Etica della ricerca, che fare? Trasparenza contro i ‘ladri di reputazione’

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“La reputazione è alla base del funzionamento della ricerca scientifica e delle università di tutto il mondo. Casi di plagio, falsificazione e invenzione dei risultati minano alle fondamenta il nostro lavoro”.

Così Lucio Picci richiama l’attenzione di dottorandi e ricercatori cafoscarini sulla centralità dell’etica della ricerca nella vita dello studioso e dell’istituzione in cui opera. Lo fa nel corso di un incontro pubblico sul tema organizzato a Ca’ Foscari (qui il contenuto dell’intervento).

Picci è professore di Economia all’Università di Bologna, studia la corruzione e i suoi impatti. Nel corso della carriera è intervenuto portando alla ribalta, anche mediatica, la difficoltà dell’accademia italiana nell’affrontare a viso aperto casi di presunto plagio (in particolare, quelli passati alle cronache come “Caso Zamagni” e “Caso Lorenzini”).

Professor Picci, perché l’etica della ricerca è centrale nel lavoro dei ricercatori?

“Parto dall’esempio più immediato, quello del plagio. Non è solo un furto di idee, cosa vera e grave. Soprattutto, rappresenta un danno per tutto il sistema della ricerca scientifica perché è un furto di reputazione. Il ruolo della reputazione è basilare all’interno del nostro sistema, perché permette ai ricercatori di “navigare” all’interno a un numero quasi sterminato di studi, che non potrebbero mai leggere tutti. E’ indispensabile disporre di “scorciatorie” del pensiero, di “euristiche”, e la reputazione ne è alla base.

Quindi rubare reputazione, ingannare, significa minare alle basi il sistema. Non è una questione secondaria. Deve essere affrontata con la massima serietà. Ne va del ruolo stesso dell’università, che affinché sia percepito come indipendente, deve dimostrare di meritare fiducia”.

Lei propone ai giovani ricercatori, e anche a quelli più esperti, di porsi due domande. Una apparentemente facile e una difficile…

“La domanda facile consiste nel decidere se essere onesti o disonesti. Speriamo che tutti i ricercatori di Ca’ Foscari nelle loro carriere future prendano la decisione giusta, quella della correttezza. Ma la domanda è apparentemente facile perché in realtà ci sono un po’ di complicazioni. Ci piacerebbe poter tracciare una linea di confine tra onestà e disonestà, ma la questione è un po’ più complessa.

La domanda difficile riguarda l’idea che loro avranno di loro stessi come ricercatori. Due opzioni: da una parte il ricercatore produttore di ricerca scientifica, il quale una volta che ha pubblicato buoni lavori e insegnato è a posto con la propria coscienza professionale. Dall’altra il ricercatore intellettuale, che ha dei doveri anche diversi, di indipendenza di pensiero, e delle responsabilità nei confronti della società. Tra queste, la responsabilità di alzare la mano e dire ‘no’ quando qualcosa non funziona all’interno dell’accademia.

Per esempio, prendere posizione per fare il possibile affinché l’accademia tratti in modo opportuno i casi di disonestà e violazione dei nostri principi etici. Constato come in Italia, viceversa, storicamente sia prevalso un silenzio che non mi pare eccessivo definire omertoso”.

Come ci collochiamo nel panorama internazionale?

“L’Italia è in grave ritardo nei confronti delle pratiche migliori. Assistiamo a un caso di fallimento istituzionale. Mi limito a segnalare una caratteristica importante: il silenzio delle università nei confronti dei risultati delle indagini sui casi di presunte violazioni. Qui gioca un ruolo la normativa sulla privacy, che a mio avviso andrebbe rivista, almeno nell’interpretazione del Garante, che non tiene in dovuta considerazione la presenza di un interesse pubblico prevalente. Un interesse della società che dovrebbe pesare di più rispetto a un presunto diritto alla privacy”.

 

Enrico Costa