Dopo 20 anni le truppe USA si ritirano dall’Afghanistan e i Talebani riprendono il controllo del Paese a una velocità sorprendente. La capitale Kabul è capitolata in pochi giorni e si teme per il destino di un intero popolo che conta già migliaia di sfollati. Le donne Afghane, in particolare, sono le prime vittime di un ritorno al passato che è già pesantemente segnato da restrizioni e violenze.
Quello che sta accadendo in questi giorni in Afghanistan è l’ultima parte di un conflitto che dura da decenni e che, dal 2001, ha visto impegnata anche l’Italia a fianco degli Stati Uniti e degli alleati. Abbiamo chiesto al professor Simone Cristoforetti, esperto di Storia dei Paesi Islamici e docente del Dipartimento di Studi sull'Asia e sull'Africa Mediterranea, di aiutarci a inquadrare la situazione dal punto di vista storico.
Dalle origini a Osama bin Laden e all'intervento americano nel 2001
L'Afghanistan, che un diffuso e politicamente efficace ritornello vorrebbe "la tomba degli imperi", è un paese che vede la luce alla metà del Settecento, con il disgregarsi dell'Impero Persiano di Nader Scià e il coevo ridimensionarsi del controllo della dinastia indiana dei Moghul sulle proprie marche occidentali. Da quel momento, il regno afghano, nato con forti mire espansionistiche in direzione delle fertili piane dell'odierno Pakistan, fu retto fino al 1978 da regimi monarchici collegati con alcuni potenti clan del vasto tribalismo pashtun.
Durante l'Ottocento, il Paese dovette fare drammaticamente i conti con la pressione dei due grandi protagonisti della storia asiatica di quel tempo, l'Impero Britannico e l'Impero Russo, allora in competizione per assicurarsi la supremazia nell'area. Ciò portò a più riprese a un'escalation delle frizioni tra Afghani e Britannici, che sfociò in ben tre guerre, la terza delle quali terminò nel 1919 con la fine del protettorato britannico sugli affari del Paese. Ne seguì un periodo segnato da tentativi anche piuttosto significativi di modernizzazione, che portarono alla nascita di movimenti politici dalla tipica bipartizione novecentesca in un'area di Destra e una di Sinistra. Questioni collegate più con gli equilibri interni alla dinastia regnante che non con una vera e propria forza dell'opposizione segnarono nel 1973 la fine della monarchia afghana con l'esilio di Zahir Scià in Italia.
Tuttavia l'esperienza democratica avviata in quel frangente dal cognato di Zahir Scià fallì nei propri obiettivi e verso la fine degli anni Settanta il Paese finì col rientrare nell'orbita sovietica. Le fallimentari esperienze di riforme messe in atto dai regimi comunisti afghani che si alternarono in quella fase della storia afghana dovettero fare i conti, oltre che con le caratteristiche geofisiche del Paese particolarmente difficili, anche con i massicci finanziamenti statunitensi all'opposizione interna di matrice religioso-tradizionalista volti a mettere in difficoltà il tradizionale nemico sovietico.
Ne seguì un'escalation che portò all'invasione sovietica dell'Afghanistan a supporto del governo comunista locale e l'avviarsi di un processo di armamento delle popolazioni locali che ebbe l'effetto di generalizzare quella che ormai era vera e propria guerra civile che segnò l'ultimo ventennio del Novecento, finendo con l'emergere del movimento talebano e la formazione nel 1996 dell'Emirato dell'Afghanistan sotto la guida del Mullà Omar, il cui diniego alla richiesta statunitense di estradizione di Osama bin Laden ‒ che si riteneva fosse rifugiato in Afghanistan, anche se la cosa non è mai stata provata ‒ portò all'ultimatum e al successivo intervento americano nel 2001.
L'ascesa dei Talebani
Va rammentata in proposito la natura prevalentemente economica della presa di potere dei Talebani in Afghanistan, i quali ai loro esordi si configuravano come una milizia dalle solide connessioni pakistane armata di un ideologia di stampo fondamentalista semplificata all'osso. Nel caotico quadro di un paese allora sconvolto da anni di scontri tra gli eserciti rivali dei vari signori della guerra e profondamente frammentato in una pletora di distretti del tutto autonomi in cui chiunque fosse stato in grado di mettere in piedi un checkpoint poteva chiedere balzelli di ogni genere, i Talebani dietro lauti compensi di alcune compagnie di trasporti pakistane si assunsero l'incarico di scortare i convogli di camion fino ai confini settentrionali con gli stati centrasiatici (Tukmenistan, Uzbekistan e Tagikistan). Il successo conseguito alla rivitalizzazione del lucroso commercio via terra tra Subcontinente Indiano e Asia Centrale portò nelle tasche talebane i mezzi necessari ad aver ragione uno dopo l'altro dei signori della guerra locali e alla conseguente formazione di uno stato islamico nuovamente sotto il controllo centrale di Kabul.
Le caratteristiche geofisiche interne
Caratteristiche geofisiche del Paese particolarmente difficili, dicevo, e questo non è un elemento che si possa trascurare nel caso afghano. In Afghanistan, i confini più marcati sono gli spartiacque montani della catena himalayana dell'Hindu Kush che segnano il centro e le aree nordorientali del Paese, mentre vaste aree desertiche o semidesertiche ne tracciano i confini meridionali e occidentali. Dal punto geofisico, l'Afghanistan risulta così suddiviso al suo interno da elevatissime catene montuose in quattro macroregioni.
Questa peculiarità fa sì che l'Afghanistan sia uno stato i cui confini politici sono in molti casi ben più agevoli da attraversarsi che non le barriere naturali interne. E ciò non è certo privo di conseguenze quando si tratta di controllo del territorio. Infatti, se verso il Pakistan scendono numerosi corsi d'acqua che solcano vallate perlopiù transitabili e verso l'Iran si aprono vaste piane semidesertiche agilmente attraversabili con mezzi meccanici moderni, per recarsi dalla capitale Kabul in direzione di Mazar-i Sharif o di Herat è necessario inerpicarsi tra le montagne che per buona parte dell'inverno sono invalicabili. Tale conformazione, che tende a "isolare" gran parte delle aree interne dell'Afghanistan, spiega l'incredibile varietà etno-linguistica di questo paese, dove, oltre alle due lingue ufficiali, il pashto e il dari (o persiano d'Afghanistan), numerosissime altre lingue sono parlate da minoranze a volte numericamente anche molto consistenti, come per esempio gli Hazara.
Una simile situazione di marcata difficoltà nei collegamenti interni si rivela del tutto vantaggiosa per chi detiene il potere a livello locale, in aree prevalentemente segnate da un solidissimo tribalismo. Nel loro rapporto con il governo centrale i rappresentanti locali (spesso appartenenti a potenti famiglie di proprietari terrieri) tendono a ricercare il massimo vantaggio a livello locale con il minimo dell'impegno sul piano economico.
La nuova avanzata dei Talebani
Tale meccanismo appare in tutta evidenza nella progressiva "avanzata" dei Talebani di questi giorni che, più che essere contrassegnata da conflitti con forme di resistenza locale, nella maggior parte dei casi sembra configurarsi piuttosto come una sorta di vera e propria concertazione tra i nuovi bellicosi protagonisti politici e le "autorità locali", dove tale definizione non va certo a individuare i rappresentanti della collaborazione ventennale con la coalizione capeggiata dagli Stati Uniti, quanto piuttosto i capitribù più influenti dei vari distretti, in un morsa che dalle regioni periferiche è andata stringendosi verso Kabul, "conquistata" di recente.
A questo punto, rimane piuttosto angosciante l'incognita sulla sicurezza delle migliaia di famiglie coinvolte nelle operazioni delle forze statunitensi in coalizione con i paesi membri della NATO, il cui manifesto politico intendeva a restituire all'Afghanistan un regime di tipo democratico presidenziale su base costituzionale. La tenace resistenza messa in campo dal regime talebano, che a partire dal 2001 si trovò a fronteggiare la coalizione internazionale di occupazione, ha condotto il Paese in un'ennesima guerra civile. Si parla di oltre 150.000 morti ripartiti pressoché in egual misura tra civili, forze militari e di polizia afghane e combattenti dell'opposizione, senza contare le vittime dovute alle conseguenze dello stato di guerra.
Gli enormi sforzi militari ed economici messi in campo dalla NATO con il supporto di una vasta gamma di organizzazioni internazionali non governative si sono concentrati prevalentemente nei centri urbani maggiori. All'Italia era toccata la città di Herat, a nordovest, dove il contributo nazionale prevedeva l'impiego di un massimo di 800 militari, 145 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei, suddivisi tra personale con sede a Kabul e contingente militare italiano dislocato presso il Comando Herat.
Questa situazione spiega in parte perché il governo afghano centrale supportato dalle forze della coalizione internazionale non sia riuscito ad aver ragione della resistenza talebana, che tendeva a cercare appoggio ‒ anche se non sempre accolta di buon grado ‒ presso la gente di campagna. Infatti, in Afghanistan la popolazione rurale conta percentuali ancora molto alte (ben oltre il 70% del totale). Il parziale isolamento dovuto alle peculiarità del territorio, che rendono possibile un controllo effettivo delle principali arterie di comunicazione solamente durante il giorno e solamente in alcuni periodi dell'anno, e il tasso piuttosto elevato di analfabetismo fa delle aree rurali dell'Afghanistan i bastioni di un tradizionalismo che offre agilmente il destro alla strumentalizzazione politica.
Forti della conoscenza capillare del territorio, dei legami di solidarietà tribale e di basi logistiche in territorio pakistano, i Talebani, che sono perlopiù di etnia pashtun, cioè dell'etnia storicamente dominante nel Paese, hanno saputo sfruttare al meglio le innegabili difficoltà logistiche in cui versavano il governo afghano e le forze di coalizione.
Dopo vent'anni di una costosissima guerra che si era ormai cronicizzata, a fine febbraio dell'anno scorso gli Stati Uniti si sono visti costretti a incontrare a Doha, nel Qatar, i rappresentanti delle varie milizie talebane e a sottoscrivere un accordo per il ritiro delle proprie truppe dal Paese (la data definitiva prevista per il ritiro è il 31 agosto) in cambio dell'impegno da parte talebana di non minacciare in alcun modo la sicurezza degli Stati Uniti. Il governo afghano, che non ha preso parte agli accordi di Doha, si è rifiutato di avallare il trattato e in particolare le clausole relative al rilascio dei prigionieri di guerra. Tuttavia, il progressivo venir meno del sostegno militare della coalizione NATO, che sta smantellando in fretta e furia le proprie basi afghane, ha costretto il presidente in carica, Ashraf Ghani, a lasciare il Paese nello scorso Ferragosto.
Oltre all'urgente problema della sicurezza dei collaboratori afghani, che probabilmente comporterà un esodo di profughi in direzione del Pakistan, rimane sul tavolo la questione del trattamento delle consistenti minoranze non sunnite del Paese, nonché quella della condizione femminile che, se non certo risolta durante questi ultimi vent'anni, aveva visto almeno l'affermarsi di un atteggiamento positivo, soprattutto sul piano legislativo, nei confronti delle gravi disparità di genere che segnano la società afghana.