A livello sanitario e sociale la pandemia di Covid-19 ha interessato le classi sociali, i settori economici, le professioni, i generi, i paesi, i territori, in maniera differenziata. Gli immigrati, per esempio, sono stati tra i primi a pagarne le conseguenze a causa delle loro condizioni lavorative, giuridiche e abitative. Anche adesso, durante la campagna vaccinale, le disuguaglianze a livello mondiale sono evidenti.
La Special Issue The Coronavirus Crisis and Migration nella rivista Two Homelands (indicizzata Scopus), con guest editors Francesco Della Puppa e Fabio Perocco del Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali, è uno dei primi lavori internazionali che esamina a livello globale le conseguenze della pandemia sulle condizioni sanitarie, lavorative, amministrative e abitative di immigrati, migranti e richiedenti asilo.
Gli autori presentano la situazione in diversi paesi, tra cui India, Bangladesh, Giappone, Grecia, Macedonia del Nord, Italia, Usa, Brasile.
Il prof. Fabio Perocco, professore di Sociologia e curatore della rivista, ci spiega come una situazione pre-esistente già segnata da una lunga crisi economico-sociale, una grave frattura ambientale, dalle crisi dei rapporti di genere e di quelli razziali, sia culminata con la crisi sanitaria in una colossale crisi globale. “Da questa “crisi delle crisi” – conclude Perocco - non è esagerato parlare di quella attuale come della società dalla crisi strutturale”.
Professore, quali sono le caratteristiche della crisi da Coronavirus?
Ha profonde radici ecologico-sociali e presenta diversi aspetti. In primo luogo, è un sintomo dello stato attuale dell’ambiente, del rapporto tra uomo e ambiente, capitalismo e ambiente. Ed è anche una cartina di tornasole, uno specchio, che mette a nudo i problemi strutturali delle società contemporanee, una metafora della crisi epocale della società odierna.
In secondo luogo, la crisi da Coronavirus ha rappresentato un formidabile acceleratore sociale, un potente fattore d’accelerazione di processi sociali pre-esistenti ad essa, quali l’individualizzazione del rapporto di lavoro, l’atomizzazione dei luoghi di lavoro (e di altri luoghi significativi come scuola e università), la precarizzazione strutturale del lavoro, l’aumento dei working poor, la polarizzazione sociale interna agli stati. Così come un acceleratore di tendenze come il commercio on line, le consegne di cibo a domicilio, l’industria dell’intrattenimento domestico, il work-from-home, il remote working. Questi ed altri fenomeni, precedenti la pandemia, hanno ricevuto da essa un forte impulso, facendo un salto di quantità che talvolta è divenuto un salto di qualità, come nel caso della crescita rapidissima e su larga scala della didattica a distanza – che talvolta ha comportato la trasformazione della natura stessa della didattica (per esempio la liofilizzazione dei contenuti dell’insegnamento o la sua trasformazione in prodotto delivery on demand). Il 2020, oltre che “Anno della pandemia globale” o “Anno della paura”, si può considerare anche “Anno della grande accelerazione”.
In terzo luogo, per il mercato la pandemia ha rappresentato un’opportunità per riorganizzarsi, per espandere ulteriormente il proprio raggio di azione, penetrando ancora più a fondo in tutte le sfere della vita sociale, come il tempo libero o la socialità. Benché ogni crisi abbia le proprie specificità, nelle crisi e attraverso le crisi il mercato e il sistema economico si riorganizzano, e nel far ciò riorganizzano l’intera società.
Infine, la pandemia costituisce anche un detonatore sociale: fa convergere e aggrovigliare contraddizioni, disagi e rischi sociali. Questo da un lato può alimentare il caos sociale, da cui possono uscire soluzioni negative; dall’altro può sostenere processi favorevoli a giustizia sociale, ambiente, benessere.
Quale è stato l'impatto sociale della pandemia?
Gli studi contenuti nella Special Issue mettono in luce che a livello sanitario e sociale il virus e la crisi da Coronavirus hanno interessato le classi sociali, i settori economici, le professioni, i generi, i paesi, i territori, in maniera differenziata. Poi, che la crisi da Coronavirus, oltre ad aggravare le disuguaglianze esistenti, le ha trasformate e ne ha create di nuove. Infine, che l’affermazione secondo cui il Coronavirus è un grande equalizzatore è sbagliata poiché la possibilità di contrarlo, la prevenzione e la cura del Covid-19, la severità e la mortalità da Covid-19, ma anche la vita quotidiana e le condizioni di vita ai tempi della pandemia, sono legati a molteplici e specifici fattori sociali oltre che sanitari.
Nel primo lockdown alcune categorie di lavoratori e lavoratrici hanno avuto un’esposizione al virus particolarmente forte e prolungata: non hanno potuto evitare di recarsi al lavoro, non hanno potuto lavorare da casa essendo occupati in lavori “essenziali” o lavorare in maniera protetta. Alcune fasce di popolazione sono state più interessate dalla trasmissione del virus non potendo proteggersi in modo adeguato e tenere il distanziamento fisico: disponibilità di abitazioni spaziose, automobili, dispositivi elettronici, servizi a pagamento, etc. Anche la suscettibilità alla malattia non è stata uniforme. Il Covid-19 ha seguito e si è disposto lungo le stratificazioni presenti nella società, replicandole.
Come è già successo in occasione di altre epidemie influenzali, la distribuzione disuguale della morbilità e della mortalità è anche stato l’esito delle disuguaglianze nei determinanti sociali di salute, delle strutture di stratificazione sociale (professione, reddito, istruzione, etc.), di condizioni sociali impari. Non solo la possibilità di contrarre il virus, ma anche la possibilità di subire gravi complicanze o di morire da Covid-19, la vulnerabilità al Covid-19, sono legati al gradiente sociale di salute, in definitiva alla classe sociale.
Anche in questa occasione si è verificata una sindemia (o meglio: una pan-sindemia) – definita in letteratura l’insieme di condizioni endemiche ed epidemiche strettamente correlate (Hiv, tubercolosi, mst, epatite, cirrosi, mortalità infantile, abuso di droghe, suicidio, omicidio), influenzate e sostenute da un complesso di fattori economici e sociali – derivante dall’interazione tra malattia infettiva e malattie non trasmissibili, distribuite in maniera disuguale in base al gradiente sociale. Il Covid-19 ha colpito in maniera più grave gli anziani ma anche gli individui affetti da altre patologie (diabete, disturbi cardiovascolari, tumori, patologie del sistema immunitario), le quali sono legate ai determinanti sociali di salute.
Esempi di questo impatto differenziato?
Gli Stati Uniti, dove c’è stata una peculiare situazione sindemica: a livello di fattori sociali, i ricercatori sottolineano che il razzismo ha avuto un peso rilevante sull’impatto sanitario del virus e sulle conseguenze sociali della crisi da coronavirus, con esiti alquanto peggiori per la popolazione afroamericana. Tanto che il razzismo viene considerato un determinante sociale (o politico) di salute, e quindi una questione di salute pubblica.
La condizione generale dei neri ha rappresentato l’humus in cui si è sviluppata la sindemia da Coronavirus, con uno stato di salute Covid-correlato più grave tra di essi (ma anche tra latinos e nativi americani). Il razzismo, in quanto elemento strutturale della società statunitense, ha rappresentato un fattore importante nella concentrazione della malattia e della mortalità tra i neri: così come il modello sociale dell’ipertensione e del diabete, anche il Covid-19 risulta legato ad un sistema di oppressione razziale; in pratica il razzismo ha replicato i modelli storici di disuguaglianza all’interno di questa pandemia. Sovra-rappresentati nei lavori essenziali, i neri sono maggiormente interessati da diabete, cancro, patologie cardiovascolari, e queste condizioni di co-morbilità sono una causa dell’alto numero di morti tra i neri. La disparità nei livelli di positività, ospedalizzazioni, co-morbilità, severità e mortalità da Covid-19, è legata alle profonde disuguaglianze storiche che con la crisi del 2008 si sono acutizzate e che con la pandemia si sono ulteriormente approfondite: disoccupazione e sottoccupazione, ad esempio, hanno colpito soprattutto neri, latinos, immigrati di breve corso, donne, giovani bianchi. Se si guarda la cartografia dei contagi e della mortalità a New York, si nota la sovrapposizione con i quartieri neri o bianchi. Altro esempio è il Brasile, dove le disuguaglianze razziali di salute si sono riprodotte in maniera ineluttabile.
Quali conseguenze ha avuto la pandemia sulle migrazioni e sui migranti?
Facendo riferimento agli immigrati, per molteplici ragioni essi sono risultati molto vulnerabili alla crisi da Coronavirus: per la loro condizione lavorativa (concentrazione in settori essenziali, lavori manuali e precari), giuridica (status di stranieri), abitativa (spazi limitati e sovraffollati). Sono stati molto colpiti da disoccupazione, sotto-occupazione, peggioramento delle condizioni di lavoro, impoverimento, a causa di vari fattori: forte presenza in settori colpiti dalla crisi sanitaria (alberghiero, ristorazione, lavoro domestico) e ad alto livello di informalità e irregolarità; concentrazione in mansioni a bassa qualifica; condizione amministrativa spesso instabile, derivante dal legame tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno; subordinazione dei diritti sociali allo status migratorio. La maggior parte di essi ha dovuto accettare qualsiasi condizione di lavoro per salvaguardare il permesso di soggiorno o il posto di lavoro. Ciò ha intensificato de-qualificazione lavorativa e professionale, de-salarizzazione: in un contesto di disoccupazione e inasprimento delle politiche migratorie, ai fini del mantenimento o ottenimento di un lavoro – necessario per conseguire o rinnovare il permesso di soggiorno – si sono adeguati a qualifiche e salari più bassi, orari più lunghi e ritmi più intensi. In alcuni comparti si sono registrati inasprimento dello sfruttamento lavorativo, acutizzazione delle discriminazioni sul lavoro, focolai (macelli, hub della logistica, aziende alimentari).
Facendo riferimento ai richiedenti asilo, essi hanno vissuto pesanti conseguenze – sanitarie e sociali – dovute alla loro strutturale fragilità sociale. Talvolta i centri di accoglienza e i campi per rifugiati non sono stati in grado di garantire distanziamento fisico, igiene e sanità pubblica. Oltre al sovraffollamento, spesso i contagiati non sono stati evacuati dalle strutture, diffondendo il virus all’intera struttura. Nella gestione dei positivi più di qualche volta sono state adottate misure difformi e improvvisate.
In molte parti del mondo hanno perso il lavoro o hanno visto crescere il lavoro irregolare. Ciò ha determinato un aumento dell’inattività e della monotonia per chi vive nei centri di accoglienza, specialmente nei lockdown, durante i quali sono cresciuti sovraffollamento forzato, senso di abbandono, abbattimento. Si sono aggiunti l’incertezza del soggiorno dovuta alla sospensione delle domande di asilo e dei permessi di soggiorno, l’indebolimento dello status giuridico prodotto dallo stato di emergenza, la chiusura delle frontiere e dei corridoi umanitari, l’interruzione della fornitura dei servizi di accoglienza e integrazione.
Tutto ciò ha aggravato una situazione già compromessa e deteriorata dalla fatica della migrazione, dalle cattive condizioni psico-fisiche dovute al viaggio e alla vita nei campi, dal clima anti-immigrati che imperversa in gran parte del mondo; ha inciso negativamente sull’esposizione al virus e sull’inserimento sociale, gettando nel limbo migliaia di persone; in particolare ha pesato sia su coloro che non hanno ottenuto la protezione umanitaria o l’asilo sia sui fuoriusciti dai sistemi di accoglienza e protezione internazionale – gli undocumented per capirci.
Spesso sono stati oggetto di biasimo e stigmatizzazione: le strutture di accoglienza e i loro residenti sono stati additati come degli untori. Alla distorta immagine pubblica del richiedente asilo come fannullone, scroccone e arretrato, si è aggiunto l’elemento del richiedente asilo come “pericolo sanitario”. Con conseguenti situazioni di esclusione e razzismo.
Facendo riferimento agli emigranti in viaggio, pandemia e restrizioni hanno ridotto i movimenti emigratori e le partenze, ma, dato che le cause alla base delle migrazioni non sono mutate – anzi con la pandemia si sono approfondite – le partenze sono continuate ancorché in maniera più difficile, più disagevole, più pericolosa, più costosa.
La chiusura di frontiere, porti e canali legali, l’inasprimento delle politiche migratorie, la situazione di emergenza, hanno peggiorato le condizioni della migrazione – sia di coloro che erano già in cammino sia di coloro che sono partiti durante la pandemia. Il risultato: persone rimaste bloccate nei paesi di transito, ai varchi di frontiera, con pochi mezzi di sussistenza, scarso accesso ai servizi; una parte dei movimenti migratori scivolati in un limbo nebbioso, sempre più nelle mani di trafficanti e organizzazioni criminali. Tutto ciò ha aumentato il rischio e i casi di maltrattamenti, stupri, violenze; ha reso questi uomini e queste donne particolarmente vulnerabili.
Un’ultima battuta sui vaccini
Oltre alla disuguaglianza vaccinale tra Nord e Sud del mondo, i primi studi mettono in luce la disuguaglianza vaccinale che colpisce gli immigrati – specialmente quelli più precari. Questo è un aspetto su cui bisogna intervenire subito e un punto concreto per mettere alla prova tanti bei discorsi sulle disuguaglianze.