“La rappresentazione ha, con verità, tutto il potere attrattivo della falsificazione. A tutti piacciono i falsari; è un sentimento umano e istintivo.” (Fernando Pessoa, 1987)
Non tutte le opere sono vere, per quanto dietro a ogni falso si celi una parte di verità. La tendenza ancestrale dell’uomo paleolitico alla rappresentazione, a dare vita all’immagine e all’elevazione oltre il visibile non tarda a tramutarsi in aspirazione demiurgica – con punte ‘alla van Meegeren’, dal nome del celebre falsario di Vermeer le cui contraffazioni ingannarono nazisti, mercanti e restauratori. Falsificare è un’attività antica quasi quanto la creazione: per prova o formazione, diletto o truffa, moda o guadagno, nel corso dei secoli monete, statue, documenti, iscrizioni sono stati contraffatti, camuffati, riprodotti o alterati.
Ci scontriamo oggi con un’allarmante diffusione dell’attività di falsificazione dei beni culturali (per un valore di 167 milioni di euro nel solo 2017), complice anche il facile reperimento e smercio online, ma anche una scarsa educazione alla cultura della legalità, alla conoscenza e al valore, complessità e unicità dell’arte e del contesto che l’ha prodotta. Accanto alla repressione del falso d'arte, l’educazione civica e una sinergia con la ricerca accademica sono gli strumenti adoperati da quest’anno dall’Arma dei Carabinieri.
Il convegno “Dentro il falso: indagini interdisciplinari” svoltosi nei giorni scorsi a Ca’ Foscari ha invitato specialisti in archeologia, architettura, epigrafia, chimica, archivistica e numismatica a confrontarsi sul tema dei ‘falsi’ come risultato di un processo culturale e come ponte tra il mondo antico e l'epoca che li produsse. Senza addentrarsi nelle origini o motivazioni dei falsari (riconoscendo eppure una certa ammirazione per alcune figure particolarmente capaci), si può ripercorrere l’evoluzione storica del concetto di falso, scoprendo talvolta dei veri e propri “fake” d’autore o scivoloni storici.
L’intenzione di dolo, collegata al desiderio per certi versi feticistico di possedere, o vedere, l’originale e alla carenza di offerta antiquaria cui sopperisce la falsificazione, differenzia il falso dalla copia o replica di un oggetto antico, concetto sovente assai positivo. L’educazione al valore dell’arte e al suo contesto si rendono indispensabili per Diego Calaon, archeologo e Marie Curie Fellow a Ca’ Foscari: “Quando un frammento del passato ha valore solo all’interno del sistema paesaggistico monumentale che lo ha prodotto, il possesso del singolo oggetto si rende inutile perché incapace di parlarci del suo complesso valore relazionale”.
Le monete furono probabilmente tra i primi oggetti riprodotti e adulterati: dei ‘falsi d’epoca’ piccoli e seriali passavano facilmente di mano in mano. L’amore rinascimentale per l’antichità stimolò poi il collezionismo numismatico, che produsse copie per studio (in un’epoca ben lontana dall’ausilio fotografico) e ingannevoli riproduzioni per lucro. Gli esempi portati a Ca’ Foscari da Antonella Arzone, curatrice della Collezione numismatica dei Musei Civici di Verona, mostrano particolari finezze possibili solo a chi entrasse in possesso di monete originarie.
“Uno degli aspetti più difficili da riprodurre - confida Arzone - è la patina che il tempo crea sulle antiche monete in rame e in bronzo. Anche i falsari più capaci, quali il tedesco Wilhelm Becker o il greco Christodoulous che incidevano a mano i propri coni e rifondevano il metallo da monete originarie, sono stati infine scoperti, ma intanto le loro monete circolavano sul mercato o erano addirittura parte di collezioni museali!”.
I falsi moderni sono forse i più insidiosi, una frode diffusa per lo più in Internet anche per poche decine di euro, ma arginabile da specialisti capaci cogliere indizi inconfutabili: bave sul bordo, tracce di abrasione meccanica, di saldature o pesi non conformi, differenze nella produzione per coniazione o fusione o di più moderne elettrofusioni, presse idrauliche fino alla stampa 3D.
Dove l’analisi visiva è limitata, le tecniche di indagine diagnostica possono contribuire al corretto riconoscimento dei falsi. “Risalendo alla composizione molecolare ed atomica possiamo identificare il materiale, i possibili stadi e stati di degrado e di conservazione, fino al periodo e all’area geografica di produzione e di utilizzo” spiega Giulio Pojana, professore di chimica del restauro a Ca’ Foscari.
Per i beni culturali sono oggi disponibili tecniche diverse a seconda del tipo di manufatto, da quelle meno invasive e portatili, come quelle di imaging (raggi X, fluorescenza, riflettografia IR per identificare i disegni preparatori sotto lo strato pittorico), a quelle spettroscopiche, che sfruttano le radiazioni elettromagnetiche e che prevedono comunque una interazione non distruttiva tra gli strumenti e i manufatti.
Vi sono poi tecniche di datazione (termoluminescenza, radiodatazione, dendrocronologia). I risultati analitici risultano però incompleti se non contestualizzati e riletti da esperti dei materiali, di storia e iconologia. La celebre Vinland Map è un esempio che fece scalpore: questa presunta mappa precolombiana sarebbe infatti stata disegnata su una pergamena effettivamente quattrocentesca, eppure gli inchiostri analizzati mediante varie tecniche diagnostiche risultarono posteriori, negandone un’autenticità dibattuta per quasi quarant’anni.
La falsificazione è poi stata strumentale nell’attestazione di diritti inesistenti. È il caso dei falsi documentari e in epigrafia. “Garantire l’autenticità di un documento era prerogativa di un apposito ceto di tecnici della scrittura nell’antica Grecia e a Roma, dove nacquero i tabellioni e i notai” spiega Raffaele Santoro, Direttore dell’Archivio di Stato di Venezia.
Il collasso degli archivi municipali nell’alto medioevo portò però alla diffusione di innumerevoli falsi tramandati negli archivi ecclesiastici (come non tornare alle conseguenze della cosiddetta Donazione di Costantino, in realtà del VII sec.?); solo con l’avvento della diplomatica, nella seconda metà del ‘600, si riconobbe nuovamente la necessità di una disciplina che distinguesse il vero dal falso – necessità che si trasla oggi nel mondo informatico contro le ‘bufale’ dell’informazione.
“Chi ruba una volta è sempre ladro”: eppure un’informazione falsa può celarsi anche nei corpora più genuini e con la buona fede di chi li raccolse o trascrisse. Perfino il Petrarca citò erroneamente Tito Livio riportando l’iscrizione su una stele funeraria a Padova appartenente in realtà a uno schiavo. “Fake news from the past” che necessitano di un esame contenutistico-verbale, paleografico e del supporto.
Per le iscrizioni epigrafiche Lorenzo Calvelli, vincitore di un PRIN con l’Università Ca’ Foscari, sta mettendo a punto una banca dati che dovrebbe non solo arginare il fenomeno della diffusione di falsae, ma favorire il confronto e lo scambio tra studiosi internazionali. A “EDF - Epigraphic Database Falsae” collaborano esperti in epigrafia e in digitalizzazione per creare schede identificative che traccino la storia di testi e immagini di iscrizioni non genuine, dal contesto di produzione a quello di trasmissione, relazionandolo con altri documenti: un approccio interdisciplinare che permetterà il reperimento delle informazioni online ad accesso libero e gratuito.
Anche il Comando speciale dei Carabinieri per la Tutela Patrimonio Culturale (TPC), utilizza una banca dati in supporto all’attività investigativa. Vengono predisposti dei “documenti dell’opera d’arte” rubata o di dubbia autenticità (1.230.000 sono ancora da ricercare, sugli oltre 6 milioni di oggetti inseriti dall’ideazione del database nel 1989); includono ove disponibile un’immagine per l’identificazione e i confronti automatici, descrizione materiale e storica dell’oggetto, delle acquisizioni e dell’evento occorso.
“L’Italia è l’unico Paese al mondo ad essersi dotato di un’unità investigativa sui reati contro il patrimonio culturale, cioè chi introduce o sottrae, commercia o autentica consapevolmente contraffazioni, copie o imitazioni per trarne profitto” sottolinea il Maggiore Christian Costantini, comandante del Nucleo TPC di Venezia. Il CNAC (Consiglio Nazionale Anticontraffazione) ha inoltre diffuso tra le best practices in materia di comunicazione un decalogo contro le truffe, per il collezionista o il semplice cittadino incappato nella ‘vera occasione’. Le opere di arte contemporanea sono tra le più copiate, con il 75% sul totale dei reati nel 2017. “I falsari prediligono in particolare autori come Vedova, Schifano, Warhol e Tano Festa, poi De Chirico, Mušič, …” continua Costantini.
Proprio dei presunti De Chirico e Mušič, assieme a un Nino Caffè e un’anfora che si voleva greca, sono tra le opere sequestrate ed esposte a Venezia in occasione del convegno “Dentro il Falso”, che pone le basi per un confronto e una collaborazione interdisciplinare a tutela dell’arte e del cittadino.
Hélène Duci