Molte delle persone richiedenti asilo si trovano in condizioni di “vulnerabilità”, nozione che viene impiegata anche in ambito legale e politico in materia di asilo. Eppure questo concetto è vago e manca di una formulazione chiara ed esaustiva rispetto alle situazioni concrete. Come si utilizza questo termine nella normativa e nelle prassi riguardanti la protezione internazionale? Corrisponde alle effettive situazioni di “vulnerabilità” vissute dalle persone che richiedono protezione? Ha indagato queste questioni il progetto di ricerca internazionale VULNER - Vulnerabilities under the Global Protection Regime, finanziato dall’Unione Europea (Horizon 2020) e coordinato dal Max Planck Institute for Social Anthropology. VULNER coinvolge una rete di 25 ricercatori e ricercatrici di 8 paesi diversi (Belgio, Germania, Italia, Norvegia, Canada, Libano, Uganda e Sudafrica) che lavorano sul territorio con comunità di migranti.
I risultati intermedi, basati sulla prima fase del progetto, sono stati raccolti in un report da Sabrina Marchetti e Letizia Palumbo, sociologhe dell’Università Ca’ Foscari, che si sono focalizzate sulla situazione italiana. Ne emerge che la normativa nazionale in materia di migrazione e asilo non contiene una definizione di vulnerabilità, ma individua un elenco di gruppi considerati ‘vulnerabili’ (come ad esempio i minori, le vittime di tratta o le vittime di violenza). Questo approccio rischia di non tener conto della dimensione contestuale della vulnerabilità e delle situazioni personali, che possono riguardare anche casi specifici che esulano da quelli descritti in elenchi di gruppi “standardizzati”. Una considerazione più approfondita delle diverse situazioni di vulnerabilità, che non si riducono a elenchi predefiniti, mira a superare discriminazioni nei confronti dei richiedenti asilo.
La ricerca sul caso di studio italiano si è svolta tra febbraio e ottobre 2020 e si è basata sull’analisi del quadro normativo e delle linee guida amministrative sul tema di immigrazione e asilo, confrontati con interviste condotte da Dany Carnassale, ricercatore del team, a chi lavora nell’ambito dell’accoglienza a stranieri a diversi livelli. Focus dell’indagine è stato l’impiego della nozione “vulnerabilità” nelle procedure di asilo e in quelle relative al permesso di soggiorno per motivi umanitari (attivo fino al 2018): la vulnerabilità del richiedente è in quest’ultimo caso, nelle pratiche ancora aperte, uno dei principali fattori di valutazione per l’ottenimento della protezione. È stata prestata particolare attenzione alle vittime di tratta, ai problemi di salute mentale e alle richieste di protezione basate sull’orientamento sessuale, sull’identità o espressione di genere e sulle caratteristiche sessuali.
“La credibilità delle storie e delle caratteristiche personali che contribuiscono alle situazioni di vulnerabilità dei/delle migranti viene spesso valutata dalle autorità competenti attraverso un approccio stereotipato e standardizzato, che considera solo alcuni frammenti dei vissuti delle persone, senza effettuare un’analisi complessiva ed integrata dei diversi fattori in gioco” spiegano le autrici.
Secondo avvocati e operatori umanitari intervistati, prevale ancora una concezione genderdizzata, sessualizzata e culturalizzata di alcune vulnerabilità che rischia di discriminare alcuni gruppi. Le linee guida istituzionali, che pure facilitano l’individuazione delle situazioni di vulnerabilità, dovrebbero essere aggiornate frequentemente perché rischiano di escludere dalle forme di protezione alcune persone in seria difficoltà.
Le situazioni di vulnerabilità delle persone migranti non sono solo determinate dalle condizioni vissute nei paesi di origine. Possono essere prodotte e aggravate anche dal contesto sociale e istituzionale del paese di arrivo, per esempio se il sistema di accoglienza è inadeguato, se non c’è alternativa al lavoro nero e in condizioni di sfruttamento o se ci si imbatte in ostacoli burocratici che bloccano le procedure di asilo.
Anche la recente pandemia dovuta al Covid-19, per esempio, ha colpito in maniera differenziata classi sociali, settori economici, professioni, genere ed etnie diverse. Gli immigrati sono stati tra i primi a pagarne le conseguenze, a causa di precarie condizioni lavorative, giuridiche e abitative. La loro situazione ha influito sul rischio di contagio, ma anche sulla possibilità di subire gravi complicanze o di morire di Covid-19.
Le navi-quarantena per la sorveglianza sanitaria dei migranti e dei richiedenti asilo, hanno inoltre interferito con le procedure di accoglienza per molte migliaia di persone in difficoltà, che pure non erano state riconosciute come persone in situazioni di vulnerabilità.
Nonostante le rigidità legislative, nella pratica in Italia vediamo che giudici e Commissioni Territoriali pongono un’attenzione crescente ai diversi fattori personali e di contesto che concorrono a produrre situazioni di vulnerabilità.
“Come è emerso dalle interviste, oggi sono particolarmente evidenti i limiti di un approccio basato su definizioni prestabilite dei casi di vulnerabilità, che ne trascura gli aspetti situazionali. Le riforme legislative e politiche restrittive in materia di migrazione e asilo, introdotte in Italia negli ultimi anni, producono o aggravano situazioni di difficoltà. I migranti, compresi i rifugiati, sono costretti a seguire rotte pericolose e a vivere, una volta arrivati in Italia, in una condizione di precarietà e incertezza che favorisce l’esposizione a dinamiche di sfruttamento”.
Il progetto VULNER, che terminerà nel 2022, può contribuire anche su scala nazionale a mettere in luce lacune istituzionali sulla nozione di ‘vulnerabilità’ e a sollecitare l’adozione di interventi che sappiano agire sui fattori strutturali che generano situazioni di vulnerabilità.