Ci parli di lei: da dove proviene, cosa insegna a Ca’ Foscari, quali sono i suoi interessi e i suoi ambiti di Ricerca.
Sono nato a Verona, in seguito a “migrazione interna” dei miei genitori, ma mai mi definirei “veronese”. La mia famiglia è di origine friulana, in primis, e veneziana, in seconda battuta, come racconta il mio cognome.
Sono un sociologo: insegno, per ora, Metodologia della Ricerca Sociale (soprattutto di stampo etnografico e qualitativo), Sociologia delle migrazioni (o, meglio, sono e sono stato titolare di diversi corsi che affrontano diversi aspetti relativi alle migrazioni, soprattutto internazionali). I miei attuali interessi di ricerca sono relativi alle migrazioni, appunto, alla famiglia, alle disuguaglianze, al razzismo, alle trasformazioni del lavoro, ai contesti urbani e, più in generale, al mutamento sociale.
Qual è stato il suo percorso accademico?
Dopo una laurea in Lettere con una tesi di analisi sociologica delle rappresentazioni mediatiche inferiorizzanti le popolazioni arabe nella stampa italiana, ho portato a termine il Master in “Immigrazione: Fenomeni migratori e trasformazioni sociali” di Ca’ Foscari. Questa fu un’esperienza per me profondamente trasformativa, che mi fece (ulteriormente) appassionare alla ricerca sociale e alla sociologia critica. Nonostante ciò, non era nei miei piani continuare nella ricerca accademica e, infatti, grazie anche al titolo di Master conseguito, ho iniziato nell’ambito del lavoro sociale e nel terzo settore con utenza immigrata.
Solo dopo qualche anno, ho intrapreso e concluso un Dottorato di ricerca in Scienze Sociali, a Padova, con una tesi che si muoveva tra i migration studies e i gender studies.
Successivamente, ho esperito il percorso di precariato della ricerca accademica, con contratti e assegni di ricerca – soprattutto a Padova e a Ca’ Foscari, ma facendo ricerca anche a Sussex, in Inghilterra, a Ljubljana, in Slovenia, a Dhaka, in Bangladesh – fino alla mia attuale posizione – un po’ più stabile –, al DFBC.
Ha sempre pensato che questa fosse la sua strada?
No, come si evince dal mio percorso poco lineare. Ho compreso solo “strada facendo” che avrei voluto dedicarmi alla ricerca.
Inizialmente, inoltre, pensavo che la mia formazione umanistica fosse un ostacolo e un limite per un’eventuale carriera da sociologo, ma poi ho compreso che, al contrario, questo background mi fornito una sensibilità inedita e uno sguardo lucido sulla realtà sociale. Anche la mia esperienza lavorativa nel terzo settore si è poi rivelata un bagaglio molto utile.
Qual è l'aspetto che più l’appassiona del suo ambito di ricerca?
Mi affascina riuscire a svelare il meccanismo del funzionamento del mondo sociale, nella consapevolezza di farne parte e, quindi, esserne soggetto, di essere da esso prodotto e riprodotto, ma anche, in qualche modo, protagonista e potenziale agente – seppur limitatamente e non certo individualmente –, di mutamento.
La sociologia e la ricerca sociale, se praticate con un approccio critico – che, dal mio punto di vista, le scienze sociali non possono evitare di assumere – forniscono le armi per avanzare una critica del mondo sociale, profondamente diseguale e ingiusto: permettono, da un lato, di cogliere le forme di dominio, le diseguaglianze e le contraddizioni che attraversano la società, palesando, cioè, dimensioni della realtà sociale che “normalmente” sono tanto più invisibili ed efficaci quanto più date-per-scontate; dall’altro lato, aiutano a comprendere il proprio percorso biografico, il proprio habitus e il proprio posizionamento nel mondo. Ci permettono, cioè, di cogliere le forme di dominio, le diseguaglianze, le contraddizioni, rendere cioè visibili dimensioni della realtà sociale che “normalmente” sono tanto più efficaci quanto più invisibili, incorporate, date-per-scontate.
Bisogna essere consapevoli, però, portare alla luce poste in gioco, posizionamenti e contraddizioni può comportare dei rischi e delle conseguenze anche spiacevoli, nella vita quotidiana e nelle relazioni di ogni giorno.
Infine, di questo ambito di ricerca mi affascina poter comprendere come la struttura sociale modelli, influisca e si cali sulla vita quotidiana e sulle traiettorie dei soggetti, poter mettere in relazione, cioè, la dimensione macro a quella micro, quella oggettiva con quella soggettiva, quella strutturale con quella “individuale”.
L’ambito di cui si è sempre voluto occupare ma che non ha ancora avuto occasione di esplorare?
Mi piacerebbe occuparmi in senso più ampio e approfondito di conflitto sociale: delle diverse forme che assume lo scontro tra le classi ossia tra capitale e lavoro e dell’intersezione tra divisione internazionale e divisione sociale del lavoro.
Oltre a questa tematica molto ampia, mi piacerebbe anche sviluppare alcuni specifici progetti di ricerca, da essa scollegati, che, per ora, non ho ancora avuto occasione di sviluppare: sulle dinamiche di transculturazione e sulle pratiche quotidiane interculturali che prendono forma attorno al confine orientale; sulle esperienze e i processi di ricostruzione post-sismica in Italia dell’altro ieri, di ieri e di oggi. Mi piacerebbe, inoltre, avere – o crearmi – altre opportunità per coniugare il linguaggio del fumetto con le scienze sociali.
In questo momento, con alcuni colleghi, sto svolgendo ricerca su due ambiti, quello dei lavoratori e le lavoratrici del terziario “digitalizzato”; quello attorno al costrutto di “stratificazione migratoria” che ho di recente coniato.
Quali sono i suoi punti di riferimento professionali?
Sono stato allievo di Pietro Basso, prima, e Franca Bimbi, poi, che, da prospettive diverse, hanno contribuito alla mia postura e alla mia formazione sociologica.
Di conseguenza, se devo pensare ai miei riferimenti teorici in senso ampio, direi l’analisi marxista (o, meglio, marxiana) e la sociologia bourdieusiana; se, invece, devo citare il nome di alcuni sociologi di riferimento, direi Pierre Bourdieu, appunto, Wright Mills, Abdelmalek Sayad, Loïc Wacquant.
Le soddisfazioni professionali più grandi?
Di sicuro quella che deve ancora venire.
Tra le cose fatte, invece, dico: essere diventato parte dello staff del Master sull’Immigrazione di Ca’ Foscari; aver realizzato un libro sociologico a fumetti; essere apprezzato da colleghi che reputo piuttosto autorevoli, ma soprattutto da molti studenti e lavoratori e lavoratrici del sociale.
Cosa dice ai giovani che si avvicinano alla ricerca oggi?
Li metto in guardia rispetto alla precarietà lavorativa ed esistenziale che la ricerca comporta, come riflesso della precarizzazione di tutti gli aspetti della società. Se realmente determinati, però, suggerisco loro di essere tenaci, grintosi, “testardi”, di dedicarsi alla ricerca con passione e dedizione, puntando sulla qualità del loro lavoro: così facendo, risultati e soddisfazioni, col tempo, arriveranno. Fare ricerca sociale di qualità – ricorderei loro – implica praticare una prospettiva critica, poiché limitarsi alla mera descrizione del mondo sociale, significa non fare un buon servizio a sé stessi, alla sociologia, alla conoscenza.