Ultimo appuntamento con le interviste ai membri del Club Alumni del Collegio Internazionale Ca' Foscari, che ci raccontano il ruolo giocato dal Collegio nel loro percorso. Oggi conosciamo Chiara Caporuscio, che ha concluso il suo percorso nel 2018.
Mi chiamo Chiara Caporuscio. Sono entrata in collegio con una borsa di studio a settembre 2015: avevo diciotto anni ed era la mia prima esperienza di vita lontana da casa. Mi piaceva l’idea di vivere in una comunità di studenti di diversa provenienza e percorso di studi, ma accomunati dalla curiosità verso la vita comunitaria e l’approccio interdisciplinare offerti dal collegio. I corsi minor (nel mio caso, Global Asian Studies) sono stati introdotti al mio secondo anno. Ad Aprile 2018, dopo due anni a San Servolo e un semestre Erasmus a Gent, in Belgio, mi sono laureata in Filosofia.
Cos’è stato per te il Collegio? Quali aspetti dell’esperienza d’eccellenza collegiale sono stati più significativi per te e per il tuo percorso?
Potrei menzionare tantissimi aspetti del Collegio che sono stati estremamente significativi per il mio percorso: dalla bellissima esperienza come autrice e editor per Linea20, il blog gestito dagli studenti del collegio, alle difficoltà - a volte frustranti - dovute alla gestione del carico di lavoro senza dubbio impegnativo. Più di ogni altra cosa, però, è stata la vita a San Servolo ad avere un impatto incalcolabile sulla mia crescita. Per la durata dei miei studi alla Ca’ Foscari, “casa” è stata un’isoletta sperduta in mezzo alla laguna, collegata a Venezia da un vaporetto ogni ora e abitata stabilmente solo da un’altra cinquantina di studenti. Con quella cinquantina di studenti ho condiviso una sala comune in cui cucinare pasti insieme e litigare per i turni di pulizie, guardare con il proiettore film d’autore e serie trash, ballare hit degli anni novanta vestiti da Britney Spears e perdersi ogni sera in stimolanti discussioni accademiche. È difficile spiegare il tipo di rapporto che si instaura in una comunità così diversificata di studenti immersi in un ambiente stimolante, sottoposti alla stessa pressione per mantenere risultati alti, e separati dal resto del mondo da un viaggio in vaporetto. Siamo stati l’uno per l’altro supporto emotivo, amici, confidenti, ma penso che tutti noi abbiamo sentito fortemente la sindrome dell’impostore in quegli anni. La lezione più importante che ho imparato a San Servolo è che l’unico modo per superare l’ansia di non essere abbastanza in ambito accademico è creare un ambiente in cui ci si sente liberi di condividere non solo i successi, ma anche le sconfitte. E che si può cucinare la pasta al microonde.
Che impatto ha avuto su di te la multidisciplinarietà che caratterizza il Collegio?
Le conversazioni con gli altri collegiali, insieme ai numerosi sforzi del collegio per provvedere un programma variegato e allo stesso tempo interessante per tutti, mi avevano lasciato con l’impressione che un approccio veramente interdisciplinare fosse estremamente importante per la ricerca accademica, ma anche estremamente difficile da raggiungere. Durante il mio ultimo anno ho sentito il desiderio di spostarmi dalla filosofia continentale ad altre aree, e ho cominciato ad appassionarmi di neuroscienze. Questo interesse mi ha portato a scegliere di proseguire i miei studi con un Master neuroscienze e filosofia della mente alla Berlin School of Mind and Brain, all’università Humboldt di Berlino. Dall’opportunità di accedere all’immenso archivio dell’ex-ospedale psichiatrico di San Servolo, offerta da un laboratorio del collegio, è nato l’interesse per la filosofia della psichiatria. Ed è stato proprio l’archivio di San Servolo a ispirare l’idea con cui ho vinto una borsa di studio per finanziare il mio Master e avvicinarmi al gruppo di ricerca in cui adesso sto facendo il dottorato, gruppo nato da una collaborazione tra diverse università (Humboldt-Universität zu Berlin, Charité-Universitätsmedizin Berlin, e Otto von Guericke-Universität Magdeburg) e diverse discipline (filosofia, psicologia, neuroscienze e psichiatria). Lavorare a stretto contatto con ricercatori provenienti da campi così diversi ha rinforzato la mia fiducia nell’interdisciplinarietà ma anche confermato le sue difficoltà. Credo fermamente che il progresso scientifico più sottovalutato sia quello che crea ponti tra diverse aree del sapere, e che cerca di comprendere e integrare diversi pezzi del puzzle che trattano lo stesso fenomeno da prospettive differenti. Allo stesso tempo, l’interdisciplinarietà è difficile. Costruire ponti richiede una comprensione approfondita di aree diverse, ed è difficile formare ricercatori interdisciplinari competenti senza rischiare una conoscenza superficiale e ingannevole che crea più problemi di quelli che risolve. Inoltre, l’interdisciplinarietà richiede comunicazione e fiducia tra metodi e linguaggi diversi, e la costante ricerca di un terreno comune che a volte non è facile trovare. In questo senso, il Collegio è stata una prima palestra per comprendere le sfide e le soddisfazioni della ricerca interdisciplinare.
E ora? Di cosa ti occupi, e dove?
Nel 2018 mi sono trasferita a Berlino, dove vivo ancora. Come già accennato, dopo un Master in neuroscienze e filosofia della mente alla Berlin School of Mind and Brain ho cominciato un dottorato all’interno di un gruppo di ricerca sull’accesso agli stati mentali altrui. Adesso sono a metà del secondo anno, e lo scorso semestre ho avuto l’opportunità di insegnare il tutorial di filosofia della mente agli studenti del Master, esperienza di cui sono immensamente grata e che ha consolidato il mio desiderio di rimanere in accademia. Il mio progetto in particolare si focalizza sulla filosofia della psichiatria e sulle sfide nell’identificare e diagnosticare introspective delusions, ovvero false credenze introspettive. La mia ricerca mi ha portato ad approfondire altre aree strettamente connesse: una è Predictive Processing, un framework estremamente influente secondo cui la nostra esperienza conscia del mondo emerge da un costante tentativo del cervello di generare e aggiornare un modello del mondo capace di predire l’input che riceve dei sensi, e di minimizzare la differenza tra predizioni e input per mantenere il sistema in uno stato di stabilità. Dal Predictive Processing mi sono avvicinata alla ricerca sull’integrazione tra esperienza conscia e meccanismo neurale degli stati alterati di coscienza, che mi ha portata ad approfondire il funzionamento degli psichedelici sul cervello e il loro potenziale terapeutico. Trovo queste domande incredibilmente complesse ed entusiasmanti, e spero di avere l’opportunità di continuare a fare ricerca dopo il dottorato.
Perché secondo te un ragazzo/una ragazza oggi dovrebbe candidarsi al collegio?
Perché San Servolo è un’isola bellissima e piena di storia. Perché la vita comunitaria è un’esperienza trasformativa, e senza alcuni rapporti che ho formato in collegio oggi sarei una persona diversa. Perché prima cominciamo a farci domande sull’interdisciplinarietà, prima riusciremo a raggiungerla. Perché ancora oggi dopo una scadenza importante penso a quanto sarebbe bello rilassarsi e riprendere il respiro sul belvedere che dà su San Lazzaro, o guardare il tramonto dal pontile.
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