Il lavoro nell'era della platform economy: come tutelare i lavoratori?

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image: pikisuperstar / freepik

Nuove tipologie di business online e la “platform economy” hanno aumentato il diffondersi di modalità lavorative non continuative e on-demand, tanto flessibili quanto precarie e che oggi richiedono una regolamentazione.

In questi ultimi anni abbiamo assistito alla crescita esponenziale dei gig-workers, ovvero lavoratori autonomi, occasionali o a chiamata, o ancora lavoratori delle piattaforme online. Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’INPS, si stima che in Italia i gig-workers siano oltre 700 mila, un numero in aumento in tutti i paesi dell’Unione Europea. Fanno parte di questa categoria non solo riders e drivers, ma anche baby sitter, addetti alle pulizie, artigiani, traduttori, insegnanti di ripetizioni private, ecc.

La trasformazione digitale ha favorito inoltre lo sviluppo del management algoritmico, caratterizzato dalla gestione e dall'esecuzione del lavoro tramite algoritmi che permettono di automatizzare le attività organizzative e di gestione del personale. Un tipo di management già adottato dal settore della logistica e delle risorse umane, e che viene utilizzato anche nelle attività di assegnazione degli incarichi, di selezione, di valutazione delle performance dei lavoratori con possibili effetti discriminatori o sanzionatori. 

Come tutelare dunque lavoratori e lavoratrici quando è un algoritmo a decidere il loro modo di lavorare?

Facciamo il punto su questi temi con Maurizio Falsone, professore associato di diritto del lavoro al Dipartimento di Management nonché Delegato della Rettrice per le relazioni sindacali di Ateneo, e Giovanni Gaudio assegnista di ricerca in diritto del lavoro sempre presso il Dipartimento di Management.

Falsone e Gaudio lo scorso gennaio hanno preso parte al convegno "Lavoro e diritti nella rivoluzione di internet" durante il quale sono state discusse le criticità del lavoro tramite piattaforma, ma anche gli strumenti giuridici a disposizione per la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici. Un evento organizzato dal Dipartimento di Management nell’ambito del Progetto di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) “Dis/Connection: Labor and Rights in the Internet Revolution”, finanziato dal Ministero dell’Università e della Ricerca. Un progetto avviato a gennaio 2020 e che vede coinvolte, oltre a Ca’ Foscari, altre tre unità di ricerca, che operano nelle Università di Bologna (che coordina il progetto), Udine e Napoli.

Professor Falsone, nell'ultimo anno abbiamo assistito a diverse manifestazioni dei gig-workers (soprattutto riders), per rivendicare maggiori tutele e contratti adeguati alla tipologia di lavoro effettivamente svolto, che non può definirsi autonomo o libero come le piattaforme fanno credere…

Quando si cominciò a parlare di questo nuovo fenomeno, fondato sulla libertà dei lavoratori e dei titolari delle piattaforme di lavorare e di richiedere prestazioni di lavoro, si scontravano due narrazioni opposte. Una vedeva nel lavoro tramite piattaforme digitali una nuova opportunità per giovani desiderosi di arrotondare il loro reddito. L’altra vedeva in questo fenomeno un nuovo contenitore di precarietà che avrebbe attratto i lavoratori più bisognosi di trovarsi da vivere. E’ inutile dire quale delle due narrazioni è prevalsa: il numero di migranti coinvolti nel fenomeno parla da solo. La tendenza dei gig workers ad organizzarsi collettivamente per chiedere tutele, quindi, va salutata con favore. 

Il problema, dal punto di vista giuridico, è che le piattaforme digitali hanno permesso alle imprese di trovare forza lavoro disponibile senza l’uso dei tradizionali contratti di lavoro: non è più necessario obbligare il lavoratore a lavorare, perché la piattaforma digitale intercetta quello disponibile a farlo liberamente. Tuttavia, gli algoritmi che fanno funzionare le piattaforme condizionano i gig workers inducendosi a lavorare e a farlo in un certo modo. Alla fine le differenze con il lavoro dipendente si assottigliano.

Come si può chiarire questo rapporto e riconoscere l’effettiva durevolezza e subordinazione della prestazione?

Non è semplice trovare una soluzione a questo problema. Le categorie giuridiche della subordinazione e dell’autonomia poggiano su una disciplina del 1942, mentre le più recenti categorie delle collaborazioni coordinate e continuative (le famose co.co.co.) e della c.d. etero-organizzazione (figlia del jobs act), rispondono solo in parte alle esigenze di inseguire un sistema produttivo che rischia di lasciare i lavoratori senza protezioni. Il fenomeno del lavoro tramite piattaforma, infatti, rischia di sfuggire anche a questi nuovi istituti di tutela dei lavoratori, perché destruttura a tal punto le relazioni lavorative da farle sparire dai radar del diritto del lavoro. La continuità della prestazione e la soggezione alle regole dell’algoritmo non hanno più i connotati dell’obbligazione contrattuale, ma sono il frutto di meccanismi di induzione cui è difficile dare un nome a livello giuridico.

Le strade percorribili sono tante. Il legislatore italiano sta facendo qualcosa, anche se in modo confuso (come con il famoso decreto “dignità”). I giuslavoristici discutono molto del fenomeno, ma non c’è unanimità di vedute e le soluzioni non sembrano a portata di mano. Al convegno di gennaio abbiamo provato ad evidenziare questo stato di cose e immaginare degli approcci innovativi. Ad esempio, bisognerebbe rispolverare l’idea che il lavoro dipendente non è solo quello in cui la prestazione è concretamente etero-diretta (come nelle fabbriche fordiste), ma quello che si svolge sotto un controllo e una valutazione finalizzati a premiare/penalizzare i lavoratori, anche senza dare ordini.

La Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva volta a regolamentare il lavoro sulle piattaforme digitali. Può essere uno strumento efficace per regolare il rapporto tra lavoratore e datore offrendo benefici ad entrambi? 

La proposta di direttiva presentata il 9 dicembre 2021 va salutata con favore, sia perché dimostra l’impegno delle istituzioni europee su un tema sociale del presente e del futuro, sia perché ha individuato delle soluzioni tecniche che colgono nel segno. L’idea di fondo è che, in presenza di alcune “spie” (come la definizione dei compensi da parte della piattaforma, la presenza di sistemi di supervisione della performance o di restrizione delle libertà) gli ordinamenti nazionali devono presumere che il lavoratore tramite piattaforma sia un lavoratore dipendente, salvo che il titolare della piattaforma non dimostri il contrario. E’ un buon compromesso ma bisognerà vedere se e in che forma il Parlamento UE il Consiglio approveranno la direttiva e in che modo sarà attuata in Italia. Insomma, siamo all’inizio di un viaggio piuttosto lungo e pieno di insidie, nel mentre i gig-workers rischiano la vita per strada senza le tutele necessarie, o guadagnano importi poco dignitosi.

Servono nuove leggi in Italia per tutelare i gig-workers?

Non so se servono nuove leggi dedicate solo a loro, forse bisogna avere il coraggio di ritoccare la norma fondamentale del 1942 che definisce il lavoratore dipendente o, in ogni caso, trovare un accordo politico in parlamento per fornire alle persone che lavorano un pacchetto degno di diritti e protezioni, quale che sia il tipo di rapporto di lavoro che intrattengono con le imprese.

Avv. Gaudio, il suo studio presentato al convegno ha evidenziato come, nel management algoritmico, le decisioni dell’algoritmo che regolano l’esecuzione del lavoro non siano del tutto trasparenti. Cosa implica questo per i lavoratori?

I lavoratori, non sapendo se, come o perché un algoritmo abbia assunto una decisione che li riguarda, potrebbero restare ignari di possibili violazioni della disciplina giuslavoristica o di quella posta a protezione dei loro dati personali. In altre parole, i lavoratori rischiano che i loro diritti siano violati senza che essi se ne possano davvero rendere conto e, anche qualora se ne rendessero conto, probabilmente non avrebbero prove sufficienti per dimostrare davanti a un giudice che i loro diritti siano stati violati. Ciò accade perché gli algoritmi funzionano a mo’ di scatole nere dal funzionamento opaco per coloro che sono destinatari delle loro decisioni: sono comprensibili agli addetti ai lavori, ma impenetrabili per tutti coloro che vi interagiscono.

Un algoritmo è davvero in grado di sanzionare o addirittura licenziare i lavoratori?  

Sì - sono sempre di più gli imprenditori che fanno ricorso a tecnologie algoritmiche per misurare la performance dei loro lavoratori. Ciò permette loro di premiare quelli più efficienti e sanzionare, anche tramite il licenziamento, coloro che lo sono meno. Ad esempio, notizie di stampa riportano che, in un suo stabilimento statunitense, Amazon abbia licenziato, proprio mediante decisioni automatizzate assunte da un algoritmo, centinaia di lavoratori che non avevano raggiunto certi livelli minimi di produttività in un determinato anno - How Amazon automatically tracks and fires warehouse workers for ‘productivity’ - The Verge.”

Come può il lavoratore dimostrare di aver subito un'ingiustizia o la violazione dei suoi diritti?

Essenziale è che il lavoratore abbia informazioni sufficienti per comprendere se e come un proprio diritto sia stato violato (nonché prove utili a dimostrare ciò in un eventuale giudizio). Il problema è che, come anticipato sopra, gli algoritmi sono decisori opachi difficilmente comprensibili dai lavoratori che sono destinatari delle loro decisioni.

Nell’ordinamento italiano esistono strumenti per promuovere la trasparenza algoritmica e di conseguenza tutelare i diritti dei lavoratori?

Sì, anche se allo stato questi strumenti sono stati poco utilizzati. Ad esempio, la disciplina europea privacy garantisce a un lavoratore soggetto a decisioni algoritmiche il diritto di chiedere al datore di lavoro informazioni su se e come un algoritmico sia stato utilizzato per assumere decisioni che lo hanno riguardato. Ancora, i giudici del lavoro italiano hanno il potere di far ispezionare questi algoritmi da parte di un tecnico per capire meglio come funzionano. In altri casi, invece, l’ordinamento impone sin da principio al datore di lavoro (e non al lavoratore) di dimostrare come una decisione sia stata assunta, a pena di perdere la causa. Tutte queste regole sono funzionali ad aumentare la trasparenza algoritmica, così permettendo di svelare eventuali violazioni dei diritti dei lavoratori che, altrimenti, resterebbero nascoste dietro un velo di opacità.