e fondazioni.

Come si è sviluppato il suo interesse per la danza e il teatro?

Ho iniziato studiando danza e recitazione per diventare un’attrice di teatro e solo quando ho vinto la selezione per entrare all’Accademia d’Arte Drammatica a Roma ho capito che lo studio mi mancava. La decisione di iscrivermi all’università e di tentare una carriera accademica è maturata più tardi, ma tutt’oggi quando mi presento e dico cosa insegno mi viene quasi sempre chiesto se ho danzato in passato. Ci tengo a sottolineare, però, che una formazione pratica, pur essendo preziosa, non è una precondizione necessaria a diventare uno storico della danza o del teatro.

Mi sono interessata sempre più alla storia della danza, anche se non ho seguito corsi specifici perché al tempo in Italia era insegnata solo in una università. Quando, nel 1997, ho vinto una borsa di dottorato in Discipline dello spettacolo con un progetto di storia della danza ho capito che per formarmi al meglio sarei dovuta andare negli Stati Uniti, dove questi studi hanno una lunga tradizione. All’Università di California a Santa Cruz ho frequentato soprattutto il Dipartimento di Arti e quello di “History of Consciousness”, che all’epoca era un avamposto straordinario per la sua impostazione interdisciplinare, e in un momento di grande fermento degli studi culturali.

Ho scoperto le teorie di genere, gli studi postcoloniali e nuovi approcci alla storiografia e all’antropologia, ma soprattutto ho avuto la fortuna di essere seguita da uno dei maggiori studiosi di danza a livello internazionale. Questa esperienza ha cambiato completamente la mia percezione dello studio della danza ed è stata fondamentale per il modo in cui ho sviluppato le mie ricerche. Oggi sono felice di poter insegnare queste materie e in particolare Storia della danza, che resta una rarità nel panorama nazionale. Ca’ Foscari è infatti una delle poche università italiane a offrire questo insegnamento e dall’anno prossimo anche in un corso di Laura Magistrale.

Su cosa si focalizza la sua ricerca?

Uno dei miei interessi principali è la metodologia della ricerca e da qualche tempo mi occupo in particolare dei rapporti tra storia e memoria. La danza, in particolare, offre infatti una prospettiva stimolante per comprendere il ruolo dei ricordi individuali e collettivi (ma anche dell’oblio e della rimozione), degli archivi corporei e dei processi di incorporazione.

Questi studi stanno contribuendo a smantellare l’idea che la danza sia l’arte effimera per eccellenza, che svanisce, cioè, nel momento stesso in cui accade. La danza lascia tracce, ma lo fa in modo diverso e la ricerca, di conseguenza, richiede strumenti metodologici e orizzonti teorici adeguati a identificarle e a esaminarle. Studiare la danza attraverso il prisma della memoria porta anche a incrociare i percorsi delle neuroscienze, delle scienze cognitive e della psicanalisi. Tenere presente la complessa dimensione della memoria incorporata nella danza è utile, per esempio, a mettere in discussione la presunta linearità e unicità di alcune modalità di trasmissione da maestro ad allievo in virtù della loro veste istituzionale.

Al contrario, un sapere pratico e teorico come quello coreutico, per sua natura sfugge facilmente al controllo o alla censura e in molti casi sembra inabissarsi come un fiume carsico per riapparire in luoghi e momenti storici non immediatamente riconducibili alla fonte. Grazie a ricerche che privilegiano tipologie di documenti fino a poco tempo fa impensabili come tali agli occhi di uno storico tradizionale - il corpo e il movimento innanzi tutto - è stato possibile rintracciare e valorizzare anche patrimoni coreutici frutto di eredità indirette o di forme di resistenza all’insegnamento ufficiale dei maestri. Nel complesso, dunque, si sta profilando un panorama ben diverso rispetto alle genealogie lineari canonizzate dalla storiografia tradizionale, ma decisamente poco aderenti alla realtà. E sta emergendo un panorama assai dinamico e ricco di intrecci sia nel mondo della danza sia tra la danza e altri ambiti culturali.
 
Il mondo della danza e del teatro sembra lontano da quello accademico. Come si incontrano e conciliano questi due universi?

Se per insegnare Storia del teatro e dello spettacolo è più facile fare riferimento a qualche elemento della formazione che gli studenti seguono alle superiori e in genere al loro bagaglio culturale, per la Storia della danza la questione è più complessa perché non è inserita in nessun percorso scolastico e la sua storia è spesso completamente sconosciuta anche a chi frequenta dei corsi pratici. In Italia il disinvestimento rispetto al passato è più evidente che altrove e la mancanza di cultura di danza si è tradotta in una implosione del pubblico, che spesso prova più soggezione che curiosità per un linguaggio rispetto a cui si sente sempre più estraneo. Non da ultimo, la danza è un crogiolo di stereotipi legati al corpo, che in molti casi costituiscono delle vere e proprie barriere, in particolare per avvicinarsi alla danza contemporanea. Fornire le conoscenze di base, sia all’università sia in altri ambiti di diffusione della cultura di danza, è una sfida difficile e proprio per questo stimolante.

Ci sono progetti che le stanno particolarmente a cuore in questo momento?

Uno dei fenomeni più interessanti in questo momento è il fatto che la storia della danza è sempre più trattata in scena dagli artisti, che sentono la responsabilità di dover fare i conti con quanto hanno ricevuto in eredità, come una tradizione coreutica, una tecnica o un repertorio. Nei loro spettacoli il desiderio di reinterpretare celebri pezzi del passato si intreccia a soluzioni originali per mettere in scena anche la loro soggettività, i loro ricordi e le loro esperienze personali.

L’obiettivo dichiarato è ridare nuova vita a spettacoli del passato per comunicarli al pubblico di oggi. Molte di queste sperimentazioni avvengono all’interno dei musei e delle gallerie d’arte, talvolta entrando in dialogo con le opere esposte. In questo modo la danza incrocia altri sguardi e gli artisti hanno la possibilità di trasmettere una storia e una cultura a chi non sempre la conosce da vicino. D’altro canto, la danza si sta rivelando un veicolo efficace per far fruire ai visitatori l’arte visiva in modo inaspettato. Si tratta di un grande potenziale di cui tenere conto per lo sviluppo di nuove strategie museali.

Secondo lei in Italia Ricercatori e Ricercatrici hanno le stesse possibilità? Il trattamento e le possibilità di carriera sono le stesse?

Il mio ambito disciplinare è sempre stato popolato in modo abbastanza equilibrato da donne e da uomini, e le possibilità di carriera sono limitate, semmai, dal lento avvicendamento generazionale, che è uno dei principali problemi dell’università italiana.

Qual è il rapporto tra la danza e gli studi di genere?

La danza è un’arte inscritta nel corpo e per questa ragione è un osservatorio privilegiato su questo ambito di studi. In altre parole la danza partecipa attivamente alla costruzione, rappresentazione e ricezione delle identità di genere, interrogando ma anche mettendo in crisi il sistema di valori, di costumi e di abitudini di una società.

Studiando la danza è possibile infatti mettere a fuoco la relazione dinamica tra il maschile e il femminile, e come nascono e si affermano i condizionamenti sociali e culturali e dell’immaginario collettivo. Se si conoscessero meglio l’origine storica di alcuni stereotipi tanto nocivi quanto longevi  sarebbe più facile sgretolarli. In primis, per esempio, il fatto che danzare sia per gli uomini un modo per celare o per alimentare una presunta omosessualità. Questa percezione del corpo danzante maschile come effeminato ha accompagnato l’affermazione della borghesia e alla presa di distanza da un modello corporeo aristocratico avvertito come affettato e per questo non virile.

All’epoca di Luigi XIV, che è stato anche il fondatore dell’Académie Royale de Danse oltre che un ballerino eccezionale, il fatto che un monarca danzasse, veicolando peraltro un’immagine di potenza, non avrebbe fatto dubitare nessuno della sua identità di genere. Oggi, invece, questo stereotipo continua a condizionare profondamente il modo in cui i danzatori maschi sono percepiti dal pubblico e in questo in Italia stiamo assistendo a un’involuzione che porta molti bambini ad avere forti resistenze a frequentare corsi di danza, anche a scapito di una passione genuina, per paura di essere derisi. Per iscriversi al ciclo di workshop di danza per bambini “Muoviti! Muoviti! Danza musica performance”, che curo per Palazzo Grassi, ho richiesto appositamente una sorta di “quota azzurra” che garantisse una uguale presenza maschi e femmine. È un modo per passare un messaggio perché anche nel nostro paese si riesca a invertire presto la rotta.

 

A cura di Teresa Trallori