Dal 1° gennaio 2021 il Regno Unito non è più parte del mercato unico UE, le conseguenze per le imprese, per l’export, per l’esercizio delle professioni sono notevoli e cominciano già a farsi sentire.
Ne abbiamo parlato con Fabrizio Marrella, Prorettore alle relazioni internazionali ed alla cooperazione internazionale, professore ordinario di diritto internazionale e dell’Unione europea al Dipartimento di Economia di Ca’ Foscari e membro dell’Istituto di alti studi sul diritto internazionale e UE della Sorbona, a margine dell’Incontro Brexit e Diritto del Commercio Internazionale, tenutosi lo scorso 26 marzo
Dal 1° gennaio 2021 il Regno Unito non è più parte del territorio doganale e fiscale dell'UE. Quali sono i cambiamenti che saranno più evidenti e le aree investite da questa normativa?
In questi ultimi mesi abbiamo assistito ad un evento storico ove la famosa equazione di Marx per cui i rapporti politici, giuridici e sociali dipendono da quelli economici che ne stanno a fondamento è stata completamente ribaltata. La volontà politica cieca del Governo del Regno Unito di recedere a tutti i costi dalla UE è oramai compiuta, lasciando ora agli operatori pubblici e privati, in particolare le nostre imprese impegnate nel commercio internazionale con la Gran Bretagna, in un vero e proprio inferno dantesco. Finite le chiacchiere dei politici oggi dobbiamo lavorare in base agli strumenti giuridici operativi in vigore che sono principalmente l’accordo di recesso della Gran Bretagna dalla UE (ed Euratom) di 180 pagine ed il TCA (l’accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione) un secondo trattato di ben 1400 pagine, entrambi pubblicati nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea ed in italiano, dato che la nostra bella lingua è una lingua ufficiale della UE.
L’accordo di recesso, concluso in base all’art.50 TUE (Trattato sull’Unione europea), è entrato in vigore il 1°febbraio 2020 e regola il “divorzio” tra le Parti con effetto diretto ossia può essere invocato in giudizio dai cittadini di entrambe le Parti, in caso di contrasto con una norma (anche successiva) di diritto interno. Dal 1° gennaio 2021 il Regno Unito non è più parte del mercato unico UE, né ovviamente del territorio doganale e fiscale dell'UE; sono cessate rispetto a quel Paese le libertà di circolazione unionali e sono tornate le frontiere. A quell’accordo ha fatto seguito il Trade and Cooperation Agreement (“TCA”) del 24 dicembre scorso che ha scongiurato il “No Deal” ma che in realtà mi pare un half deal per regolare i rapporti tra la UE e la Gran Bretagna pro futuro. A dispetto delle sue dimensioni gigantesche, si tratta di un “accordicchio” in quanto vi si trovano regolati solo una parte dei rapporti economici tra le Parti, quasi esclusivamente il commercio delle merci. Cosa assai strana per un Paese come la Gran Bretagna la cui avanzata economia si basa in larga misura sui servizi e non certo sulla pesca.
Come cambiano le regole dell'export? Cosa succederà ai prodotti italiani?
Pensando finalmente al mondo post Covid, anzitutto nel TCA si prevede l'assenza di dazi e contingenti per le merci originarie delle rispettive Parti contraenti, ossia Regno Unito e i Paesi dell'Unione europea, ma resta fermo l'obbligo di assolvere le procedure doganali, anche se agevolate dall'accordo. E sono già cominciate le lunghe code di camion alle frontiere! Inoltre, ed è bene dirlo per le tante piccole e medie imprese italiane che commerciano con il Regno Unito, la vendita internazionale nei confronti di un importatore inglese non è più una semplice cessione intra-UE (con semplificazioni IVA e minimi obblighi di documentazione doganale). Oggi è diventata una “esportazione” di beni in senso pieno e dunque comporta precisi obblighi doganali (oltre che IVA) che riguardano, tra l’altro, la classificazione doganale delle merci, la dichiarazione doganale ed anche l’accertamento dell’origine delle merci, la quale va identificata tramite le apposite norme del TCA e degli allegati.
Se nei prossimi mesi i rapporti tra UE e Regno Unito dovessero deteriorarsi potrebbero essere adottati dei superdazi – ricordate le trade wars del Presidente Trump? - in grado di sconquassare l’equilibrio delle prestazioni previste nei contratti conclusi tra privati. Pertanto, anche sotto questo profilo, il contratto di compravendita internazionale andrà redatto con la massima cura facendo particolare attenzione, tra le altre, alle clausole Incoterms le quali, tra l’altro, ripartiscono gli oneri doganali tra il venditore ed il compratore (su questi ed altri aspetti rinvio al mio manuale di diritto del commercio internazionale).
Per quanto riguarda la materia dei contratti commerciali internazionali e delle controversie, come si procederà?
È evidente come per effetto del Brexit la giurisdizione inglese sia divenuta quella di un foro straniero a tutti gli effetti e le sentenze ed atti pubblici inglesi non possono più circolare liberamente come è avvenuto fino a pochi mesi fa grazie, tra gli altri, al Regolamento Bruxelles I bis (e non può avvenire oggi nemmeno in base alla Convenzione di Lugano come accade rispetto alla Svizzera).
Occorre sottolinearlo in quanto a volte in Italia nei contratti di trasporto marittimo o in alcuni contratti di assicurazione si trovano prestampate delle clausole di scelta del foro in favore dei giudici inglesi oltre alla previsione dell’applicazione del diritto inglese. Insomma, i risultati faticosamente acquisiti in decenni, tramite lo sviluppo di norme di diritto internazionale privato e processuale europeo non valgono più automaticamente nei confronti della Gran Bretagna (e viceversa). La buona notizia è che le vicende legate alla Brexit non hanno inciso sui trattati internazionali vigenti in materia di arbitrato sicché sia l’arbitrato commerciale internazionale che quello in materia di investimenti diretti esteri continuano a funzionare come prima essendo rispettivamente regolati principalmente dalla Convenzione di New York del 1958 e dalla Convenzione ICSID del 1965. Detto altrimenti, soprattutto in questa fase, occorre inserire nei contratti con operatori britannici delle apposite clausole arbitrali evitando prudenzialmente quelle di selezione di un giudice competente (c.d. forum selection clauses) in quanto, al di là della bassa velocità del giudizio, potrebbero verificarsi notevoli problemi di circolazione delle sentenze.
Il riconoscimento delle qualifiche professionali come avverrà?
Nell’accordo di recesso si parla di protezione dei diritti dei cittadini (europei residenti nel Regno Unito e britannici residenti in uno Stato Membro, compresa dunque l’Italia). Qui si precisa – ma il principio è ovvio essendo il Regno Unito divenuto uno Stato extra-UE – che, salvi i diritti quesiti prima del Brexit, il sistema di mutuo riconoscimento dei titoli e delle qualifiche professionali che vige all’interno della UE (ad es. tra Italia, Francia e Germania ma ricordiamoci che gli Stati membri sono ben 27) in funzione del mercato unico, non si applica più automaticamente nei confronti del Regno Unito cosicché titoli di studio od iscrizioni ad albi professionali (avvocati, architetti, commercialisti etc.) non sono più riconosciuti come equipollenti ai titoli ottenuti in uno Stato membro UE. Certo, in futuro potrebbero esserci dei negoziati su tali questioni ma allo stato dell’arte, titoli e qualifiche inglesi saranno oggetto di procedure di riconoscimento (anche complesse). Insomma e ad esempio se un avvocato inglese volesse oggi esercitare a Venezia o a Milano dovrà, al pari di un giurista americano o cinese, sottoporsi ad una particolare procedura che può prevedere anche un esame di Stato su tutte le materie per vedersi riconosciuto il diritto di esercitare la professione in Italia (e viceversa, ovviamente, ma un italiano oggi può muoversi facilmente nei 27 Stati membri UE).