In Europa cresce il numero di persone inviate temporaneamente dalle loro imprese a lavorare in un altro stato comunitario: i dati parlano di 2,3 milioni di lavoratori in ‘distacco’ nel 2016, il 50% in più rispetto al 2011.
Una ricerca presentata oggi dall’Università Ca’ Foscari Venezia e svolta sul campo in 9 paesi, tra cui l’Italia, svela come il distacco intracomunitario dei lavoratori copra spesso casi di vero e proprio dumping sociale.
Lo stipendio è quello del paese di origine, ma arriva ad essere del 30% inferiore agli stipendi del paese di destinazione. Il tentativo di abbassare il costo del lavoro attraverso il ricorso al distacco ha portato a una vera e propria esplosione del fenomeno, in particolare nel settore delle costruzioni (45% dei distacchi) e dell’industria (24%) e in alcuni rami dei servizi (29%, in particolare nel trasporto), ovvero in settori in cui il costo del lavoro vivo costituisce una voce importante dei bilanci delle imprese.
“Si tratta di un fenomeno rilevante ma poco conosciuto dal grande pubblico e talvolta anche da parti sociali, ispettori e consulenti del lavoro - afferma Fabio Perocco, professore di Sociologia all’Università Ca’ Foscari Venezia - Nella duplice dinamica di unificazione e segmentazione del mercato mondiale del lavoro, il ‘posting of workers’ si presenta come l’esito della convergenza dei processi di precarizzazione del lavoro e di precarizzazione delle migrazioni. E’ una sorta di migrazione nascosta, con la specificità che i posted workers sono poco radicati e inseriti, invisibili, scarsamente inquadrati nel sistema delle relazioni industriali, in una situazione di debolezza e ricattabilità nei confronti dei datori di lavoro; fruiscono poco dei servizi del territorio, sono poco collegati con i sindacati e le associazioni, non sempre vedono riconosciuti i propri diritti sociali: dalle retribuzioni agli orari di lavoro, dagli infortuni alla previdenza sociale”.
In Italia Anche in Italia sono stati registrati numerosi casi che confermano il ricorso al distacco come forma di dumping sociale. Ad esempio, a Milano il sindacato Filca-CISL di Milano ha riportato il caso di un'impresa romena, impiegata nell’ambito della catena di subappalti per una importante ristrutturazione che ha impiegato 25 lavoratori romeni per uno stipendio lordo tra 110 e 176 euro a settimana (ovvero 2,75 - 4,4 euro all'ora), ma presentando una busta paga di 2.100 euro al mese.
Nel caso della ricostruzione post terremoto de L’Aquila, la Fillea-Cgil ha trovato aziende che sotto la copertura dell’istituto del distacco transnazionale stavano praticando vere e proprie forme di caporalato. Nel settore dei trasporti su strada è stato rilevato il ricorso alle cosidette letter box companies, ossia finte succursali aperte di solito nei paesi dell'est Europa per sfruttare il differenziale dei livelli contributivi per abbassare il costo del lavoro.
Uno dei casi più rilevanti ha riguardato una multinazionale italiana che, dopo essersi aggiudicata un importante appalto in Sardegna, ha reclutato forza lavoro straniera e italiana tramite la propria succursale in Polonia. Ai lavoratori italiani è stato proposto un contratto stipulato in Polonia in cui si poteva leggere 'Per le questioni non regolate dal seguente contratto vengono applicate le provvigioni del Codice di lavoro polacco’. E ‘tutte le divergenze andranno risolte davanti al Tribunale del lavoro in Polonia’.
L’Università Ca’ Foscari Venezia ha presentato oggi questi risultati nell’ambito della conferenza finale del progetto di ricerca Poosh, finanziato dalla Commissione europea e realizzato con lo Slovenian Academy of Science and Arts, lo European Centre for Social Welfare Policy and Research (Austria), la National University of Political Studies and Public Administration (Romania), la University of Rostock (Germania).
Il distacco intracomunitario
Esistono tre tipi diversi di distacco: all’interno della stessa impresa, tra filiali con sede in Stati membri diversi; nell’ambito di appalti transnazionali; nell’ambito della somministrazione transnazionale di lavoro. Il distacco intracomunitario è regolato da Direttive Europee (Direttiva 1996/71/CE, Direttiva 2014/67/UE, Direttiva 2018/957/UE) che stabiliscono che le condizioni di lavoro, inclusa la retribuzione, si debbano basare sugli standard minimi in vigore nel paese verso cui il lavoratore viene distaccato e che contribuzione e tassazione si debbano basare sulla normativa in vigore nel paese in cui ha sede l’impresa che distacca il lavoratore.
Numerosi studi hanno dimostrato come il ricorso al distacco intracomunitario sia stato utilizzato come strumento per esercitare varie forme di dumping sociale, facendo leva in particolare su due aspetti: sul differenziale tra gli standard retributivi minimi e il salario medio del paese in cui il lavoratore viene distaccato; sulla differenza tra i regimi contributivi e di tassazione tra i paesi che inviano i lavoratori distaccati e i paesi che li ricevono (in particolare i paesi dell’Europa orientale presentano livelli contributivi e di tassazione molto più bassi rispetto ai paesi dell’Europa occidentale).
I dati
I dati sui distacchi mostrano inoltre che i paesi che inviano il maggior numero di lavoratori in distacco verso l’estero sono i nuovi Stati membri dell’Europa dell’est e, soprattutto in questi ultimi anni, i paesi dell’Europa del sud. Al contrario, i paesi che occupano il maggior numero di lavoratori distaccati sono concentrati soprattutto nell’Europa centro-settentrionale.
Secondo i dati del 2016, la Polonia ha effettuato circa 260.000 distacchi, seguita dalla Germania (218.000 distacchi), dalla Slovenia (150.000 distacchi), dalla Francia (132.000 distacchi), dall’Italia (106.000 distacchi), dalla Spagna (100.000 distacchi). Tra i principali paesi di destinazione troviamo la Germania (440.000 distacchi), la Francia (203.000 distacchi), il Belgio (178.000 distacchi), l’Austria (120.000 distacchi) e la Svizzera (104.000 distacchi).