E se fossero stati i carboidrati a far sopravvivere l’Homo sapiens?

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Uno dei ciottoli della grotta di Dzudzuana su cui è stato applicato uno strato di Provil © HEREUTZ dove rimangono intrappolati i granuli di amido.

Il fortunato incontro tra la chimica (dell’ambiente) Elena Badetti e l’archeologa Laura Longo, entrambe cafoscarine, ha permesso di acquisire nuovi dati e informazioni inaspettate dallo studio di una serie di ciottoli ritrovati dagli archeologi del Museo Nazionale della Georgia nella grotta di Dzudzuana, ai piedi del Grande Caucaso, grazie alla integrazione di tecniche di imaging, ossia ciò che è possibile vedere, con la caratterizzazione chimica, per l’analisi dello spettro del non visibile.

L'ingresso della grotta di Dzudzuana, Georgia

Il connubio tra discipline STEM e archeologia intrapreso presso il Dipartimento di Scienze Ambientali, Informatica e Statistica ha consentito l’applicazione di tecniche di analisi avanzate su reperti solitamente poco o per nulla studiati, che raccontano quello che finora l'archeologia non aveva ancora indagato. 

Il prelievo e lo studio di frammenti microscopici ritrovati sulle superfici utilizzate e nella porosità superficiale delle pietre hanno permesso di rilevare la presenza di granuli di amidi, eccezionalmente conservati dopo 36.000 anni, ma anche resti di fibre e di altri composti vegetali colorati.

La ricercatrice e l’archeologa ci hanno accompagnato in questo viaggio nel tempo. 

Come hanno preso il via le vostre ricerche?

Alla base c’è una precisa domanda: quale può essere stato uno dei motivi per cui Homo sapiens riesce in poco tempo, 5-6.000 anni, a stabilirsi in territori già abitati da un’altra specie - i Neandertaliani – e a sopravvivere in un contesto nuovo, a volte ecologicamente e climaticamente inospitale, quindi in competizione con altri ominidi già stanziati? La capacità di sfruttare in modo efficace  diverse risorse di cibo potrebbe aver fatto la differenza. Ma come dimostrarlo?

Il primo obiettivo che ci siamo poste con i colleghi coinvolti nei progetti è stato quello di dimostrare che l’Homo sapiens fosse in grado di macinare parti di piante, in particolare quelle ricche di amido, per nutrirsi. Questa capacità di trasformazione della materia vegetale da parte di Homo sapiens è stata effettivamente dimostrata attraverso le tracce d’uso, tipiche di un’azione meccanica, che sono state trovate sulle superfici di decine di pestelli e ciottoli risalenti al periodo conosciuto a livello scientifico come MIS3 (ossia 60 - 25 mila anni fa). Tali superfici si sono anche dimostrate delle trappole in grado di trattenere nelle scanalature o nella porosità superficiale della pietra dei residui del materiale vegetale, tra cui gli amidi, probabilmente macinato da Homo sapiens

Il primo articolo sulla effettiva conservazione dei granuli di amido rinvenuti su ciottoli provenienti da siti della Steppa Pontica - Brinzeni I, una grotta in Moldavia, da Kostenki Markina-Gora, un accampamento sulle rive del fiume Don, e da Surein I, un riparo sotto roccia in Crimea, è appena uscito su Scientific Reports. Questo lavoro multidisciplinare, che si avvale anche dell’uso della luce di sincrotrone, ci ha permesso di identificare e caratterizzare granuli di amido, che sembrano provenire da tuberi, rizomi e anche da semi (ma non dai cereali ai quali siamo abituati oggi), macinati con ciottoli risalenti a 36 mila anni fa. 

Sulla scorta di questi incoraggianti risultati abbiamo continuato a verificare la nostra ipotesi nella zona caucasica del Ponto Eusino, dove l’Homo sapiens, potrebbe essersi preparato del cibo usando dei ciottoli come macine e pestelli, sfruttando le risorse disponibili nell'ambiente freddo e arido delle steppe dell’Eurasia e grazie a questo efficace adattamento sia stato in grado di sopravvivere anche ai “cugini” neandertaliani. 

 

Come avete estratto i granuli di amidi dalla pietra?

Per copiare le superfici abbiamo applicato sulla pietra uno strato di Provil © HEREUTZ, lo stesso silicone che usano i dentisti per prendere le impronte dei denti, al quale si possono attaccare dei frammenti saldamente adesi alla superficie della pietra, tra cui anche del sedimento, o incastrati nei pori superficiali. Quasi fosse un peeling della superficie della pietra, questa procedura ci permette di catturare materiale interessante, insolubile in acqua, da analizzare sul Provil stesso, e di studiare la parte sottostante della pietra che rimane “pulita” e priva di potenziali contaminazioni. 

In questo modo abbiamo potuto estrarre i granuli di amido, che essendo piccolissimi,  per essere visti richiedono l’uso della microscopia ottica e SEM. Oltre ad essere piccoli, i granuli di amido rinvenuti sono anche pochi in numero, motivo per cui la loro caratterizzazione chimico-fisica ha richiesto tecniche di analisi quali la spettroscopia FTIR con la luce di sincrotrone. Abbiamo verificato la diretta associazione tra i granuli di amido intrappolati nella zona utilizzata delle pietre – con evidenti tracce d’uso –, e quindi siamo risalite al fatto che i ciottoli fossero stati raccolti e utilizzati intenzionalmente allo scopo di ridurre in una specie di sfarinato rizomi, tuberi, e anche qualche seme. I dati che abbiamo raccolto ci consentono di affermare che i primi Homo sapiens che hanno colonizzato le latitudini boreali sapevano sfruttare efficacemente le piante ricche di amido che avrebbero quindi fornito loro una adeguata quantità di calorie, utilissime in quelle rigide condizioni climatiche.

Dato il risultato incoraggiante, abbiamo continuato ad applicare il nostro approccio metodologico integrato a 6 pietre provenienti dai livelli più antichi della grotta di Dzudzuana. Di nuovo si trattava di semplici ciottoli, alcuni anche frammentari, a cui nessuno aveva ancora dato alcuna importanza ma che erano stati saggiamente raccolti in fase di scavo e conservati nelle collezioni del Museo Nazionale della Georgia a Tbilisi. Anche in questo caso avevamo di fronte due sfide: da una parte dimostrare che quelli intrappolati fossero granuli di amido, e oggi possiamo affermarlo con certezza, e dall’altra capire a quali piante potevano corrispondere, studio che è ancora in elaborazione. A questo scopo abbiamo iniziato a costruire una collezione di confronto residente al DAIS: ad oggi consta di 150 differenti piante – compatibili con quelle presenti nella steppa pontica – che sono servite per preparare i granuli di amido moderni. Stiamo studiando questi granuli sia dal punto di vista morfologico, sia da un punto di vista chimico (mediante tecniche spettroscopiche e spettrometriche), cercando anche di ‘invecchiarli’ con una camera climatica per vedere se presentano strutture simili a quelle degli amidi rinvenuti sui ciottoli dei siti paleolitici. Una caratteristica comune a tutti gli amidi, la forma a croce maltese, è stata riconosciuta anche sugli amidi antichi, ancora ben visibile al microscopio ottico quando si usa la luce polarizzata, anche se sono granuli ‘vecchi’ e poco gonfi, perché probabilmente disidratati. 

La forma a croce maltese, caratteristica comune a tutti gli amidi, sugli amidi antichi

 

Qual è il contributo innovativo di Ca’ Foscari a questo tipo di ricerche?

Senza dubbio l’approccio metodologico. Da un lato stiamo lavorando per fornire una nuova metodologia per l’estrazione di residui vegetali dai reperti archeologici. Dall’altro lato stiamo associando alla metodologia più convenzionale l’imaging alla chemoprofilazione, che ci permette di studiare anche sostanze di dimensione inferiore a quella nanometrica fino ad arrivare alle molecole.

Abbiamo pertanto associato la metodica con la microscopia ottica in luce a fondo chiaro e in luce polarizzata ad osservazioni con microscopia elettronica a scansione (SEM), che offre una maggiore risoluzione dei dettagli morfologici, con la caratterizzazione chimico fisica e la determinazione attraverso la spettroscopia infrarossa delle principali bande riferibili ai gruppi funzionali caratteristici dei granuli di amido. 

Per analisi più precise – con l’uso dell’infrarosso – sui granuli archeologici abbiamo utilizzato la linea SISSI-Bio disponibile presso Elettra Sincrotrone Trieste, a Basovizza (Science Park). Siamo andate a vedere quelli che sono considerati dei semplici sassi sotto una prospettiva molto differente, scoprendo così un sistema estremamente complesso e ricco di informazioni.

 

Avete trovato altri materiali incastrati nelle pietre?

Si, del tutto inaspettatamente abbiamo trovato delle fibre, alcune anche colorate, per la caratterizzazione delle quali le analisi sono ancora in corso. Sappiamo che sono resti risalenti a 36.000 anni fa e stiamo continuando a studiare i frammenti e a compararli con la collezione di confronto che, anche in questo caso, abbiamo dovuto costruire da zero. Per condurre lo studio sulle pietre georgiane abbiamo vinto un bando competitivo lanciato da The Leakey Foundation (USA). 

Con lo studio delle pietre provenienti dal Caucaso, la nostra collezione di confronto si sta arricchendo di piante da cui si potevano ottenere fibre, utili per l’intreccio e per la produzione di cordami, o altri composti quali i flavonoidi. 

La caratterizzazione delle fibre è in fase avanzata soprattutto grazie alla collaborazione con due gruppi di ricerca dell’Università di Padova, coordinati dal professor Gilberto Artioli e dal professor Moreno Meneghetti. Le fibre archeologiche rinvenute sono colorate e si stanno analizzando in una camera bianca, quindi in un laboratorio “pulito” e appositamente attrezzato che consente di  lavorare in condizioni controllate e di evitare le contaminazioni moderne.

Le indagini proseguiranno anche grazie ad un bando PRIN che abbiamo appena vinto con i colleghi dell’Università di Firenze, i professori Luigi Dei ed Emiliano Carretti. La nuova fase ci consentirà di sviluppare anche un nuovo metodo, utilizzando dei materiali assorbenti avanzati che permetteranno di estrarre i granuli di amido e altri residui dalle pietre e sedimenti, e poi di rilasciarli per poterli, quindi, caratterizzare con maggior dettaglio.

Pensiamo di essere sulla strada giusta: infatti – grazie ad un progetto ANR finanziato dalla Francia - collaboriamo anche con un gruppo di ricerca di Marsiglia e della Sorbona. I gruppi francesi stanno elaborando i dati ottenuti dalle sequenze genetiche disponibili in speciali “biblioteche” dove i dati dei genomi antichi e moderni vengono depositati. Di nuovo una concreta applicazione delle STEM alle Humanities, che ci permetterà di verificare se nei geni dei 3 “attori” umani – Homo sapiens, neandertaliani e denisoviani – presenti sulla scena della steppa eurasiatica a partire da 60.000 anni fa, ci sono differenze che influiscono sulla digestione di determinati nutrienti. Nello specifico, il tentativo è mirato all’identificazione di alcune speciali ripetizioni di geni nella sequenza di DNA già noti, i genomi, che possono dare informazioni sulla funzione dell’enzima amilasi necessario per digerire i carboidrati. 

Siamo davvero soddisfatte, abbiamo sviluppato collaborazioni a livello nazionale e internazionale. Rispetto all’archeologia tradizionale, che lavora su ‘cose grandi’, noi ci concentriamo sulla parte invisibile ad occhio nudo e stiamo coniugando le Humanities con le STEM per capire se l’accesso ai carboidrati può essere una delle ragioni del successo di Homo sapiens rispetto alle forme umane precedenti e se aveva altre abilità, ad esempio la trasformazione delle fibre vegetali, che ne hanno garantito la sopravvivenza.

Sara Moscatelli